La vergine di Amherst

«Portatemi il tramonto in una tazza di tè». Chi scrive un verso del genere –appunto la poetessa di Amherst, piccolo centro del Massachuttes, è una divinità della poesia. È uno dei più bei versi della poesia di ogni tempo.

Otto parole: una voce verbale, un articolo determinativo, uno indeterminativo, due preposizioni semplici, tre sostantivi. Quasi nulla, eppure squarciano una radura. Aprono un mondo, su cui si potrebbe discorrere a lungo: ’Portatemi’. A chi si rivolge Emily? Emily la solitaria, quella perennemente vestita di bianco, che a mala pena esce dalla sua stanza?

Forse a chi le sta attorno? Ai suoi famigliari? O, genericamente, al lettore? Anzi: ai lettori. Noi le dobbiamo portare il tramonto, ovvero la quintessenza della tenerezza e della bellezza?

E già questo basterebbe. L’invito a portarle il tramonto è straordinario. E’ una metafora meravigliosa. Ma non finisce qui. “Portatemi il tramonto” poteva essere seguito da “sul palmo della mano” o, chessò, “in forma di regalo” o altro ancora. E già sarebbe stato magnifico.

E. DICKINSON, Poesie (a cura di) Gabriella Sobrino, Newton Compton 2014
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E no, qui c’è il fuoco d’artificio finale: “Portatemi il tramonto in una tazza di tè”. Arriviamo al sublime, perché portare il tramonto “in una tazza di tè” è ancora una metafora germinata da quella antecedente. Il colore del tramonto si confonde col colore del tè. E nel tè Emily intravede il tramonto. E il tramonto è l’ora del tè, almeno nella cultura inglese. E tutto – tramonto, tazza, tè, si mescolano e diventano un’unica entità. Un tutto unico nel quale nessun elemento può stare senza l’altro. Da allora tramonto e tè sono una sorta di archetipo.

È un verso di tredici sillabe, che si scioglie in una musicalità inarrivabile: «Portatemi il tramonto in una tazza di tè». Forse la magia è, almeno nella traduzione italiana, (azzardo un’analisi fonetica) nell’uso di poche e ripetute lettere: ci sono ben sei ‘t’, due ‘m’, tre ‘n’, due ‘i’, tre ‘o’,due ‘zeta’, due ‘e’, due ‘r’, due ‘a’. In sostanza l’Autrice mette in campo solo nove lettere. Nove lettere in 31 lettere complessive del verso.

O forse la magia è nel ritmo, per cui gli accenti tonici cadono sulla seconda sillaba, sulla sesta, sulla decima. Non so, alla fine si giunge al mistero della poesia: Giuseppe Ungaretti disse una volta che la vera poesia contiene in sé un segreto e credo che avesse ragione .
«Portatemi il tramonto in una tazza di tè» è un verso suggestivo, malioso, indimenticabile.
Ma chi era davvero l’Autrice di un verso come questo?

Emily Dickinson (1830 – 1886) è un mistero, forse anche a se stessa. Nacque da una famiglia benestante di origini puritane. Il padre ebbe importanti incarichi presso il Tribunale Generale del Massachussetts e poi anche al Senato e alla Camera dei rappresentanti. Insomma, un uomo di potere, che si attendeva che Emily si professasse (com’era d’uso) pubblicamente cristiana. Ed ecco che Emily compie la sua prima disobbedienza: non si dichiara cristiana. Ma il fatto è che la Poetessa futura infrange tutte le convenzioni e gli schematismi.

Per esempio, si usa ancor oggi affermare che l’artista ha bisogno, per esprimersi al meglio, di vivere situazioni avventurose, di conoscere gente e di viaggiare per il mondo. E, invece, Emily ci dice che non è così: lei trascorse gran parte della sua vita nella casa dove era nata. Ne usciva solo per qualche visita ai parenti di Boston. Ergo: la poesia non è nelle cose e negli avvenimenti, ma è nella mente e nell’immaginazione del poeta. Uno può stare chiuso in casa per tutta la vita, ma se è davvero poeta, scriverà versi memorabili.

Nel 1865 Emily, che ama profondamente la natura, ma che è ossessionata dalla morte, prende un’altra delle sue drastiche decisioni (doveva anche avere un bel carattere, questa ragazza americana di provincia): si vestirà solo di bianco. Perché? In segno di purezza e di rifiuto del matrimonio.
È vero che ebbe degli innamoramenti (per il reverendo Wadsworth, ad esempio), ma rimase un sentimento platonico, anche perché il pastore era già sposato con figli.

Dal 1855 decise invece di estraniarsi del tutto dal mondo: si rinchiuse nella sua stanza al piano superiore della casa paterna e praticamente non ne uscì più, neppure il giorno della morte dei genitori.
Ora, si dice che avesse disturbi di agorafobia o forse una forma di epilessia, ma da quella stanza parlò (e parla) a tutti:

È questa la mia lettera al Mondo
che non scrisse mai a Me
sono semplici Cose che Natura mi disse
con tenera Maestà

Il Suo Messaggio affido
a Mani che non vedo
Dolci Concittadini – per Suo amore
giudicate di Me teneramente

Otto versi di illuminata poesia, affidata anche a quell’uso tutto suo delle maiuscole (evidentemente là dove vuole che i lettori si fermino di più).

Lei parla al mondo ma scrive – con amarezza – che il mondo mai le scrisse. Il rapporto è unidirezionale: lei cerca l’empatia col mondo, ma dal mondo non viene nessuna risposta. Si sente incompresa (e certamente lo era: un’anima del genere è naturalmente incompresa), ma si sente latrice di un messaggio consegnatole dalla Natura. Lo affida ai posteri (Mani che non vedo).

E poi quell’ultimo verso che mi ricorda assai L’antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters. Ma siamo solo all’inizio del viaggio nella sua poesia.

Quando morii udii ronzare una mosca

«Venerdì ho assaggiato la vita. È stato un boccone immenso. Un circo è passato oltre la casa – anche se si è spento il suono dei tamburi ne sento ancora il rosso nella mente». Chi scrive così, la ragazza di Amherst, ha dentro il demone della poesia. Vedete come tutto le diventi in mano poesia: «ho assaggiato la vita» e «un boccone immenso».

E poi il magico «ne sento ancora il rosso nella mente». Ne sento ancora il ‘rosso’. Il rosso associato al suono del tamburo. Il suono del tamburo le evoca subito il colore rosso. Ed è così: il suono dei tamburi è corposo, solido, echeggiante, prepotente. Lo sappiamo ma nessuno ha avuto l’ardire di scriverlo come ha fatto Emily.

S’è detto della centralità della casa, nell’esistenza della Dickinson. La casa diventa lo spazio privilegiato in cui tutto accade. Da quella casa non esce, né con il corpo né con la mente. Lì tutto accade. Nasce, vive, muore. La casa per Emily non è affatto una sorta di reclusione, anzi è uno spazio di conoscenza:

Il trambusto di una casa
è l’attività più solenne
che si svolga sulla terra
Il mattino che segue la morte
Si spazzano i cocci del cuore
con cura si ripone l’amore
che non vorremmo più usare
fino all’eternità

Emily guarda ‘oltre’ e giunge a rendere sacro lo spazio domestico. Ciò che accade in una casa è l’attività più solenne che si svolga sulla terra. L’attività più importante, più utile, persino più sacra (lei scrive: solenne).

La casa è il punto di osservazione privilegiato. La finestra della sua stanzaè una sorta di televisione che proietta continuamente il mondo che c’è fuori. E lì fuori, nello spazio di pochi metri, lei vede ogni tenera cosa che accade, ogni movimento della natura:

Alle tre e mezzo
un uccello solitario
verso un cielo silente
alzò un’unica nota
di cauta melodia.
Alle quattro e mezzo, l’Esperimento

aveva vinto la prova
Ed ecco, la sua Teoria d’argento
ha prevalso su tutto
Alle sette e mezzo non più visibili
Elemento o strumento
E Spazio era dove prima era Presenza
tra i due, la Circonferenza

Certo, questa poesia è un po’ criptica (come tanti testi di Emily), ma lei ha un modo tutto suo di parlare del mondo. L’uccello solitario lancia una nota (un’unica nota di cauta melodia). Il suo (il canto) è un esperimento che dura un’ora, scrive Emily. L’esperimento riesce (in che senso? Il canto piace? Forse alla stessa poetessa?) e l’uccello ha messo in atto la sua Teoria.

Ora sono passate altre tre ore (sono le 7.30) e l’uccello non c’è più. Sono spariti l’elemento (l’uccello) e il canto (lo strumento). E lo spazio dove prima erano (uccello e canto) non è più come prima. Ora è rimasta una specie di circonferenza, un tutto unico.
Certamente, la poesia di questa giovane del Massachussetts ha una profondità insondabile. È una filosofa, oltre che poetessa.
Un tipo sui generis.

Qualcuno dei suoi biografi scrive: era considerata da coloro che la conoscevano come un essere strano. O più che strano, inquietante, misterioso.

È una donna che non si incasella nel cliché femminile della sua epoca. Per esempio odiava le pulizie di casa: «Preferisco la peste. È più classica e meno mortale». E si annoiava facilmente, perché non sopportava certi individui: «È stata una giornata maldestra, come lo sono le persone senza pretese, prive di bellezza intellettuale».

E lei si chiude lassù al primo piano, mentre gli altri in basso parlano quasi dimenticandosi di lei. È una che c’è e non c’è.

Ma tanto Emily deve aver capito subito che una persona che come lei ha pensieri di tale intensità, è destinata a restare sola. Può stare anche in mezzo agli altri fisicamente, ma resta sola. È stato il suo destino, ma anche la sua grandezza.

Ha una sua solitudine lo spazio

Si definisce sovente Emily Dickinson come ‘La vergine di Amherst’ dal momento che lei, dal 1865, decise di vestirsi solo di bianco, quasi a rivendicare il suo diritto alla verginità, ma non credo che sia l’interpretazione esatta. Sarebbe troppo banale, per una come Emily.

Credo che quel ‘bianco’ abbia voluto dire piuttosto l’assunzione di un compito, l’accettazione di un ‘incarico’. La presa di coscienza – aveva trentacinque anni – che la sua vita sarebbe stata dedicata alla poesia. Che era quello il suo faro, la sua strada, la sua verità. Chiunque mi avvicini sappia che io sono consacrata alla poesia.

Tant’è che nel 1878 avrebbe voluto sposare l’anziano giudice Oter Phillips Lord, di cui si era innamorata (e Emily aveva già 48 anni, troppi a quell’epoca per metter su famiglia), ma non se ne fece niente.

Allora: rifiutò di dichiararsi cristiana. Si vestì solo di bianco. Criticava suo padre: «È troppo impegnato per accorgersi di cosa facciamo. Mi compra molti libri ma mi prega di non leggerli perché ha paura che scuotano la mente”».

Questo padre in fondo ci fa tenerezza: lui acquista i libri per Emily (ha capito che quella figlia ha bisogno di ‘cibo spirituale’), però poi ne ha paura. Vuoi vedere che la mente di quella figlia così fragile ne potrebbe avere delle conseguenze? La lettura potrebbe turbarla, renderla ancora più inquieta. E allora ricorre al compromesso: te li compro, ma non li leggere.
Ma sa bene che la figlia li leggerà.

S’è già accennato al rapporto che ebbe Emily con la solitudine, alla quale dedicò versi stupefacenti:

Ha una sua solitudine lo spazio
solitudine il mare
e ha una sua solitudine la Morte
Eppure tutte e tre saranno folla
se le confronti al punto più profondo
segretezza polare
che è un’anima al cospetto di se stessa
finita infinità

Anche qui otto versi (è una maestra degli otto versi), ma che orizzonte!
Tutto ha una ‘sua’ solitudine: il mare, lo spazio, persino la Morte (per quanto Emily ci costringe a far navigare l’immaginazione: qual è la solitudine specifica del mare? In che consiste la solitudine dello spazio? La Morte in sé stessa è solitudine?), ma tutto è nulla di fronte alla ‘segretezza polare’ (che bella immagine!) che è un’anima ‘al cospetto di se stessa’. Il mare e lo spazio hanno una solitudine oggettiva, ma l’anima è sola nei confronti di se stessa. È lei che si avverte sola. Nella ‘segretezza polare’. E poi quei due sostantivi conclusivi: ‘finita infinità’. La solitudine è qualcosa di quasi palpabile (è finita) e metafisico al tempo stesso (infinità).

Eppure per Emily di Amhrest la solitudine è una compagna, perché favorisce l’immaginazione. Ed è l’immaginazione a favorire la felicità: si può essere felici – sia pure per pochi istanti, attraverso la fantasia. Da sola lei era libera. Con la solitudine lei proteggeva se stessa e la sua poesia. Aveva timore del mondo esterno, e non le occorreva visitarlo.
Lei già sapeva:

Non vidi mai brughiere
e mai non vidi il mare:
pure so com’è l’erica,
so quale aspetto ha l’onda

L’immaginazione sopperisce a tutto. Emily si sente davvero sicura nella sua stanza, dove può scrivere poesie anche di notte. Nessuno può disturbarla. Alla lunga la solitudine era diventata parte integrante di se stessa. Non una infelicità, ma anzi una tenera amica.

D’altra parte – s’è precedentemente detto – lei era ‘inaderente’ al mondo. Una sorta di disadattata, come scrive stupendamente:

Io mai quaggiù mi son sentita a Casa
E so che a Casa non mi sentirò
nello splendido Cielo
Non amo il Paradiso

Lì ogni giorno è Domenica
non c’è mai Ricreazione
e così solitario sarà l’Eden
nel fulgore dei meriggi, ogni Mercoledì

Se il buon Dio andasse in visita
o schiacciasse un sonnellino
tanto da non vederci – ma si dice
che Egli sia un Telescopio

che di continuo ci scruti
io vorrei fuggir via da Lui
dallo Spirito Santo – da Tutto
ma c’è il Giorno del Giudizio!

La bellezza di questo testo è anzitutto il primo verso: «Io mai quaggiù mi sono sentita a Casa». Una confessione sincera, autentica, semplice e incisiva. Emily si è sempre sentita fuori posto. E il bello – e qui comincia una sottilissima ironia – è che è certa che non si sentirà a casa nemmeno nell’aldilà, tanto più che non ama il Paradiso, dove ci deve essere una noia pazzesca.

B. LANATI, Vita di Emily Dickinson, Feltrinelli 2000
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E poi quel fatto che Dio ci scruta ogni momento con un telescopio, anzi è Lui stesso un Telescopio, è davvero disturbante. E cos’è, un regime di polizia? No, me ne scappo anche da Lui. Peccato, però, che c’è il giorno del Giudizio! Questo ultimo verso resta in sospensione: Emily sta ancora scherzando e non crede affatto che ci sarà il giorno del Giudizio o un po’ ci crede ed è questo timore che la mantiene all’interno delle regole?

Benedetta ragazza! Segregata nella sua stanza, ha una mente che sorvola tutte le vette del mondo.

Non potevo fermarmi per la morte

Certo, il linguaggio poetico di Emily Dickinson era semplice e brillante, sia nelle sue poesie sia nelle numerose lettere. C’è molto di inusuale, in lei – almeno per l’epoca (forse anche dopo): per esempio – s’è detto – l’uso delle maiuscole che a volte sembrano improprie o bizzarre; le lineette tipografiche che abbondano nei testi; i ritmi quasi salmodianti ; le rime del tutto asimmetriche; le voci multiple.

È davvero sorprendente che Emily abbia compiuto una rivoluzione nel linguaggio poetico senza una solida cultura letteraria di base, senza studi regolari. I temi di fondo sono quelli che via via andiamo affrontando: la casa, la solitudine, l’osservazione della natura. Uno potrebbe dire: allora viveva del tutto al di fuori del suo momento storico. E non è così, perché sapeva ciò che accadeva, là fuori nel mondo (La guerra di secessione americana) e in alcuni testi ci sono allusioni alle vicende storiche del suo tempo.

Un altro tema fondante questa meravigliosa poesia è quello della morte:

Annoda i Lacci alla mia Vita, Signore,
Poi, sarò pronta ad andare!
Solo un’occhiata ai Cavalli –
in fretta! Potrà bastare!

Addio alla vita che ho vissuto
E al Mondo che ho conosciuto –
E bacia le Colline, per me, basta una volta –
Ora – sono pronta ad andare!

Lei vive con un piede nella vita quotidiana e con l’altro è immersa già nel mondo che verrà : le basterà dare un’ultima occhiata al suo piccolo mondo domestico (un’occhiata ‘ai cavalli’), un addio all’esperienza umana che ha fatto (La Vita, il Mondo), un ultimo bacio alle Colline (i paesaggi) e poi sarà subito pronta ad andare. Non c’è mai disperazione, nella Dickinson, ma anzi una serena accettazione del destino umano.
Emily non teme affatto la morte:

Paura! Ma di chi dovrei temere?
Non della Morte – che non so chi sia –
Il Portiere allo Studio di mio Padre
Riesce a spaventarmi quanto lei

C’è, anzi, quasi un ininterrotto dialogo fra lei e la morte, sentita quasi come un personaggio, un Essere in carne ed ossa:

Poiché io non potevo fermarmi per la Morte
lei gentilmente si fermò per me.
La Carrozza bastava a contenere
Noi due soltanto e l’Immortalità.
Piano andavamo – non aveva fretta
Ed io avevo tralasciato
Il mio lavoro ed anche il mio riposo
Per la Sua Cortesia…

Vanno insieme, Emily e la morte, quasi a braccetto, come vecchie amiche decidono di trascorrere un pomeriggio insieme e che si trovan all’improvviso davanti a una casa «che somigliava a un’Onda della Terra».
Una casa inquietante che si affaccia sull’eternità. Del resto, sin dall’inizio nella carrozza erano state in tre: Emily, la morte e l’Immortalità.
Altre volte Emily affronta il tema della morte – che in lei è sempre presente – con una tenerezza infinita:

Se io non fossi viva
quando ritorneranno i Pettirossi,
date a quello in Cravatta rossa
una briciola in Memoria.

Se non potessi ringraziarvi,
essendo addormentata,
sappiate che cerco di farlo
con le mie labbra di Granito!

La poesia di Emily emoziona sempre, per le sue trovate, il suo ‘sguardo’ sul mondo. Pensa a quando torneranno i pettirossi (rigorosamente con la lettera maiuscola, perché tutto ciò che rappresenta la natura merita la maiuscola. È sacro) e affida (a chi? Alla sorella? Ai suoi? A noi-metaforicamente-suoi lettori?) di dare una briciola in suo nome. Non a tutti, però, solo a quel pettirosso con la ‘cravatta rossa’. Perché con quello ha instaurato una relazione profonda.

Mi ricorda il piccolo principe di Saint-Exupery e il rapporto con la rosa. Non con tutte le rose, ma solo con quella rosa con cui ha messo in piedi un rapporto affettivo.
Sì è vero, eticamente si dovrebbe amare il mondo intero (tutti i pettirossi), ma io amo ‘quel’ pettirosso. Per me ‘quel’ pettirosso con la cravatta rossa ha un significato speciale.

Certo, lei – se allora sarà morta cercherà di ringraziare – ma non avrà voce, perché le sue labbra saranno di granito. Ovvero impossibilitate a emettere suoni, ma lei c’è.

Concludo con una poesia che ci conduce al rapporto – che solo la Dickinson ha saputo esprimere in quel modo – tra la morte e la bellezza (il quale ultimo è un altro tema forte della poesia di Emily). È la splendida poesia seguente (le prime quattro parole sono uno stupore).

Morii per la Bellezza – ma da poco
M’ero assuefatta alla mia Tomba – quando
Un altro – morto per la Verità –
nel Sepolcro vicino fu adagiato

Mi domandò sottovoce perché ero morta –
‘Per la Bellezza’ – dissi.
‘Io per la verità:
è una cosa sola, siam Fratelli’.

Così – come congiunti che di notte s’incontrino –
dall’una all’altra Stanza conversammo –
finché le nostre labbra raggiunse il Muschio
e coprì i nostri nomi

Dovremmo restare muti davanti a tanta bellezza. Il dialogo fra Emily –morta per la Bellezza (nel senso che ha vissuto per la Bellezza) e quello che è morto per la Verità (nel senso che ha dato la vita per la Verità) – è stupefacente. Non sappiamo cosa si siano detti, ma si sono riconosciuti come fratelli. Bellezza e Verità sono la stessa cosa. Saranno fratelli per sempre, finché il muschio raggiungerà le loro labbra e coprirà i loro nomi.
Fino a quando diventeranno oblio.
Bellezza e Verità sono la stessa cosa e si uniscono nella Morte.
C’è materiale per un trattato. Per un corso di studi intero.

Ma veramente ci sarà un mattino?
La vicenda editoriale

La vicenda editoriale di Emily Dickinson è stata formidabile e imprevedibile. Ma lei si meritava tutto questo e non un tranquillo tran-tran: pubblicazione di libri, recensioni della critica, presentazioni pubbliche & C.
No, succede che Emily muore (15 maggio 1886), pare di nefrite (so che è una morte dolce, lentamente il corpo trapassa senza troppe sofferenze).

Quel giorno la campagna era stupenda, la giornata perfetta. In casa, sul pianoforte, mazzi di margherite e di mughetti. Il viso – dicono –mostrava un miracoloso ritorno alla giovinezza. Aveva cinquantasei anni circa, ma ne dimostrava trenta. Non un capello grigio, non una ruga, una pace assoluta sulla bella fronte liscia. Volle lasciare la casa – lo lasciò scritto – uscendo dal retro. Naturalmente era vestita di bianco e stretti fra le sue mani due colorati eliotropi, i suoi fiori preferiti.
Spirò alle ore 17.

Ma – terminata l’esistenza umana – ora comincia l’avventura editoriale. Emily aveva pubblicato nella sua vita solo sette poesie. Sia perché in fondo a lei non importava granché, sia perché si trovò davanti a degli individui di difficile definizione: lei inviava a qualche critico letterario i suoi testi ‘per vedere se respirano’ (si può dire in modo più soave? Non: se sono belli, se piacciono, se emozionano, ma ‘se respirano’) e in più di una occasione i cosiddetti critici reputarono ‘impubblicabili’ le poesie della Dickinson. Troppo poco elaborate. Linguaggio troppo semplice. Insomma, non capirono nulla: che dietro quel linguaggio ‘semplice’ si celava una complessità inaudita.

Ma la vita, a volte, risarcisce.
Al momento della sua morte la sorella Lavinia (Vinny) scopre nella camera di Emily diverse centinaia di poesie scritte su foglietti ripiegati e cuciti con ago e filo, tutti contenuti in un raccoglitore. Le legge tutte e ne resta incantata (ne conosceva solo alcune).

Emily è fortunata: quella sorella che le evitò tante faccende domestiche, fu anche quella che credette in lei fino al punto di impegnarsi alla pubblicazione di un libro, edito nel 1890. In verità ebbe un grosso aiuto da Mabel Looms Todd (amante del fratello di Emily), che era riuscita a farsi regalare da Emily parecchi testi.

Tra il 1924 e il 1935 vengono pubblicate altre trecento poesie di Emily Dickinson, rintracciate dalla nipote Martha. Diverse altre poesie furono ricavate dall’epistolario di Emily, nonché dai biglietti che lei usava spesso per accompagnare i doni che faceva a parenti ed amici.

Solo nel 1955 è pubblicata la prima edizione critica in tre volumi delle poesie di Emily: sono 1.775 testi, tutti senza titolo. E infatti ancor oggi le poesie della Poetessa vengono citate per numerazione: la numero 449, la numero 712 eccetera…

Insomma, la sublime Emily non ebbe riconoscimenti, durante la sua vita, ma sono certo che lei non se ne curò affatto, dandoci anche in questo caso una lezione memorabile: vedo tanti poeti (o presunti tali) alla caccia sfrenata di diplomi, targhe, premi, serate di autoincensamento e via dicendo. Emily ci dice che la cosa essenziale è immettere nel mondo – se ne si è capaci – una bella dose di bellezza e di verità. Il resto è narcisismo.

E poi, per lei fu una salvezza. Mai sia avesse avuto successo, in vita: avrebbe dovuto ricevere giornalisti, presenziare a serate, rilasciare interviste. Insomma, una catastrofe per lei che cercava la solitudine e il silenzio.

Sono anche certo che lei, dall’al di là, ci sta dicendo di lasciar stare queste bazzecole biografiche e di leggere e rileggere le sue poesie.
E allora, concludiamo l’intervento di oggi con qualche suo meraviglioso testo, come il seguente sulla bellezza:

La Bellezza non ha causa – Esiste.
Inseguila, e sparisce.
Non inseguirla, e appare.

Sai afferrare le Crespe

del Prato quando il Vento
vi intreccia le sue dita?
Iddio provvederà
perché non ti riesca

Anche in questo caso ciò che dice è sublime. Andare a studiare e ad analizzare la Bellezza è fatica inutile. Se ti metti in testa di capirne le origini, fallisci. Magari, quando non hai più voglia di capirla, lei ti appare.

E’ lo stesso Dio che ti impedirà di indagarla a fondo. «La Bellezza non ha causa – Esiste». È come l’aria, il cielo, l’amore. La vita stessa. Esiste. Insomma, come scriverà in un’altra poesia, «È, la Bellezza, un fatto di natura».

Emily scrisse naturalmente anche splendide poesie d’amore. Voglio terminare questo intervento con un’altra delle sue meraviglie:

Fai che per te io sia l’estate anche quando
saran fuggiti i giorni estivi

Noi, lettori del terzo millennio, non possiamo che tacere. Ogni nostra parola sarebbe sacrilegio.

Il vento bussò come un uomo stanco

Ci avviamo alla conclusione (ma con questi grandi della poesia in realtà non si conclude mai nulla) del viaggio attraverso la poesia di Emily Dickinson leggendo e commentando qualche altro suo scritto.
Per esempio la poesia n.501:

Questo Mondo non è Conclusione.
Vi è un seguito al di là –
è invisibile, come la Musica –
ma forte, come il Suono –
accenna, e quindi elude –
Filosofia lo ignora –
È solo l’Intuizione che alla fine
attraversa l’Enigma –
Han provato a risolverlo i Sapieni –
a conquistarlo , gli Uomini han patito
Secoli di Disprezzo
e mostrato la Croce –
La Fede trema – ride – si rafforza –

Se qualcuno l’osserva si fa rossa –
s’appiglia a un ramoscello d’Evidenza –
chiede la strada ad una Banderuola –
Dal Pulpito gesti affannati –
un rullare solenne di Alleluja –
non possono i narcotici sopire
il Dente che l’anima rode –

Emily qui chiarisce ai lettori le sue idee circa l’Oltre. Che ci sia un ‘al di là’, scrive la Dickinson, è assodato. La vicenda umana non si conclude con l’esistenza terrena («Questo Mondo non è conclusione»). Comprendere davvero cosa ci sia nell’al di là, è però impresa titanica. Tanti, sapienti e scienziati, hanno cercato di farlo, senza mai giungere alla meta, perché quel ‘sovramondo’ è invisibile. E qui Emily inventa un parallelismo tra quel mondo a venire e la musica. Anche la musica è invisibile, si sparge per l’aria lungo canali misteriosi. Il Suono ‘accenna’ ad altre realtà, ma è appena un cenno. La Filosofia fallisce. La verità è che solo l’Intuizione (la poesia, l’arte) può in parte attraversare l’Enigma, ma sempre con inquietudine.

Persino la fede religiosa, che si avvale di riti e canti (Alleluja) non riesce a «sopire il Dente che l’anima rode». Il poeta (e lei stessa, Emily) crede ad altri mondi, ma sempre per ‘visioni’ ed emozioni. È un viaggio sempre periglioso e incompleto (il ‘Dente’, che torna in molti testi di Emily).

Questa riflessione di Emily – che solo l’arte possa attingere l’invisibile, si rintraccia in molti suoi testi. La poesia è ricerca. La vita è ricerca, se no è nulla. Ci sono tre versi- al proposito – anch’essi memorabili:

Anima, corri il rischio,
essere con la Morte sarà meglio,
che esser priva di te

Bisogna cercare, meditare, ascoltare le voci di dentro. Andare nelle profondità dell’ essere. Tutto ciò costa fatica, impegno e persino ‘rischio’.

Il rischio di trovare il Nulla. O di scoprirsi diversi da ciò che pensiamo dai noi stessi. È una specie di seduta psicanalitica ininterrotta, al quale il vero poeta si sottopone. È un rischio, ma l’anima che non corre questo rischio, è meglio che si dissolva con la morte.
Vorrei continuare all’infinito, ma occorre pur mettere la parola fine a questo itinerario nell’anima di Emily Dickinson.

Termino con una poesia meravigliosa, a cui sono certo che lei tenesse molto. È una specie di sua dichiarazione sia di poetica che di finalità esistenziale (è la poesia n.1453):

Ciò che mai vorrei essere
è una Persona Finta, contraffatta –
qualsiasi sorta d’Ingiustizia debba
soffrir la mia Natura –
Mi sento meglio nella Verità –
è la Salvezza, il Cielo.
Che squallido Esilio è una Bugia,
e dichiarato – quando poi moriamo –

Grazie, Emily.

Qual è il segreto di Emily?
Conclusioni

Contravveniamo alla convinzione (credo vera) di Emily Dickinson, che la bellezza è misteriosa ed è vanamente analizzata da filosofi e teologi, psicologi e persino critici d’arte. Ma noi siamo umani e qualche risposta dobbiamo darla: qual è il segreto dell’incanto delle poesie di Emily Dickinson? È nella sua mente ‘divergente’? È nella sua estrema sensibilità? È nell’uso del linguaggio? E’ in una vena di follia?

Per tutti i grandi artisti la risposta è ardua, ma noi cerchiamo di rifletterci un po’: è in un’infanzia incantata? In un contesto familiare che ti accetta così come sei? È un ‘raggio mistico’ che proviene da un Oltre? È in una sospensione tra qui e l’Altrove? Ed era una ragazza di campagna, con ben pochi stimoli culturali dall’ambiente esterno. Una marea di gente scrive poesie che ci dicono poco o nulla, i testi di Emily ci fanno commuovere e tremare. Qual è il loro segreto? Avventuriamoci in qualche risposta.

Daniele Giancane