Estremamente stimolante è il quadro che emerge nell’atto di volgersi a quello che Francesca Tomassini ha, non a torto, definito un «teatro dimenticato», l’opera di quel Sem Benelli frequentemente accostato al D’Annunzio «in un’ impari lotta al sorpasso»1.

Il drammaturgo pratese fu collettore di suggestioni culturali di varia matrice, dall’avanguardia futurista, con la lotta antiaccademica del Mantellaccio, risolta in chiave più vicina alla sensibilità crepuscolare – (a tal proposito va rammentata la breve vicinanza con Marinetti, poi definito autorucolo di «libri osceni e stupidi fino alla nausea»2), alle suggestioni crepuscolari vive nel Tignola.

Sem Benelli (1877-1949)

E poi ancora dalla «follia citatoria»3 al superomismo, dall’enfasi declamatoria all’«aura numinosa»4 delle tragedie di Gabriele D’Annunzio (penso alle Nozze dei Centauri), sino a quello che, a torto, Croce avrebbe definito il «convulso e inconcludente filosofare»5 di Pirandello, attitudine che riecheggia in Ali, per certi aspetti prossimo, non solo cronologicamente, alla Vita che ti diedi del drammaturgo siciliano.

Eppure lo stile di Sem Benelli è riconoscibile e peculiare e numerosi suoi testi, sebbene variamente accolti da una critica non sempre imparziale, resistono tuttora alle forche caudine di una valutazione di carattere estetico. Alcune opere, non solo la famosa Cena cui deve la fama, ma anche il compatto dramma epico La Gorgona, in cui vibra un che di
sacrale, o, con ben differente impronta, l’agrodolce commedia Tignola
sono testi dalla tenuta piuttosto solida. Maggiore disomogeneità rivelano
invece drammi come l’interventista Le nozze dei Centauri.

A un primo atto bellissimo, immerso nel notturno lunare in cui si perpetra l’inganno ai danni del patrizio romano Crescenzio (con conseguente sgomento di una figura femminile prima profetica, poi furiale), seguono momenti non sempre convincenti, che indugiano troppo sugli effetti devastanti della sensualità medusea della protagonista Stefania, strumento della riscossa di Roma contro la barbarie germanica6.

Un altro aspetto interessante che subito s’impone agli studiosi dell’opera di Sem Benelli è stato messo ben in evidenza da Sandro Antonini, artefice di un ottimo profilo biografico dell’autore, che offre un valido esempio di come, muovendo dalla microstoria, si possa ricostruire l’accurato spaccato di un’epoca.

Esaminare il primo scorcio del Novecento secondo l’ottica di Sem Benelli equivale, come ha infatti scritto Antonini, a «valutare il regime fascista» dalla prospettiva «dell’intellettuale che non si rassegna, mira a conservare la propria specificità non iscrivendosi al partito e neppure al sindacato e rimane a lottare per l’idea in cui crede»7.

Dal fascismo l’intellettuale pratese fu reso oggetto di vera e propria persecuzione artistica, inviso com’era ad Achille Starace, per otto anni (dal 1931 al 1939) segretario del Partito Nazionale Fascista, e osteggiato come fu dalla censura, manovrata di volta in volta da non disinteressati burattinai. Lo stesso Mussolini mostrò nei riguardi di Benelli un atteggiamento di estrema ambiguità, che di certo non giovò a chi costantemente vide annullate le repliche dei suoi drammi, interdette le sue opere alle filodrammatiche, ostacolata la circolazione delle stampe dei suoi testi e persino vietato l’espatrio.

L’opera di Sem Benelli finisce con l’essere specchio di quel momento
storico, schiacciato tra la tragica conclusione della Belle Époque e i due
conflitti mondiali, in cui si rivela, per recuperare un’immagine di Sciascia riferita a Pirandello, «la feroce e grottesca maschera di un mondo convulso, impazzito»8. Questo nell’opera benelliana ora si intravede ora si coglie in maniera nitida, nello scatenarsi di un crescendo di feritas che conduce al trionfo delle forze dell’irrazionale.

La storia, soprattutto rinascimentale, diviene scenario privilegiato della crisi dell’apollineo senso della misura, ma meritevoli di attenzione sono anche quei testi benelliani, come Tignola e Ali, che, dismesso il gusto del dramma in costume, mostrano il fallimento dell’intellettuale che tenti di consacrarsi all’azione e, nel secondo dramma, coevo alle scorrerie delle squadracce fasciste, s’interrogano sulle azioni di una folla che «fa paura quando ha perso il ritmo dell’anima»9.

La produzione tragica benelliana si distingue per alcune costanti. Le
figure protagoniste degli intrecci si rivelano fragili esempi di vinti della
storia e della vita.

Questo appare evidente sin dalla prima commedia, in cui Giuliano incarna l’intellettuale contemplativo, simile alla tignola che in una scena
del primo atto il protagonista, insieme ad Adelaide, vede correre sui libri, suo dominio. Nessuno ha mai decantato la bellezza di quell’insetto,
osserva l’uomo. Essa vive nell’ombra e la luce del sole, «che un istante
la fa risplendere come una piccola gemma animata, subito la offende»10.

Stessa sorte toccherà all’uomo; abbandonata la libreria-tana, si porrà al
servizio del politicante elegante di turno, il Duca di Malò, per poi constatare la propria inettitudine al vivere la dimensione del negotium e ritornare nell’ombra, più anziano, più spento. L’opera, che di comico ha ben poco, eccezion fatta forse per la macchietta del professore universitario che replica da vent’anni le medesime lezioni, vive tutta dell’empatia che Benelli, sebbene psicologicamente così differente, avverte con il suo protagonista.

Pur registrandone la sconfitta, e anche il senso di derealizzazione, l’autore ne fa, insieme all’avaro Teodoro, proprietario della bottega, l’unico personaggio positivo dell’opera, in cui non si salvano il narcisistico e opportunista Duca di Malò; la romantica vaporosa e instabile, Adelaide; il giovane studente che recita la parte del Gualtier Maldé di turno; l’incostante Enrichetta, malata di bovarismo non meno dell’apparentemente più raffinata rivale11.

Nel dramma del 1921, un’altra figura benelliana avrebbe pagato lo scotto di un’aspirazione alla purezza inadeguata al tempo della storia.
Luca, il protagonista di Ali, profeta del verbo di un’ascesi totale, di una rinuncia ai piaceri, definiti come espressione del «bollore dell’essere» e «vie maestre di ogni inganno». In quello ch’è uno dei drammi più ragionativi dello scrittore pratese, la missione del giovane idealista diviene spesso argomento di contrasti verbali.

Il cinico giornalista Quaranta, in un serrato confronto, sostiene che l’uomo e lupo è bestia, rinnovellando il verbo hobbesiano, e nega la possibilità che si possa pervenire a un’armonia collettiva; Luca, invece, esalta l’elemento spirituale dell’uomo, in cui vede l’angelo. «All’uomo bisogna rendere la consapevolezza di essere la forza intelligente e luminosa del mondo», dichiara. Bisogna, per far ciò, scatenare Prometeo. Ingentilire l’uomo, affinarlo, «armarlo di ali e di spada contro il male che insozza»12.

Rivitalizzare la bellezza ch’è in ciascuno, preferire all’«abbondanza ottusa e indigesta» la rinuncia «che alleggerisce ed esalta»13. Quella che Luca propone non è una riforma politica, ma spirituale e, come tale, paga l’astrattezza di ogni progetto benelliano, quella che tarpò le ali alla Lega Italica, attirando peraltro sullo scrittore lo sguardo giudicante delle gerarchie fasciste all’indomani del delitto Matteotti.

Quaranta, al santo laico, obietta l’inesistenza di creature così pure da rinunciare alla corruzione del male. Lo stesso Luca si dimostrerà incapace di resistere alla tentazione e qui il dramma mostrerà qualche cedimento, dal momento che, a generare il cortocircuito emotivo, sarà l’innamoramento, prettamente sensuale, per il personaggio femminile di Marta. In questo si ravvisano affinità con la produzione dannunziana, nella misura in cui la figura femminile, concepita come Nemica, è additata come colei che, nella personalissima percezione del superuomo di turno, finisce con l’esercitare l’effetto di tarpargli le ali.

Peraltro proprio il dramma in questione reca una chiara condanna del verbo superomistico dannunzianamente inteso; non è un caso che Luca ne condanni l’«espressione egoista folle sino alla stupidità»14. In realtà da egotismo ed egoismo non è esente neppure lo stesso profeta, cui mancano quell’umano senso del perdono, quell’accettazione della comune fragilità che rappresentano le uniche modalità di instaurazione di rapporti empatici.

L’opera in questione ci sembra presentare interessanti affinità con La vita che ti diedi di Pirandello15, composta nel 1923, a cominciare dalla villa nella campagna toscana, ch’è teatro di una delle più belle tragedie pirandelliane e che in Ali è lo scenario del conclusivo scioglimento. Nel primo atto dell’opera benelliana, Luca, che rifiuta la morte della moglie, arriva, in un certo qual modo, quasi a imbalsamarla per consentire ai genitori della donna di recarle l’estremo saluto.

. Il gesto suscita la reazione contrastante del padre, che preferisce serbare il ricordo della giovinetta odorosa di primavera e di vita, piuttosto che quello di un «cadavere camuffato». La madre, invece, vorrà porgere l’estremo saluto alla giovane donna e, nel tentativo di serbarla viva nella memoria dello sposo, comincerà – cosa che apprendiamo negli atti successivi – a inviargli effetti personali della defunta moglie, oggetti che Luca tratterà alla stregua di reliquie. Anche Anna Luna cercherà di eludere la beffa della morte, continuando a dar vita dentro sé al proprio figlio e cercherà di attrarre nella finzione anche Lucia Maubel, l’amante del giovane.

Il finale di Ali, poi, vede Luca tornare a casa della madre a lungo abbandonata, perché mai perdonata per un suo peccato giovanile; la donna, tuttavia, gli rinfaccerà che quello ch’è giunto da lei non è suo figlio, ma il suo giudice.
Nella descrizione che ne renderà a Marta, quest’ultima stenterà a riconoscerlo, perché il nuovo Luca, asceta che s’isola dal consesso umano prediligendo la solitudine della montagna, le appare un estraneo. In modalità in qualche modo analoghe, ad Anna Luna il figlio tornato a lei morente e “cambiato” (non si può dimenticare l’ossessione di Pirandello, che tuttavia ha ben altre radici) apparirà un altro e questo, nel conseguente effetto di derealizzazione, le consentirà di abbarbicarsi alla vana illusione che suo figlio, quello vero, non giaccia inerme e privo di vita.

Anche il Luca protagonista di Ali morrà in casa della madre, ucciso da Marta, ma, paradossalmente, il momento del trapasso libererà l’angelo che si era assopito in quella folle ascesi e il giovane si spegnerà felice, per aver appreso la dolcezza del perdono che, seppur tardivamente, può ancora rendere la terra un paradiso. Tutto questo mentre lo scrittore registra il montare di una pericolosa irrazionalità: «Non è paese», evidenzia Luca «in cui la politica sia luce ed istigazione ad una vita eletta ed armoniosa»16. Parole quanto mai profetiche nel momento che preludeva alla marcia su Roma17.

Benelli registra sistematicamente la sconfitta della purezza, spesso insita nella hybris da cui quest’ultima non è immune. Bellissimo il primo
atto delle Nozze dei centauri in cui si consuma lo scacco di Crescenzio.
Patrizio romano, vessillifero della grandezza dell’italianità, l’uomo soccombe, perché ancora portato a credere nel valore della fides (caposaldo
del mos maiorum), sotto i colpi dell’ambiguo Ottone III. Quest’ultimo
diviene il bersaglio degli strali del poeta nel momento in cui, alla vigilia
dell’ingresso dell’Italia nel primo conflitto mondiale, si volevano aizzare
gli animi contro gli Imperi centrali.

Eppure se il puro soccombe nelle tragedie benelliane, l’impuro non gioisce. Questo accomuna tanto l’Ottone delle Nozze quanto l’Alboino della liberty Rosmunda, tragedie che accosteremmo – soprattutto la prima – alla vena artistica del Giulio Aristide Sartorio del fregio di Palazzo Montecitorio. Certo, alla Rosmunda manca decisamente l’«aura numinosa» che si respira nel primo atto delle Nozze, ma in entrambi i testi la barbarie è vinta.

Ancora una volta strumento della Nemesi è la figura femminile; nel caso di Stefania (che una variante della tradizione voleva effettivamente avvelenatrice dell’imperatore), la donna è identificata con l’Urbe, in quello della figlia del re dei Gepidi, con l’Italia stessa18.

I barbari conquistatori commettono l’errore di desi derare intensamente di essere amati, vittime del verbo, declinabile anche sul versante italiano, della Graecia capta ferum victorem cepit. Non è un caso che la Rosmunda presenti, tra le pagine più belle di un testo non sempre felicissimo, un panegirico, pronunciato dal re longobardo, della città di Verona. Nelle Nozze, prevale la componente oratoria e l’autore, a tratti, riesce a pennellare un’aura pressoché mitica; nel dramma longobardo, invece, sembra vibrare una profonda memoria shakespeariana, viva nella tensione alla commistione tra tragico e comico, anche all’interno di un medesimo atto, e nel tratteggio del rimorso e della successiva follia di Elmichi, chiaramente riconducibile, nella declinazione benelliana, al teatro elisabettiano.

Si potrebbe anche essere indotti ad accostare a Iago il protagonista della celeberrima Cena19, l’astuto Giannetto. In realtà, notevoli appaiono le differenze. Giannetto è l’uomo d’intelletto sopraffatto dall’esibita e insistita virilità dei fratelli Chiaramantesi, Gabriello, ma, inutile dirlo, soprattutto il villain dell’opera, Neri. Lo scacco dell’intellettuale al confronto con l’atletismo dell’antagonista si misura ancora una volta sul terreno dell’amore, quello, seppur di matrice sensuale, nei confronti della cortigiana Ginevra, alla quale, non a caso, le tre figure maschili centrali nel plot possono accostarsi soltanto per effetto del travestimento, rappresentato dallo scambio dei mantelli.

Giannetto dovrà indossare il mantello di Neri, per carpire col furto l’amplesso con la donna desiderata, e Gabriello quello di Giannetto, risultato momentaneamente vincitore della contesa con Neri per esser riuscito a farlo credere folle all’intero consesso fiorentino. Giannetto è indotto alla beffa atroce dalla volontà di riaffermare la propria personalità dopo gli oltraggi subiti, ma, sin dal principio, in un celebre monologo poi ridotto nella versione librettistica da Benelli realizzata per Umberto Giordano, il giovane sembra anche preda di una sorta di malefica fascinazione del male, che si traduce in un’ estetizzazione della vendetta20.

In realtà, in più di una circostanza, Giannetto cercherà di addivenire a una tregua con Neri, arrivando perfino a scongiurarlo di deporre l’ira. Il disprezzo del rivale non verrà mai meno e sarà espresso, per metafore, in uno dei passaggi più efficaci della tragedia. Agli umili tentativi di conciliazione di Giannetto, Neri aveva, nel suo parlare solo falsamente sconclusionato, accostato l’altro a un gatto che faccia le fusa in un fornello. «Accendi il fuoco e serra lo sportello!», aveva concluso, in maniera minacciosa21.

E poi ancora «La celia è come un gorgo», aveva detto Giannetto, «che travolge chi scherza con il fiume. / Non trascinarmi giù con teco insieme… / Chi sa chi resterà giù giù nel fondo». Neri aveva risposto: «Sì, volevo tuffarmi giù nel fiume; / ma c’era un pesce rosso che guardava… / e pareva una fiamma sanguinosa»22. Se l’allusione non fosse chiara già abbastanza di per sé, basterebbe ricordare che il primo ingresso di Giannetto in scena sarebbe avvenuto con indosso un «mantello rosso di fiamma», quello stesso mantello che campeggia nell’affiche realizzata dal celebre pittore Galileo Chini, divenuta un po’ il simbolo di tale poema drammatico.

Tra l’altro andrebbe precisato che Benelli, nel ridurre il poema alla versione librettistica di Giordano, oltre ad attribuire maggiore coerenza (anche accostandola più a Giannetto) alla figura di Ginevra, operava anche una sensibile riduzione di tutto il ricco patrimonio figurale della Cena, riducendone inevitabilmente la portata evocativa. Il delirio simulato di Neri, finalizzato a ottenere la libertà per poter assassinare Giannetto e trionfare sul nemico, veniva sfrondato di tutta la sua portata allusiva e immiserito in un ripetitivo e scialbo «Io sono… buono…». Non si comprendeva bene, infatti, alla luce dell’eliminazione dell’immagine del “pesce”-fiamma anguinosa in questo drenaggio di elementi metaforici, perché, in chiusura di velario, Giannetto dicesse sarcasticamente a Chiaramantesi: «Va, va, corri : precipita! Qualcosa / di rosso che ti chiama, c’è nel fondo…»23.

Si avverte immediatamente, nel poema drammatico, che qualcosa di ineluttabile sia nell’aria; se dovessimo ricondurre l’opera alla critica degli elementi di Bachelard, diremmo che sembra dominarvi l’immaginario acquatico, cui, non a caso, la figura maggiormente accostata è proprio
quella di Neri. Valga su tutte la bella similitudine di un’innamoratissima Lisabetta, anch’essa ridotta (ma non espunta) nel libretto: «Tu mi passavi accanto, come al rivo, / coperto di ranuncoli e di mammole, / passa il torrente: canta e seco mormora, / e nulla vede; e il rivo in lui si specchia…»24 Neri è assimilato a una forza inesorabile, che tutto trascina
con sé, per effetto della sensualità – che nelle donne ispira l’amore – e per
effetto dell’aggressività, che, guarda caso, declinata ai danni di Giannetto nell’antefatto, vedrà l’astuto protagonista immerso in Arno. La Cena è pertanto il poema dell’irrazionalità che trionfa, della razionalità che cerca di tenerle testa e, senza nemmeno accorgersi, invece, si lascia trascinare
nel gorgo della violenza.

Gianni Antonio Palumbo


1 F. Tomassini, Il teatro dimenticato del primo Novecento: i drammi in versi di Sem Benelli, in L’ Italianistica oggi: ricerca e didattica, Atti del XIX Congresso dell’ADI – Associazione degli Italianisti (Roma, 9-12 settembre 2015), a cura di B. Alfonzetti, T. Cancro, V. Di Iasio, E. Pietrobon, Roma, Adi editore, 2017, p. 1

2 Cfr. Sandro Antonini, che pur non manca di ravvisare echi futuristi nel dramma La maschera di Bruto, in Sem Benelli. Vita di un poeta: dai trionfi internazionali alla persecuzione fascista, Genova, De Ferrari, 2012, pp. 23-24.

3 Cfr., a tal riguardo, in relazione a D’Annunzio, G. Barberi Squarotti, Il simbolo dell’«Artifex», in Id., Gli inferi e il labirinto, Bologna, Cappelli, 1974, pp. 88-96

4 Cfr. M. Marinoni, Per una morfologia del tragico. Memoria, archeologia e déjà-vu nella “Città morta” di d’Annunzio, in «Sinestesieonline/Il Parlaggio online», Numero Speciale, Anno 5, Novembre 2016, s.p.

5 B. Croce, La letteratura della Nuova Italia: saggi critici, Bari, Laterza, 1940, VI, p. 362.

6 S. Benelli, Le nozze dei Centauri. Poema drammatico in quattro atti di Sem Benelli, con disegni di Rubaldo Merello, Milano, Fratelli Treves, 1915

7 Antonini, Sem Benelli. Vita di un poeta cit., p. 9

8 L. Sciascia, Pirandello e il pirandellismo: con lettere inedite di Pirandello a Tilgher, Caltanissetta, Salvatore Sciascia, 1953, p. 22

9 S. Benelli, Ali. Poema drammatico in quattro atti, Milano, Fratelli Treves, 1921, p. 117.

10 Id., Tignola, in Id., Tignola. La cena delle beffe, a cura di G. Davico Bonino, Milano, Arnoldo Mondadori, 1989, p. 53.

11 Sostanzialmente condividiamo, in merito a Tignola, il giudizio della Monaro. Cfr. J. Tragella Monaro, Sem Benelli, Bergamo, Industrie grafiche Cattaneo, 1953, p. 33: «Così si chiude quel dramma che rivelava in un giovane autore una non comune capacità drammatica nella ricerca dello spunto, nella creazione dei personaggi, nella coerenza dell’azione che si svolge senza incertezze, convincente fino alla conclusione, e in una comprensione umana verso la debolezza, verso l’illusione che non si realizza, verso il pianto della sconfitta». Non altrettanto positivo il giudizio su Ali (ivi, p. 151).

12 Benelli, Ali, cit., p. 58.

13 Ivi, p. 62

14 Ivi, p. 65

15 Per la lettura del testo, L. Pirandello, La vita che ti diedi, in Id., Maschere nude, a cura di A. d’Amico, con la collaborazione di A. Tinterri, iii, Milano, Mondadori, 2004 («I Meridiani»), pp. 250-302.

16 Benelli, Ali, cit., p. 63

17 Non è tuttavia da pensare che subito Benelli manifestasse atteggiamenti nettamente antifascisti. Come sottolinea Antonini, «se alla “marcia” credette in funzione moralizzatrice, fu presto deluso dall’andamento del fascismo» (Antonini, Sem Benelli. Vita di un poeta cit., p. 55). Emblematico il ricordo che Antonini ripropone, in cui Benelli, che si trovava a Trieste nei giorni della marcia su Roma, ricevé la notizia dell’evento da uno squadrista che annunciò come le squadre marciassero su Roma per ‘purificare’. «E mi parve un San Giorgio quel giovane pieno di ardore. Purificare! Oh, sante parole!» (Ibidem). Il poeta sarebbe andato candidato nel 1924, non senza perplessità e su pressione di Mussolini stesso, nel listone fascista, risultando eletto, quarto su venticinque candidati, per poi dimettersi nel corso dello stesso anno, dopo la breve esperienza della “Lega Italica”. Non è un caso che sia stato tra i firmatari del Manifesto degli intellettuali antifascisti.

18 Ci sembra a tal proposito di condividere un’osservazione di S. Tamiozzo Goldmann, Sem Benelli, in «Studi Novecenteschi», 13, No. 31, 1986, pp. 7-33 (19): «La prospettiva si connota definitivamente se consideriamo i personaggi femminili, sorta di controparte degli eroi benelliani, asse dialettico suscitatore di tensioni e portatore di un simbolismo giocato molto sull’identificazione Donna-Patria». Alla creazione delle stesse, secondo la
studiosa – e anche questo ci pare condivisibile – concorre una sorta di dannunzianesimo «soprattutto per un certo estetismo, che spesso affiora nelle pose languide e vagamente perverse delle eroine» (ivi, p. 20).

19 L’opera suscitò le perplessità di Gramsci, che, ingenerosamente, la definì «un castelletto di carta pesta e di stucco cinquecentesco», capace di far «rimpiangere anche la noiosa novella del Grazzini saccheggiata dall’autore» (A. Gramsci, Letteratura e vita nazionale, Einaudi, Torino, 1974, p. 252). Tra l’altro, in diverso contesto, a proposito di Lyda Borelli che soleva, a suo dire, ‘scandire’ «semplicemente i periodi» e non ‘recitare’, Gramsci scriveva: «predilige Sem Benelli, il quale scrive per la musica delle parole più che per il loro significato rappresentativo» (Ivi, p. 273). Alle limitazioni di Gramsci
e di altri si potrebbero contrapporre le osservazioni del Palazzi; cfr. F. Palazzi, Sem Benelli. Studio biografico-critico, Ancona, Giovanni Puccini e figli, 1913, p. 93: «I suoi personaggi non stanno su la scena con attitudini solenni o quasi solenni; vivono anzi di una vita realisticamente ritratta sin nei particolari meno poetici che fosse dato pensare; eppure anche la volgarità di un Neri acquista una certa tal quale dignità su quello sfondo storico su cui si muove. Sembra che riflettendo l’umanità nello specchio del passato, anche i pigmei assumano proporzioni più vaste del naturale, e che le colpe (…) prendano un aspetto maestoso e pittoresco».

20 S. Benelli, La cena delle beffe. Poema drammatico in quattro atti, Milano, Fratelli Treves, 1920, p. 13: «Sì, perché / un’altra donna ho tolto per amarla / assai piu bella e più lusingatrice … / Si chiama essa Vendetta. Io la saprei / dipingere cotanto l’ho sognata / e posseduta in sogno: la farei / tutta gaia beffarda e sghignazzante, / e in pieno riso mostrerebbe i denti / canini e gli occhi lampeggianti verdi. / (…) E la trista danzante ci direbbe: / Chi ama me tutte le donne ama; / chi ama me tutte le gioie tocca; / tutte le grazie esprimo io di me stessa».

21 Ivi, p. 123.

22 Ivi, pp. 123-124.

23 La cena delle beffe / poema drammatico in quattro atti di Sem Benelli; musica di Umberto Giordano, Milano, casa musicale Sonzogno, 1926, p. 53.

24 Benelli, La cena delle beffe, cit., p. 107.


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