«C’è odore di distruzione» diceva Baudelaire e ieri sera al Barium, il teatro di Bari, se ne sentiva pregna l’aria.
Un’ opera teatrale amara dolorosa, che stringe mente e corpo in un malessere che attanaglia. Un demone era nell’aria, pregnante nella nuvola nera dell’Ilva, qualcosa che si respira nelle immagini proiettate sul telo bianco, nella voce di Alfredo Vasco che legge Dante, nella figura severa di Nicola Accettura, il dottore in bianco con la cartella in mano che legge percentuali e nomi terribili, incomprensibili, fantomatici numeri.

Alfredo legge il dolore, l’inferno in una torre sbarrata dove padre e figli muoiono per fame lentamente, irrimediabilmente.

Si aggirava la morte sul palcoscenico con le cinque donne scalze vestite con una tunica rossa. Morte respirata, raccontata, è qualcosa di fisico che si può vedere e riconoscere. Uno spasimo doloroso e fisico comunicato con sapienza, perizia, energia, passione; una commistione di linguaggi che provocano una vibrazione urgente pesante, come pietra lanciata contro l’indifferenza e il complice silenzio.

L’opera teatrale a cui ho assistito ieri sera al Barium è un compendio tra scrittura forte e tenera, pulsante, febbricitante di pathos: Eros e Thanatos avvinghiati nella scrittura dei testi di Mara Venuto e Alfredo Vasco, una chitarra e voce dal timbro lorchiano di Tonino Errico.

Alfredo Vasco e Mara Venuto hanno scritto storie vere, con una forza evocativa della parola scritta e recitata sul palcoscenico che stabilisce un forte rapporto osmotico con il lettore, con lo spettatore.

E penso al mio amico Mario Adessi e alla Taranto della sua fanciullezza o a Mauro Ieva con le sue fotografie su Taranto ora in mostra al Teatro Comunale di Ruvo di Puglia.

Le cinque donne, novelle calvarie, Ecce feminae che raccontano, lì in piedi, crocifisse alla loro condizione e destino, lì a esorcizzare la morte col racconto perché ricordare e pensare è pesante senza la parola che comunica, condivide. Eco di voci, come pietre che cadono, tonfi con cerchi concentrici, provocano reazioni a potenze e avvenimenti che fanno presa sul corpo, prima di insidiare la mente.

C’è tutto il peso delle parole che si curvano, schiacciano sotto il peso ingombrante e prezioso dei ricordi, dei presagi, dei sintomi, della volontà quasi voluttuosa a ricordare.

La parola letta o comunicata o cantata dal palcoscenico ieri sera era carica, c’è quasi un ingorgo avviluppato di linfa, un addensamento di energia quasi come una galassia; una pressione e urgenza di parola che riscatta la dignità dell’essere uomini e donne.

In questa opera teatrale firmata da Alfredo Vasco e Mara Venuto ho ritrovato ciò che per Proust era il carattere peculiare di Baudelaire: «quella subordinazione della sensibilità alla verità». Grazie!

Giuseppina Girasoli