Un nuovo punto di vista sull’opera prima di Vito Davoli a vent’anni dalla sua prima uscita.

A quasi vent’anni dalla sua prima pubblicazione, Vito Davoli decide di rimandare alle stampe la sua prima raccolta di poesie Contraddizioni quasi come sollecito alla memoria e preludio a un discorso lasciato a metà: la pubblicazione del secondo volume della trilogia delle Contraddizioni, appunto, di prossima pubblicazione.

Un testo che ho profondamente amato giacché il percorso emotivo-esistenziale che Vito Davoli compie nella sua opera Contraddizioni sembra finalizzato ad una profonda analisi interiore attraverso la quale il poeta, addentrandosi fin nei più profondi recessi della propria anima («Ecco ora invasa la mia roccaforte fin dentro le segrete»), perviene ad una più precisa consapevolezza di se stesso, della propria arte, del proprio destino («Mi dimeno nel cercare chiarezze e sensi di marcia»).

Un itinerario che non riesce o non può percorrere serenamente («Questo mio accavallarmi fragoroso a me stesso») poiché costretto a lasciarsi «dischiuso dopo avermi rovistato incapace di cucirmi», ad intraprendere un dialogo angoscioso con le sue più riposte emozioni («Metto a rischio i miei giorni investendo nell’eternità»), a smarrirsi nelle molteplici sfaccettature del proprio mondo interiore («Convulso gioco di specchi dove mi rifletto ignorando la matrice»).

V.DAVOLI, Contraddizioni, Leucò 2001

Scenario ricorrente della riflessione è una stanza, fisicamente presente nella poesia “Al di là dei vetri” come sfondo buio e freddo della “ricerca”, appena rischiarato dal fioco chiarore della luna, appena riscaldato dal lieve tepore di una sigaretta, ma più spesso come elemento quasi in simbiosi con la poesia e il poeta: nido sicuro («La stanza dal balcone apre braccia di culla»), spettatrice partecipe «nell’agone che questa stanza applaude di me contro me stesso», confidente discreta in “Poesia dalla stanza”, bozzolo vuoto di crisalide («Ha pareti sporche e vuote la stanza dove vegeta l’argento antico della coscienza»).

Invece nella poesia “Ha ripreso a scrosciare”, la stanza in cui il poeta ascolta il suono della pioggia assume una connotazione assolutamente simbolica («Non sai neppure se sei nell’anima o nella nube alta») poiché la descrizione è tutta interiore, tanto che la pioggia e il tuono parrebbero in realtà espressione di uno stato d’animo. In questi versi però già i toni sembrano un po’ più sfumati di quelli angosciosi e tormentati di “Così”, “Dal balcone”, “Nel pugno s’incastra”, tranne qualche picco in «un pianto che sbuffa in ire violente» e «io amo sfondare pareti».

Vito Davoli

Quel «soffio di pace» infatti sembra piuttosto una cupa malinconia che ha il suono della pioggia che cade tranquilla e del rombo lontano del tuono, come una più topica “quiete dopo la tempesta”. Passata la quale («C’è un tuono lontano») l’unico suono percettibile («Lo senti quel suono? C’è un uomo») è la fievole eco dei singhiozzi di un uomo che piange, ma non lacrime di dolore… quelle verrebbe da dire che non sia disposto a piangerle.

Piange piuttosto perché sopraffatto dalle proprie emozioni. Il dolore infatti appare talmente intenso e inconsolabile da non poter essere associato alle lacrime; è invece un dolore che taglia, piaga e strazia, che strappa urla incontrollate e «graffi di rabbia su zolle di terra che il tempo compatta» nonostante tutto e si accompagna a pugni serrati, mascelle contratte, occhi socchiusi, fronte corrugata e labbra che sembrano non conoscere più il sorriso («Hai perso i petali profumati dei colori del sorriso, le fossette sulle guance dell’estate»).

Le ragioni del dolore affondano le proprie radici in un remoto passato che «torna senza mai essere più che sagoma scura», riaffiora in forma di ricordo o rimpianto («La memoria è una dolce sapida bugia. Sprofondo fra le rughe di una scottatura»; «Il ricordo è un viaggio senza tempo che forza confini assoluti fino a dismemorare»), funge talvolta da elemento destabilizzante («E questo senso continuo di frana non lo vedi riflesso nello specchio alle tue spalle»; «Mi dimeno nel cercare chiarezze e sensi di marcia»). E qui diventa difficile non associare quest’impianto emozionale alla lettura della bellissima “Madri” che pare racchiudere in sé tanto il senso del percorso quanto lo scandaglio preciso delle stagioni del vissuto fino a perdersi nel finale «datario con in calce tre puntini…».

V. DAVOLI, Contraddizioni, Amazon KDP (Seconda Edizione), 2021

Acquista il libro ad un prezzo speciale!

Non trascurabile nell’opera poetica del Davoli è certamente non soltanto il proprio bagaglio emotivo, ma anche quello culturale, fortemente radicato tanto negli studi classici compiuti, quanto nei propri interessi personali. Tutto ciò si esprime non soltanto sotto forma di ispirazione, ma a volte di vera e propria citazione. Il respiro dei classici greci e romani è quello che si riscontra più frequentemente, da Alceo («Non capisco neppure se il vento che mi soffia tra le dita») a Catullo (Odi et amo) e Virgilio («Vino e formaggio in agri taciturni»), con leggere incursioni anche nella letteratura cristiana di S. Agostino (E vanno gli uomini ad ammirare le alte cime dei monti) e del Cantico dei Cantici («Il tuo corpo ha il colore del mandorlo in fiore») come sosteneva il prof. Giovanni De Gennaro leggendo questa poesia.

La trama meditativa della raccolta rivela una personalità permeata non soltanto di razionalità ma di una non comune sensibilità, in cui un sentire oserei dire “femminile”, quella che il poeta stesso definisce «sensibilità del fiore», interseca, alternandosi e fondendosi, una sensualità più “mascolina”.

È questo in ogni modo il mondo emotivo in cui il poeta deve percorrere il cammino della propria esistenza, che si articola in una linea immaginaria che partendo da «Coltivo l’illusione che il mondo aspetti me» arriva a «Non ho memorie di sentieri scelti: solo di scorciatoie da spianare tirando erbacce al dorso dei ciglioni», per poi finire a «Il re sepolto si stringe al suo corredo di memorie» e «Io mi rivolterei tra polveri divine se potessi, ma il fango mi è più congeniale». Verrebbe da chiedersi quale sia il senso di questo percorso cielo-terra tra cui si frappone l’immagine di un destino già segnato. È un continuo anelito ad una vita non comune («Le bave scarlatte di ambizione»), la consapevolezza di enormi quanto fragili potenzialità («Voglio»), la possibilità di percorrere ad ali spiegate immensi spazi. Tuttavia non scompare mai la presenza di un intoppo, un ostacolo indefinito, qualcosa o qualcuno che sembra tarpare quelle ali con ineluttabile efficacia e allora non rimane che continuare a batterle inutilmente così, soltanto per conservare l’illusione del volo, oppure continuare a correre convinti di scalare montagne per poi scoprirsi sempre ai loro piedi. Talvolta però sono fattori autolimitanti ad impedire la salita («Troppo estesi i miei sentieri pianeggianti», «Se solo potessimo arrancare per la via neppure più tortuosa»).

V. DAVOLI, Contraddizioni, (terza edizione con letture critiche), PellicanoCult 2022

Acquista il libro al miglior prezzo disponibile
Leggilo gratuitamente in PDF nella nostra Biblioteca

Non è presente però in tutta l’opera alcuna intenzione di resa o sconfitta; battaglia sì, «agone che questa stanza applaude di me contro me stesso, quello del mondo fuori contro quello della stanza».

«La falce acuminata che stuzzica le piaghe sanguinanti dei ricordi» non impedisce di ricordare; «la lama arroventata che sfodera sottile la pelle vergine delle speranze» non impedisce di coltivare la speranza; la sensazione di frana non impedisce di «credere davvero che esista una vittoria», anche dalla terra è possibile desiderare di raggiungere il cielo, si può urlare anche in silenzio, amare anche nell’odio, salire per poi precipitare. «Mi racconto nel gioco delle montagne russe…»: che non risieda forse proprio qui il “gioco delle contraddizioni”?

Florinda Spadavecchia