Mariolina de Fano

Ero a Forenza, nel potentino, quando la sera del 18 agosto 2020 appresi la notizia della scomparsa di Mariolina De Fano, la rinomata attrice barese e amica. Generosa e socievole ci ha deliziati varie volte nelle manifestazioni letterarie del Movimento Internazionale “Donne e Poesia” che ha frequentato per anni. L’ho conosciuta a maggio del 1985 e da allora la nostra amicizia non si è mai interrotta. Quando tornava dai lunghi soggiorni romani di solito mi telefonava e conversavamo piacevolmente.

Mi aveva chiamato anche a fine febbraio 2020, comunicando il desiderio – già espresso in altre occasioni – di viaggiare insieme per degli eventi culturali. Ci teneva soprattutto a visitare il mio paese natio di cui avevamo spesso parlato.

Anni fa mio marito Antonio Schirone, Mariolina e io ci recammo a Ferrandina, in provincia di Matera, per l’inaugurazione di una mostra di pittura del noto artista lucano Gaetano Dimatteo. Una tremenda bufera di neve impedì non solo la realizzazione dell’iniziativa, ma anche il ritorno a Bari. Restammo ospiti dello scrittore Franco Tilena e fu una serata memorabile.

Gli sketch nostrani di Mariolina ci tennero svegli fino a tardi. Il climax si verificò quando l’attrice si rifiutò di dormire sul divano premurosamente preparato dalla Signora Graziella Tilena e disse di voler riposare con loro nel letto matrimoniale. Non ci fu verso di farle cambiare idea. Ai proprietari del palazzo gentilizio non restò che accontentarla, pur con qualche soggezione. Antonio e io trascorremmo la notte a ridere come matti mentre la neve scendeva e ricopriva i tetti del magico paese.

Al mattino l’attrice si presentò a colazione fresca come una rosa, soddisfatta per aver riposato in un ambiente quieto e accogliente. Ripartimmo carichi di doni e la promessa di ritrovarci.

Mariolina De Fano

I momenti esilaranti trascorsi con Mariolina sono tanti. Nelle cene sociali del Movimento ci rallegrava con battute e motti di spirito irresistibili. Mangiava poco; le piacevano le alici marinate, condite con prezzemolo, aglio, limone, sale e pepe. Una sera nella sede di via Abbrescia del Movimento si tenne una manifestazione culturale durante la quale la Signora Enza Pinto espose i bellissimi abiti da lei creati. Enza volle farmi dono di una bambola confezionata espressamente per la circostanza. Mariolina mostrò interesse per quella pupa che ancora conservo, ma non volle accettarla. Accettò invece la promessa della talentuosa sarta di confezionargliene un’altra adatta al suo stile. Ricordo l’espressione di meraviglia quando, dopo qualche tempo, la raggiunsi nella sua abitazione, per porgerle il dono che Enza mi aveva incaricato di consegnarle. Mariolina si commosse come se avesse vinto l’Oscar. In quegli slanci genuini si annidava l’anima della donna e dell’artista.

Il dialetto barese sulla sua bocca era arte pura. Lo pronunciava con la grazia e l’ironia dei grandi interpreti. Declamava le composizioni del padre, il poeta-commediografo Vito De Fano, in maniera impeccabile. Mi sembra di sentirla ancora mentre recita “U vindisette”, “La vecchie e la Morte”, “La promozzione du ciucce”, “La zita mè”, “Nu figghie delinquènde” e tante altre.

Partecipava alle nostre serate culturali senza chiedere alcun compenso. Quasi sempre proponeva le poesie del padre che riscuotevano un grande successo. È stato così sin dal 4 maggio 1985, quando, sul palcoscenico del Teatro Abeliano di Bari, presentò i testi del genitore, in occasione della mostra “Donne e Creatività”, da me ideata e coordinata, a cui fu abbinato un riuscito convegno.

Mariolina sapeva della mia amicizia con il padre e volle farmi conoscere anche la madre, la gentile Signora Nella la cui perdita ha influito non poco sul suo stato d’animo.

Mariolina (all’anagrafe Maria Esther) era nata a Bari il 14 ottobre 1940 e ci ha lasciati il 18 agosto 2020, per un malore avvenuto nella casa di via Canonico Bux, 30, nei pressi del Redentore, al quartiere Libertà di Bari. Il dolore della città per la perdita di un’icona della comicità barese è sintetizzato nelle parole del sindaco Antonio Decaro che così si espresse «Oggi Bari piange una delle donne simbolo del teatro e della comicità della nostra città. Mariolina De Fano, artista sensibile che, fin dall’inizio della sua quarantennale carriera, ha saputo conquistare la simpatia e l’affetto dei baresi».

La Nostra ha lavorato per il teatro, il cinema e la televisione. Ha esordito a tre anni al teatro del dopolavoro ferroviario, recitando una poesia scritta dal padre. Sul palcoscenico barese ha preso parte a numerosi spettacoli, in compagnia di noti attori, tra i quali Nicola Pignataro. Per la televisione regionale (Telenorba) ha recitato in Catene con Dante Marmone e Tiziana Schiavarelli e Mudù con Uccio De Santis. Su Rai Uno ha interpretato il personaggio di Nonna Innocenza nella fiction Raccontami di Riccardo Donna e Tiziana Arstarco.

Per il teatro ha recitato nel Don Giovanni con la regia di Cosimo Cinieri, Aminueamare, regia di Michele Mirabella, Il caffè antico, regia di Vito Signorile e La strana coppia, regia di Patrick Rossi Gastaldi.

A partire dal 1981 molte sono state le sue partecipazioni ai film dei quali si menzionano per tutti L’anima gemella del 2002 di Sergio Rubini, Noi siamo Francesco, diretto nel 2015 da Guendalina Zampagni, Chi m’ha visto del 2017, diretto da Alessandro Pondi. La De Fano ha recitato anche con i registi Liliana Cavani, Leonardo Pieraccioni, Carlo Vanzina, Aurelio Grimaldi e molti altri.

Il dialetto

Occuparsi del dialetto significa scoprire un mondo fatto di musicalità e rimandi culturali preziosi, per la memoria storica di un paese. L’unità europea sarebbe imperfetta senza la valorizzazione delle specificità culturali e linguistiche dei popoli.

La scrittura creativa in dialetto ha attraversato fasi alterne. Per anni è stata considerata di tono minore e non è entrata nei circuiti della grande letteratura. La scuola si vergognava dei dialettofoni, quasi a volersi scrollare di dosso la miseria del passato e l’ignoranza del ceto popolare. La rivisitazione dei programmi ha portato gli esperti del settore a correggere i vizi di forma e a proporre lo studio del vernacolo tra i banchi di scuola. Iniziativa affidata perlopiù alla solerzia di qualche docente che stimola i ragazzi alla ricerca del patrimonio linguistico dei padri.

Gli studi di linguistica hanno dato un nuovo impulso alla scrittura in dialetto, tanto che qualche autore ha sfiorato il Nobel per i suoi versi. Si pensi al poeta lucano Albino Pierro (1916-1995) più volte candidato alla massima onorificenza e ampiamente tradotto in Svezia.

Patrizia Del Puente, docente di Glottologia e linguistica presso l’Università della Basilicata, in una intervista del 2019, riprendendo un pensiero di Tullio De Mauro, dichiara che i dialetti «sono un importante serbatoio lessicale proprio per l’italiano, che sarebbe fortemente penalizzato dalla loro perdita».

Nell’universo letterario c’è chi considera il vernacolo una “inutile eccentricità”. Chi scrive in dialetto opera una scelta precisa. Probabilmente non tutti sono consci della difficoltà della trascrizione che ha un peso sulla resa estetica del testo.

I dialetti si evolvono, pertanto non è possibile aspettarsi di leggere una gran quantità di lessemi in disuso. Ciò che conta è la gamma e la combinazione delle parole che dovranno sprigionare suoni ed emozioni da catturare l’interesse del lettore.

Nell’esaminare un’opera in dialetto è opportuno tener conto del contatto linguistico, ossia di quei fenomeni di contatto tra i dialetti e la lingua nazionale. Gaetano Berruto nel 1993, a proposito della “italianizzazione dei dialetti”, sosteneva che sono più evidenti le variazioni del lessico, dei fatti fonetici e morfologici, mentre sono assenti i fatti sintattici. Difatti si parla di “dialetto indebolito” (Bruni), “dialetto trasfigurato” (Francescato), “dialetto imbastardito” (Telenon).

Nel 1993 il linguista e filologo tedesco Edgar Radtke affermava che, se pure i dialetti dovessero essere assorbiti dagli italiani regionali, ciò non costituirebbe una perdita, bensì un «mutamento del dialetto, perché essi continuano la loro tradizione come ulteriore variazione».

Per i linguisti il dialetto è anche lingua. Studiosi come Corrado Grassi (1925-2018), ritenuto l’ultimo grande dialettologo italiano, lamentava che nonostante la lunga tradizione di studi dialettali, è mancata in Italia una discussione teorica approfondita sul concetto stesso di dialetto.

La poesia in dialetto

La poesia è di per sé un genere letterario intrigante; regina e cenerentola può rappresentare il vessillo di un popolo. I versi in dialetto hanno trovato poco spazio nelle antologie. Gli autori del Sud sono stati molto spesso ignorati dai curatori di dizionari e repertori. L’antologia Poeti dialettali del Novecento, curata da Franco Brevini (Einaudi, Torino 1987) è avara con la Puglia che, invece, nel secolo trascorso ha generato poeti di livello (Savelli, Gatti, De Donno, G. Capriati, Capuano, Dell’Era, Giovine, De Fano e altri).

Per la Puglia, uno dei punti di partenza per avvicinarsi alla poesia in dialetto è l’antologia di Pasquale Sorrenti La Puglia e i suoi poeti dialettali pubblicata a Bari nel 1962 e poi ristampata con l’editore Forni di Bologna nel 1981. È dalla lettura di quell’opera che venni a conoscenza dei versi di Vito De Fano del quale mi occupai, unitamente alla produzione vernacolare delle baresi Agnese Palummo (1879-1959) e Francesca Romana Capriati (1925-2011), il 29 marzo 1994, al Piccolo Teatro di Bari, su invito della Compagnia “Puglia Teatro” che aveva organizzato i “Martedì d’Autore”, una serie di incontri, coordinati da Eugenio D’Attoma e Rino Bizzarro, sul tema “Ricerca sulla poesia barese fra ‘800 e ‘900”. I testi furono interpretati dagli attori Nietta Tempesta, Anna Brucoli, Mario Mancini e lo stesso Bizzarro. Successivamente, nelle mie conversazioni letterarie, sono tornata spesso sulla scrittura di De Fano e di altri verseggiatori in vernacolo.

Va osservato che all’inizio del nuovo Millennio, in Puglia sono apparse diverse antologie espressamente dedicate al dialetto, tra le quali La poesia dialettale pugliese del Novecento, a cura di Giuseppe De Matteis (Edizioni del Rosone, Foggia 2000), Core de BBare di Gigi De Santis (Wip Edizioni, Bari 2008), Voci del tempo. La Puglia dei poeti dialettali, a cura di Sergio D’Amaro (Gelsorosso, Bari 2011). Notevole si è rivelato anche il lavoro critico svolto negli anni dagli accademici Michele Dell’Aquila, Ettore Catalano, Antonio Lucio Giannone, Daniele Maria Pegorari e dallo scrittore Marco Ignazio de Santis, solo per fare qualche nome.

Attualmente a Bari si assiste a un revival della produzione creativa in dialetto. Ci sono stati degli approfondimenti inerenti la trascrizione che ha acceso gli animi. Tra gli organismi di maggiore spicco si citano l’Accademia della Lingua Barese “Alfredo Giovine”, presieduta da Felice Giovine, la Biblioteca dell’Archivio delle Tradizioni Popolari Baresi di Alfredo e Felice Giovine, «U Corìire de BBàre», organo del Centro Studi Baresi di Felice Giovine, il Centro Studi “Don Dialetto” di Gigi De Santis, l’Associazione “Mondo Antico e Tempi Moderni” di Nicola Cutino, la “Piedigrotta Barese” di Vito Signorile. Organismi che hanno pubblicato pregevoli volumi, tra i quali vanno inclusi quelli di Vittorio Polito e di altri valenti saggisti.

Vito De Fano

Vito De Fano è da annoverare tra gli autori più interessanti della poesia in dialetto del secondo Novecento barese. Nato a Lecce da padre barese il 30 giugno 1911, è deceduto nel capoluogo pugliese il 25 gennaio 1989, lasciando un vasto repertorio composto di poesie e commedie. Autodidatta, ha esercitato la professione di ferroviere, rintracciabile nella scrittura, condita di aneddoti ed episodi saporitissimi.

Assiduo frequentatore della Libreria Sorrenti – dove l’ho conosciuto – ha intrecciato un’amicizia umana e letteraria con gli altri visitatori e, specialmente, con gli scrittori Pasquale Sorrenti e Giorgio Saponaro, come si evince dalle prefazioni e postfazioni ai suoi libri e dai versi a essi dedicati. Altra figura importante nella vita artistica del Nostro è l’editore Nunzio Schena di Fasano che lo ha incoraggiato e stampato le opere.

Vito De Fano

La prima poesia, “Matalène e combagne”, De Fano la scrisse nel 1944. Le opere essenziali datano dal 1946. Si tratta di U miglionarie, poesie in dialetto barese (Levante, Bari 1946), U scarpare gedezziùse, commedia dialettale in 1 atto (rappresentata a Bari nel 1951), Na scernata disgrazziàte, commedia dialettale in 1 atto (rappresentata nel 1952), In cerca di lavoro, atto unico (rappresentata, 1950), In treno (rappresentata, 1952), Meroske, poesie in dialetto barese (Levante, 1962), Stòrie e patòrie (ivi, 1966), Fragàgglie (Savarese, Bari 1969), Mbilembò (Liantonio, Palo del Colle 1975), Nu matte fesciùte da Vescègghie, commedia in dialetto in 2 atti (rappresentata, Il Purgatorio, 1976), U vindisette, poesie scelte e presentate da Nicola Pignataro e Mariolina De Fano (Laterza, Bari 1980), Fascídde (Schena, Fasano 1982), Benazze (ivi, 1986), La cialdedde (ivi, 1989), postuma, Arreggettanne le fjerre (ivi, 1990), postuma.

Le commedie rimaste inedite sono: Le trè desgràzzie, U munn’a l’ammèrse, Nu trademìinde a la case de chemmà Nenzièlle. Si precisa, inoltre, che l’amico scrittore Giorgio Saponaro, a marzo 2001, curò l’opera in versi di De Fano, uscita nel 2007, con il titolo Io canto Bari, presso l’editore Schena. L’elegante cofanetto, formato di quattro volumi, raccoglie tutta la precedente produzione poetica del Nostro.

Prima di addentrarmi nell’analisi critica dei versi, giova ricordare che De Fano collaborò, dal 1946 al 1952, con poesie e bozzetti popolari, al settimanale umoristico barese «Papiol». Per i bozzetti utilizzò lo pseudonimo “Zu Vite”. Suoi componimenti apparvero anche nei periodici locali «Metropoli»,1962, e «Giornale Pugliese» dal 1963 al 1975. Partecipò a vari concorsi di poesia, tra cui la “Piedigrotta Barese”, ottenendo ottimi risultati. Alcuni suoi testi furono musicati.

Il tessuto creativo di De Fano è ricco di umorismo, comicità, caricatura, ironia e satira. Il poeta canta l’amore e il dolore; esprime fede e ribellione. Cerca la verità nella risata, analizza il sociale, spinto dal desiderio di migliorare la qualità della vita. Frusta i politici, considerandoli responsabili della disfatta civile. Denuncia i malesseri e le ansie quotidiane che attanagliano soprattutto gli strati meno abbienti della popolazione. È un pessimista che si difende con l’umorismo, toccando le corde più delicate dell’animo umano. Abilissimo nell’uso della parola, crea musicalità e ritmo nei versi, tanto che parecchi componimenti sembrano delle canzoni. Allievo di Agnese Palummo e conoscitore del mondo popolare, utilizza termini desueti, ingloba detti e proverbi, formando rime e assonanze spesso di alto significato.

Sarebbe un errore relegare De Fano nell’ambito della comicità poetica, poiché egli ha trattato temi di ampio respiro che spaziano dall’intimo al sociale. La sua scrittura ha una valenza storica, in quanto porta a conoscenza dei lettori avvenimenti e personaggi della città di Bari.

De Fano ha coscienza del ruolo e allude spesso alla sua condizione di poeta, pure se, talvolta, per pudore, ne sminuisce l’importanza. Sa di essere il cantore dell’universo popolare. Dotato di fervida fantasia, storicizza il quotidiano, con larghe concessioni alla favola e al sogno. Attribuisce dignità a tutti gli esseri viventi. I dialoghi tra gli animali (che ricordano Trilussa) sono vivacissimi come quelli tra le persone. Il lettore si avvicina ai suoi volumi per ridere e scopre, accanto alle indubbie qualità umoristiche, il poeta dell’amore e della meditazione. In vari testi il lirismo raggiunge punte elevate.

Le opere in versi

La raccolta Fascídde, 1982, giunge dopo circa quarant’anni di scrittura (1946-1982). Prefazionata da Pasquale Sorrenti – che ha firmato anche le prefazioni delle cinque sillogi precedenti – porta una nota critica di Giorgio Saponaro. L’opera è dedicata agli amici perduti, tra cui lo storico prof. Francesco Babudri (1879-1962). In un felice autoritratto, l’Autore dichiara che il suo peggior difetto è: «de scrive a la barese fessarì!», p. 11. Una trovata intelligente che predispone il fruitore a godersi il resto del volume.

V. DE FANO, Fascìdde, Schena Editore, Bari 1982

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I sonetti, ben costruiti, non nascondono la vena lirica dell’Autore e l’aspetto sociale della scrittura. Il terremoto del 1980, la disoccupazione, il malgoverno, lo sfruttamento di chi non può difendersi, l’analisi del malcostume entrano nei versi insieme all’incitamento a reagire. De Fano prende posizione contro l’ingiustizia, il fumo, il traffico eccessivo, l’inquinamento. Disegna una serie di personaggi caratteristici come “U despettùse”, p. 31, svelando la sua passione:

No nzacce disce manghe chiù da quanne,
da sembe!. Carte e penne m’hann’attràte
com’attire na fèmmene a vind’anne.

(“A Margarite”, p. 35)

Le donne sono uno dei temi dominanti della sua poesia. Si tratta di popolane avvenenti o di femmine che la sua penna trasforma in caricature divertenti. Ad esse, però, indirizza lievi poesie d’amore e confida i pensieri malinconici per il mondo senza pace e per la speranza che è svanita con la gioventù. “Penzànn’a tè!”, p. 60, e “Vjene Mariétte”, p. 61, sono due dolcissime liriche.

Scrivere per l’Autore significa anche dialogare con Dio (“U Patrune”, p. 41). La religiosità popolare è una ricchezza dei versi. De Fano riflette sul destino e il libero arbitrio e lo fa in forma dialogata. La sua filosofia la risolve con la battuta di spirito. Vorrebbe cambiare in bene il male e in riso il pianto, ma, visto che è impossibile, si accontenta di «petè cangià, ma senz’a fà mestère, / màsseme ogne cingh’ànne, la megghière» (“U cambiamènde”, p. 67).

La chiusa dei sonetti è a sorpresa. De Fano crea suspense nel testo, per poi svelare il mistero nel finale, quasi che le ultime parole fossero “fascídde” ossia lampi, scintille di poesia.

Gli animali costituiscono una risorsa per il Nostro. Soffrono, gioiscono, si innamorano, dialogano. Il lettore li scopre migliore degli uomini. Una rondine versa lacrime per la scomparsa di una ragazza, poi disperata lascia il nido e fugge (Arreggettanne le fjerre, “Làreme de primavère”, p. 88). Persino una gallina chiede la parità tra i sessi (“La gaddina schendènde”, pp. 79-80). C’è la universalizzazione dei sentimenti.

L’arte aiuta a scoprire gli aspetti nascosti del creato. L’umorismo è un modo per esorcizzare la tristezza. De Fano, nella composizione “A mè stesse” scrive:

Ji mbesce t’agghia disce e sò singere:
Mba Vite, u sà? Te stìmeche addavere,
(…)
E quanne arrive chedda dìa maldètte
ca jind’a quatte tàue t’hanna mette,
tande u delore mì ava jèsse forte
ca certamènde … m’ava dà la morte!

(pp. 105-106)

Un altro espediente utilizzato dall’Autore è l’ironia con cui attacca e si difende dal disfacimento dei valori. Il lavoro è migliore dell’ozio, afferma nella composizione “Colette Mbilespìle” (pp. 110-112). “Mba Chitane” in sogno vede il mondo alla rovescia, forse per colpa del vino o forse per il desiderio di modificare la realtà.

De Fano vuole conoscere il pianeta, ma più di ogni altro luogo predilige la propria casa. La sua è pure la poesia della famiglia, degli affetti, del vicinato. Valori oggi messi a dura prova dalla frettolosità del vivere e dallo stordimento del progresso. I suoi personaggi dialogano, si ascoltano, si scambiano confidenze, in un clima di solidarietà. Nel testo “U ‘arète”, pp. 118-122, due amici, incontrandosi a via Sparano, parlano della nascita di un bimbo che ha scombussolato la vita ai genitori. Il padre è uno di loro.

La strada è lo scenario sul quale si dispiega la poesia del Nostro, molto sensibile alla vita dei subalterni. Ambienti come la cantina entrano nei versi che spingono a non fidarsi delle apparenze. Con il riso e il canto De Fano ci dice che l’altro mondo è migliore del nostro e che la vita «iè nu permèsse ca nge dà la morte.» (“La partènze”, pp. 168-172). Un velo di nostalgia, per la genuinità di un tempo, chiude il volume tutto giocato sulla vita e la morte.

Benàzze (1986), dedicato a Saponaro e Sorrenti, porta ancora le note critiche dei due scrittori. Il libro è diviso in tre sezioni: “Poesie Varie”, “Animali” e “Poesie su misura”. ‘Benàzze’ significa bonaccia e, quindi, calma, pace. A settant’anni l’Autore si sente un uomo tranquillo:

Ji stogghe de Gesù mmènz’a le vrazze
e la famigghia mè, singeramènde,
pare nu mare acquànne sta benàzze.

(“Benàzze”, p. 11)

I giovani sono vicini al suo cuore. Considera la pace e il lavoro i pilastri della società civile. Si scaglia contro gli spacciatori di morte e quanti altri devastano la città di Bari. Una chicca della scrittura sono i soprannomi. Tra gli elementi popolari utilizzati spicca l’augurio della casa. La risata non esclude il pensiero della morte. Vita e morte giocano a dadi, ma la vita è luminosa anche nei momenti di tormento.

I componimenti “U vindisette”, pp. 41-44 e “U vindòtte”, pp. 45-49 sono capolavori di comicità. Basta l’attacco del primo testo a scatenare un vulcano di risate:

Ce scernata maledètte
quanne arrìve u vindisètte
pe nu pòvere mbiegate
ca o stepèndie sta abbeggiàte.
Ji e megghièreme Tarese
stame mbasce tutt’u mese
ma la dì ca se rescote
sus’a case sta u tramote.
Frìscke frìscke all’alda dì
ah!! Ce cose seccedì!!

Seguono raffiche di versi come i fuochi pirotecnici delle feste patronali.

Nella silloge c’è Bari, con le strade, i personaggi, la storia, le abitudini, gli anziani. Un vecchietto legge sul giornale un necrologio, trova l’indirizzo del morto e lo accompagna al cimitero, ringraziando, al ritorno, che non sia toccato a lui morire (“La scernàte du vecchiàrjedde”, p. 81).

Anche in questo volume si coglie la nostalgia per la giovinezza perduta, con l’incitamento a essere onesti. Vi sono testi delicatissimi (“De notte”, p. 86) ed elaborati ritmati come tarantelle (“Pe nu balle!”, p. 87, “Mariannìne”, p. 88). Tra i componimenti originali si distinguono “Mengùcce Vendachiène”, p. 92 e “Le dù schèletre”, pp. 100-101, che avendo deciso di fare un giro per il mondo, portano con sé, come documenti, le rispettive lapidi.

Un altro motivo della scrittura è “u sgranatorie”, ossia il cibo. Si potrebbe addirittura risalire all’alimentazione dei baresi. “Le sgagliòzze”, pp. 104-105, alimento tipico del ceto popolare, rappresentano non solo una leccornia, ma pure l’armonia dei tempi andati.

Gli animali parlano del cibo e dei malanni e servono al poeta per meditare sull’esistenza terrena (“Nàscete e morte!”, pp. 126-127). Sembra che ci sia più intesa tra loro che tra gli umani.

Le “Poesie su misura”, tranne alcuni versi, costituiscono la parte meno poetica del libro. Sono composizioni scritte per gli amici, i compagni di lavoro, gli sposi, i familiari. Il volume termina con un augurio: «augúrie a ci me lesce e a ci me sende.» (“A Francesco Angelini per le sue nozze”, pp. 194-195).

La cialdédde, 1989, dedicata ai nipotini, annovera tre raccolte di poesie esaurite – U miglionárìe, Meróske e Storie e patórie – ed è preceduta dal nuovo testo “La cialdédde” da cui prende il titolo. La prefazione è dell’amico Sorrenti, accompagnata da un commento di Allegra Zante. L’opera ripropone un ambiente familiare al poeta, la libreria Sorrenti situata in via Andrea da Bari n. 79, con i discorsi riguardanti “o “sgrane”. ‘La cialdédde’, piatto povero della cucina barese, è un tripudio di colori e di sapori, da gustare specie nella stagione estiva. La sua freschezza rappresenta bene la scrittura del Nostro che è genuina e saporita.

U miglionárìe è un volume del 1946 nel quale l’Autore critica fortemente i costumi. Il milionario è un pezzente arricchito che prima «se pelezzave u musse a la giacchette» e poi portava «u profume de rose jind’au mestazze…», pp. 19-21. Il poeta invoca Dio, affinché salvi l’uomo dall’abisso in cui è caduto.

L’umorismo si configura come una qualità propria di De Fano, che prende a bersaglio la politica, il rincaro dei prezzi, i vizi e le storture del mondo. “Sande cannite”, pp. 43-44, è una satira amara dell’andazzo sociale:

Ci uè venge nu poste o congorse
– nfasce nudd ca sì capacchione –
ada dà ‘na spremute a la vorse

Meróske, 1962, è la parte più intrigante del libro. Il poeta ironizza sui versi e sul suo stesso ruolo, definendosi «nu sucagnostre com‘a tande», felice di godere degli affetti familiari. Riaffiora la nostalgia per gli anni giovanili, trascorsi in povertà, ma con spensieratezza.

Il tempo è un protagonista di tutta la scrittura di De Fano. Egli pone in risalto la falsità del comportamento umano, ironizza sulla realtà, sui mezzi di comunicazione di massa e sulle credenze popolari. I versi hanno un’etica, in quanto divertono ed educano.

La presenza degli animali rappresenta una continuità con le altre opere. Bari appare animata da motti di spirito e dalla passione per il gioco del lotto e del calcio. Vi sono poesie-racconto di effetto, come “U testamende de Rocche”, pp. 96-98, che fa risaltare i vizi della gente, e “U descurse de Catarine”, pp. 103-106, che mette in guardia le ragazze dal comportamento degli uomini prima e dopo il matrimonio. In quest’ultimo testo si riscontrano molte espressioni tipiche del dialetto barese e, soprattutto, si evidenzia la storia delle donne.

In Storie e patórie, 1966, De Fano riconfessa l’amore per il dialetto (“Percè scrìveche”, p. 109). Tra i vari argomenti vi è quello delle missioni sulla luna. L’Autore si chiede perché si abbia fretta di arrivare sulla luna quando ci sono problemi da risolvere sulla terra. L’ecologia, l’unità della famiglia (“La frascère”, p. 120) e il risvolto negativo della modernità permeano i versi. Per De Fano scrivere fa volare in alto più di una navicella spaziale.

I testi sui minorati di Bari sono densi di humour. Tracce di storia emergono dalle composizioni “Ré Giacchine”, pp.162-164, e “Rosine e Sabbédde”, pp. 166-170. Nella seconda due donne parlano di avvenimenti del ventennio fascista, concludendo che:

La Gestizzie ié n’érve ca no ngrésce,
l’jemmene sò cannuccie de bambù,
la Libbertà iè núvvue ca sparésce
e u Pòvere iè u uécchie de Gesù.

(p. 169)

La guerra è un altro riferimento del libro che, nonostante lo humour, lascia l’amaro in bocca, per la miseria spirituale in cui versa il genere umano.

Arreggettànne le fjerre, 1990, con prefazione di Saponaro, postfazione di Sorrenti e una nota di Allegra Zante, è dedicato alla moglie Nella e ai tre figli, Maria, Antonio e Giuseppe. Il libro, oltre al testo di apertura, Arreggettànne le fjerre, include le raccolte Fragàgghie del 1969 e Mbilembò del 1975.

La poesia “Arreggettànne le fjerre” è stata composta da De Fano nel novembre del 1988, due mesi prima della scomparsa. Egli fa il punto del suo lavoro, sottolineando il travaglio per pubblicare. Mescola l’amicizia, la famiglia e la passione per la scrittura. Il testo è un presagio della fine, quasi l’ultimo atto prima di spiccare il volo.

Fragàgghie è una raccolta che mette particolarmente in luce il lirismo. Si leggono poesie scritte con mano leggera, come “A la lune”, p. 21, e “La preghjere du marnare”, pp. 102-104. Il volume si impone più per l’etica e la riflessione che per l’umorismo. L’Autore, turbato dalla realtà e consapevole della fragilità degli uomini, chiede l’intervento divino. Riaffiora la tenerezza della fanciullezza, con la convinzione che l’uomo metta giudizio solo 70 anni dopo morto. Pace e tranquillità sono un’utopia e allo scrittore non resta che ricorrere alla parodia. La felicità è inafferrabile; essa è un’erba rara che

«crèsce sott’a le crosce o Cammesande!» (“La felicetà, p. 59). Morte e distruzione bersagliano i versi. Ogni tanto la pagina si rischiara con i ricordi degli anni verdi, quando spensierato giocava con l’amatissimo “verruzze”:

Quanda scequate, ddà, sott’o castjedde!
L’alde uagnune jèrne assà mmediuse,
m’u cercàvene tutte e ji geluse,
no u djebbe manghe ngange de n’acjedde.

(“U verruzze”, p. 63)

De Fano è un paladino dei valori. Fraternità, giustizia, pace e amore sono elementi cardini della sua scrittura. L’amore è per lui mistero e magia. Un altro dato che connota i versi è il sentimento della pietà (“U cane sfertenàte”, p. 77).

Il poeta s’incanta dinanzi alla bellezza, ma non perde mai la capacità di sorprendere con il motto di spirito (“Bellèzze e crudeltà”, p. 79, “Mamma pelose”, p. 80). Il mare è fonte d’ispirazione per il Nostro, che sa valorizzare anche gli esseri più piccoli. “La preghjere du marnare” credo sia la poesia più alta dell’intera sua produzione. È una tenera nenia, intrisa di fede e musicalità. Il popolo, tramite la voce del poeta, chiede pietà al Signore, affinché restituisca al mondo Carità, Fratellanza, Fede, Perdono e Speranza.

Stu mare salmastre e prefunne
ca mà arrepesèsce,
me pare u delore du munne
ca mà s’acchiatesce…
O Segnore, Segnore,
chisse muèrte a megghiare
ca fasce u tramote
pe mè, so nu scoglie jinde’o core!
Piatà pe sta pòvera gènde!
Piatà p’u martirie de tanda Crestiane
falgiate, achsì, com’a spiche de grane
quann’è tjmbe de mète!

(pp. 102-104)

Tra gli ingredienti popolari della scrittura vi sono i mestieri scomparsi come “La capère”, donna che girava per le case, per acconciare i capelli alle donne.

Fragàgghie, oltre che per il lirismo, si fa apprezzare per l’inventiva. Ne è prova il componimento “La chescjènze de Padre Adame”, pp. 113-116, inteso a dimostrare che l’uomo è privo di coscienza sin dall’inizio della creazione, quando, scivolata dalle mani di Dio mentre creava Adamo, non è stata ancora ritrovata. De Fano canta il dolore con la musicalità che gli è congeniale (“Pòvera mamme!”, pp. 128-129).

Mbilembò, 1975, si connota per l’esperimento linguistico basato sui suoni e il gioco onomatopeico. Compare l’italiano popolare, con l’inserimento di alcuni termini inglesi trascritti secondo la pronuncia dialettale. Vi sono gli intercalari del linguaggio parlato, come «me sò spiegàte?», con l’intento di proiettare la quotidianità sulla pagina e arricchirla di espressioni gergali.

De Fano parla con la sua Musa, considerandola la sua innamorata:

Musa mèa bèdde, no nde si affleggènne
ce ji de maldrattèsceche ogne tande,
u sacce ca pe mè Tù va seffrènne
e a cèrte vjerse mì Te vène u chiande.
(…)
Tù ià la colpe e Tù ada sopportà!
No lescènne stu libbre, achiùte l’ècchie…
Lèscene l’àlde? E ce nge pozze fà?
Nnzàcchete nu feldure jind’a le rècchie.

(“A la Muse”, p. 137)

Tuttavia i tratti migliori di De Fano non sono quelli dove prevale il gioco linguistico, che semmai aggiunge vivacità alla pagina, ma quelli in cui la parola, priva di preoccupazioni linguistiche o moraleggianti, si libra nei prati della fantasia e del vissuto personale che diventano poesia universale.

L’Autore richiama l’uomo all’ordine morale e ai doveri civici; affronta i temi della quotidianità, compreso la gente che vede il Festival di Sanremo o va al Petruzzelli. Usa lo sberleffo per ridicolizzare la morte, sminuirne la tragicità. Prende in giro la vita per renderla meno grigia, sicuro che ciascuno sia amico di se stesso. Esempio di ottima fattura della sua poesia giocosa è il sonetto “Pèsce pe tè”, p. 205, dove invita la moglie a stendersi accanto a lui dopo la morte:

Geditte, a mò ca mòrghe, fa attenziòne,
no m’allassànne sule, spègge o scure,
tu sa ca ji me pìgghieche appavure,
le muèrte a mè me fàscene mbressiòne.

Fammìlle chèssa gràzzie, sora bbòne,
stjennete o cuèste mi, mmènzja a le fiùre,
(la morte non de mmèschke, so secure!)
E statte appjerse almene na staggiòne.

Ce non’u fàsce?! mmàh! Pèsce pe tè,
ca tù, mbèsce de gote a chèssa morte,
arrète a casa tò m’ada vedè.

Tu sa ca so temuse e senzetìve,
nziamà me vègghe muèrte… u sckànde forte,
me pozz’acchià da muèrte arrète vive!

Mbilembò raggruppa un buon nucleo di poesie d’amore nelle quali il sentimento è cantato alla maniera popolare. L’innamorato vorrebbe uccidersi, ma poi preferisce affogare in un tegame di “brasciòle” (“U settenàrie”, p. 219. I testi, dal finale scherzoso, presentano donne che sono “sdrèghe e fate”, p. 231. “A Rose”, p. 242, è un magnifico sonetto, tra i più riusciti del suo repertorio. L’innamorato, rifiutato dall’amata, le chiede soltanto di restituirgli i baci. Altro componimento d’amore è “Sternjedde”, pp. 308-309, stornello che il giovane indirizza alla sua bella:

Fronze de rosa mè, fronze de rose,
sò fatte pe dermì ma nonn’è cose,
da quanne u bbène mì so canesciùte,
fronze de rose, u sènne sò perdute.

Fronze de rose, fronze de rose,
pène d’amore no ndà repose,
decèsse mbrime nu buène sì
ca mbrazz’a jèdde vogghe a dermì.

(p. 308)

De Fano ha il grande merito di aver ricuperato l’antica tradizione popolare che risale alla poesia orale. I cantori del Sud (della Lucania in particolare) si spostavano da un paese all’altro, accompagnandosi con strumenti musicali, tra i quali la maestosa arpa di Viggiano. Ma il pensiero corre anche ai trovatori e ai menestrelli.

L’umorismo di De Fano origina dalla concezione pessimistica della vita che considera una “chennànne” (“La vite”, p. 246). Egli ha composto anche delle poesie a sfondo tragico in cui i personaggi, incapaci di sopportare il dolore, si suicidano. L’inganno dell’esistenza spaventa pure gli animali. Una talpa, ottenuta la grazia di vedere il mondo, decide di tornare per sempre sottoterra.

Conclusioni

La poesia di De Fano è una protesta civile per il degrado morale, politico e ambientale che si è determinato. Egli è convinto che, forse, non bastino più neppure le parole ad arginare il male.

La sua scrittura investiga i piccoli e grandi malesseri sociali. La narrazione riproduce la storia dell’umanità, storia tragica che il poeta colora con il riso, le battute intelligenti, l’ironia pungente, ma che, tuttavia, si palesa nella sua nudità e problematicità. In definitiva, l’umorismo nasconde un riso amaro. I personaggi caricaturali, il ribaltamento dei ruoli (come in “Nu marite marterezzàte”, pp. 296-302) servono ad attenuare la pena del vivere.

De Fano chiama il lettore alla responsabilità, con la sua denuncia lo aiuta a prendere coscienza, spingendolo a farsi parte attiva del cambiamento. Egli ci stimola a riflettere sul senso della vita e della morte e a tentare di varcare la soglia dell’oltre (“La protèste”, pp. 283-290). L’utopia soccorre il pessimismo e incute fiducia nel fruitore. Anche se in apparenza sembrerebbe un conservatore, in realtà è un progressista, giacché auspica un cambiamento radicale basato sull’equilibrio tra diritti e doveri.

La deformazione del lemma rientra nel disegno umoristico di rappresentare non solo la realtà linguistica delle classi sociali emarginate quando comunicano in italiano, ma di caricaturizzare la parola in quanto strumento di una realtà già di per sé deforme.

Il suo racconto in versi è frutto di una ricerca linguistica accurata. Difatti, affiorano delle preziosità lessicali ed espressive spesso rare se non addirittura scomparse. Rispettoso delle tradizioni popolari di Bari vecchia, dove di certo avrà attinto degli spunti per i testi, ci ha lasciato un capitale creativo che merita ulteriori approfondimenti.

Il 9 marzo 2001 il Comune di Bari gli ha dedicato una strada al quartiere San Girolamo (traversa 26 del Lungomare IX Maggio). Il 28 giugno 2007 al quartiere San Paolo gli è stata intitolata una scuola elementare (via Don Carlo Gnocchi, 18). Le sue poesie continuano a essere oggetto di attenzione di attori, registi e saggisti che ne apprezzano la freschezza e la sagacia.

Anna Santoliquido