Il mondo delle erbe, dei fiori e degli alberi è il nuovo soggetto poetico della raccolta Alle radici dei versi. Omaggio alle piante di Grazia Stella Elia, pubblicato nell’aprile del 2020 da Progedit di Bari con una prefazione di Pietro Sisto. Non è che la materia sia del tutto inusitata per l’autrice, perché il variegato e multicolore universo vegetale ha trovato una giusta collocazione già in precedenti componimenti della scrittrice.
Mi riferisco a diversi testi, ma in particolare alle sillogi L’anima e l’ulivo
(2011) e Canti dell’ulivo (2015), che le hanno valso la consacrazione di
«poetessa degli ulivi».

Ne deriva che un filone cospicuo della lirica di Stella Elia attinge linfa vitale all’humus del suo amore per la natura, che nella raccolta Alle radici dei versi risulta distillato, sia pure con intervalli più o meno ampi, attraverso un lungo arco di tempo, dal 1984 al 2020. È un limpido canto scandito da frequenti iperbati e modulato sui ritmi stagionali, che ipotizza un respiro e una spiritualità nelle piante: «Ha pure l’erba un fiato. / Tutte le erbe hanno un fiato. […] Anche le piante / hanno forse un’anima» (“Un fiato”). Infatti, se le «creature vegetali» hanno in comune con gli umani la fecondità (pp. 91-92), ogni albero è un «essere vivente» che somiglia agli uomini (p. 103), perché: «Hanno le piante, come noi, / il suono della vita» (p. 1).

Grazia Stella Elia, Alle radici dei versi,
Edizioni Progedit, Bari 2020

Così, pagina dopo pagina, sia pure dietro le figurazioni delle metafore e dei simboli, si delinea una sorta di Naturgeschichte, un abbozzo di storia naturale, che privilegia per scelta creativa il linneano “regno vegetale”, comprese le specie da giardino e d’appartamento, ma non dimentica tuttavia gli esseri umani, come le care amiche morte, donatrici di piante, o come la madre della poetessa, rievocata nella dolce distanza del ricordo, mentre a primavera nella frescura mattutina o al tramonto «sull’uscio di casa / assorta ricamava» (“Quando i primi tepori”). C’è posto anche per un tributo di ossequio ai poeti Angelo Lippo (p. 27) e Joseph Tusiani (p. 37) insieme al prodigioso Vincent van Gogh (p. 80), di cui la copertina del libro riproduce l’albero di pesco in fiore.

C’è posto anche per una citazione amicale come «l’autunno del cuore» (p. 47), che è un delicato omaggio a «l’autunno nel cuore» del “Senso delle cose” dello scrivente, una lirica tra l’altro dedicata a una comune amica.

Il rapporto non di rado dialogico della poetessa con la natura la spinge a volte al sogno: «Mandorli fioriti / sto sognando, / ciliegi di bianco ornati / come candidi altari, / peschi dal brillante color ciclamino, / albicocchi rosati […] Un aroma portami, / vaga primavera, / che di giovinezza sappia / e di vita. / Accendi in me la rosa!» (“Un aroma di te”). In altri momenti affiora il volto della sua terra col castello federiciano in lontananza (pp. 34, 90, 101 e 111), con la vecchia quercia di via Marconi (p. 133), oppure campeggia il formicolio della sua gente in una cornice sociale contadina e pastorale certo mitizzata (pp. 20, 23, 45, 83, 94 e 113), ma tutto sommato moralmente più sana sia dei vertici finanziari della comunità europea, pronti a immiserire una maestra di civiltà come la Grecia (pp. 76-77), sia del fanatismo islamico, capace di spargere terrore e sangue innocente nell’odiato Occidente (p. 88). D’altro canto, la morte è onnipresente nel ciclo perenne della natura e perfino il luminoso profilo della «casta diva» di belliniana memoria viene offuscato dal volo mortale delle foglie in autunno: «Divampa il plenilunio / e tu regina appari / nel cielo di ottobre. […] Nel silenzio / il fruscio delle
rinsecchite / farfalle / che vanno a morte / volando» (“Alla luna”).

L’allure dei trasparenti versi di Stella Elia introduce talvolta il gusto della rievocazione preistorica degli ipogei funerari di Trinitapoli (pp. 90 e 96) o più spesso inclina alla favola classica e pagana, che parla di divinità come Core, Afrodite, Demetra, Cerere, Diomede, Apollo e Dafne (pp. 15, 21-22, 29, 46, 72, 120 e 129) e si spinge fino a un inventare un parallelismo tra lei e la poetessa di Lesbo sul filo della raccolta lirica del 1997 Versi d’azzurro fuoco: «Vibrare ti sento / d’amore, / del tuo amore / di fuoco. / Un fuoco rosso / sfumato nell’azzurro / della tua grazia» (“A Saffo”). A questi richiami classici e pagani fa da contraltare la sua religiosità di credente, intenta a cogliere nel creato l’orma del Divino (pp. 53, 126 e 131).

Grazia Stella Elia

Dai vetri della sua cucina o dal ponte sospeso del suo balcone, dove coltiva la mentuccia e il basilico (pp. 34, 101, 111, 117 e 119), l’autrice può scrutare il paesaggio della sua città e del Tavoliere, rimpiangendo la perdita degli antichi «mignani» (p. 49), ma colloquiando di continuo con gli amati ulivi, per cui si è fatta «artigiana di parole» (p. 67), ancora una volta popolandone fittamente i suoi testi (pp. 43, 63, 69, 79, 80, 85, 89, 98, 99 e 105). Ma cede anche al fascino delle rose, sia nei ricordi d’amore (pp. 31 e 40), sia nella contemplazione dell’«eterea corolla» (p. 41), nel godimento della loro «fragranza» (p. 71) o nella tenera estasi della loro virginea purezza (p. 131).

Può darsi che l’abbinamento di papaveri e grano (pp. 72 e 96) o il richiamo alla timida pudicizia delle mammole (pp. 33, 58 e 70) possa sembrare talora vicino a immagini stereotipate, ma è sicuro che la predilezione della poetessa per le violette si riveste di mesta sincerità al pensiero del suo trapasso nell’aldilà: «Finire vorrei i miei giorni / al giungere / della primavera, / nel tempo delle viole, / perché una almeno / venga messa / tra le mie mani / e con me la porti / nell’Altrove» (“Le viole mammole”).

Un presentimento della morte, in realtà, l’aveva già colta tempo addietro, vedendosi proiettata su «un prato immenso / d’asfodeli in fiore», spinta da un vento «di gelo e di mistero» e assalita da un «presagio letèo» sottilmente conturbante (“Asfodeli”). La fine delle cose, in verità, è sempre in agguato e giunge impreveduta anche nel risveglio della primavera. La poetessa lo sa bene e lo traduce in versi, trasfigurando in sequenze emblematiche il risvolto crudele di certi accadimenti naturali: «Morire ha fatto / un impetuoso vento / la rosa / di maggio sbocciata. / Morire l’ha fatta / d’affanno, / ruvido scuotendola. / Superba era di bellezza: / di poesia profumava. / La corolla delusa reclinando, / s’è fatta recidere il cuore» (“La rosa di maggio”).

D’altra parte, la felicità è un bene sospirato, ma fugace in sommo grado: «Fuggitivi / i balenii di commossa gioia / che pareva traboccare. / Inafferrabile quel tanto / già diventato nulla. // Non rimane che / sul proprio io reclinare, / come l’ombra della sera / sugli ulivi» (“Sembra spogliarsi”). In effetti, i momenti di piacere sono soltanto oasi effimere nel corso della «non vita / di una vita intera» (p. 57), per cui, nelle spire del ripiegamento interiore, quasi non resta che idealmente smemorarsi in una verde plaga di solitudine serena: «Sull’erba dei prati / verde come la speranza / adagiarmi svagata, / immemore finalmente / degli affanni, / libera la mente, / serenamente sola» (“Sull’erba dei prati”).

Allora, per prodigio, si può tornare all’infanzia, per tramutarsi in fiore azzurrino e lepidottero leggiadro attratto dal cielo: «Bimba per miracolo / ritornata, / con spighe e papaveri / nel vento ondeggiare. / In fiordaliso mutata, / il mio azzurro / con l’azzurro del cielo / confondere. / Tutto dimenticare e… / corolla divenuta farfalla, / salire, salire, salire».

Così, in virtù di una metamorfosi ideale, si realizza l’ansia ascensionale della poetessa, pervenuta con levità e limpidezza di stile allo zenit di quelle «radici dei versi», da cui germoglia il fiore di una poesia senza orpelli.

Marco Ignazio de Santis