Per chi lo abbia conosciuto, senza dubbio Enrico Vito Panunzio è stato un personaggio originale, bizzarro, orgoglioso, scontroso, tagliente e stravagante, dal volto trifronte: un po’ romano, abbastanza francese e moltissimo pugliese, per le profonde radici peucete e magnogreche.

Dal momento che l’autore è più noto come narratore, in questa sede mi limiterò semplicemente a radunare alcuni grumi di appunti sulla sua vita e
soprattutto sulla sua produzione poetica.

Panunzio, morto a Roma il 20 febbraio 2015, nacque a Molfetta il 1° luglio 1923. Il parto fu difficile, perché bisognò somministrare alla mamma malata di cuore ben trenta iniezioni ipodermiche di olio canforato.
La madre era Antonietta Poli (1896-1939), cugina e moglie di Giacinto Panunzio (1889-1976), prima avvocato e poi professore di francese nel ginnasio di Molfetta, seguace di Gaetano Salvemini.

Il meridionalista, che nel terremoto di Messina del 1908 aveva perso la moglie, una sorella e tutti i cinque figli, a otto giorni dalla nascita di Enrico, in una lettera fiorentina di prevalente contenuto politico, si congratulò con il corrispondente Giacinto Panunzio in questi termini: «Tante, tante congratulazioni e auguri per l’erede! La vita comincerà ad avere per te un altro significato! Ricordami alla tua Signora con rispetto».

Il 21 marzo 1939, a 16 anni Enrico rimase orfano di madre, e questo lasciò un segno indelebile nella sua vita e di riflesso nella sua produzione letteraria. Panunzio, in una poesia, definisce il padre «buddista nato / e fakiro» (‘Toccata’, in Tregua di Azzurro, II, p. 91). Per lui il genitore fu una guida e un faro, anche per la biblioteca ricca di libri francesi in lingua originale, a cui Enrico attinse a piene mani (Baudelaire, Rimbaud, Mallarmé, Villiers de l’Isle-Adam, Barbey d’Aurevilly, Balzac, Flaubert, Maupassant, ecc.).

L’esordio poetico è avvenuto in sordina con la silloge Giovane musa, pubblicata per volontà della madre e condiscendenza del padre nel 1940 dalla Casa Editrice “Quaderni di Poesia” di Milano, ma scritta l’anno prima, quando il poeta aveva 16 anni. Si tratta di una prova acerba e calligrafica, che tuttavia non manca di pregi e nascosti presagi. Di superiore livello è la scelta di traduzioni da I fiori del male di Charles Baudelaire (Bèrben, Modena-Milano 1946).

Nel 1942 imperversava la seconda guerra mondiale ed era in uso la tessera annonaria per fare acquisti alimentari razionati. Panunzio si trovava a Roma, dove lo zio paterno Sergio Panunzio, il più importante teorico del fascismo negli anni Venti del Novecento, eclissato solo dall’astro di Giovanni Gentile, ed ex sottosegretario alle Comunicazioni, insegnava Dottrina generale dello Stato all’università. Nel ’42 Giuseppe Ungaretti,
rientrato dal Brasile, era stato nominato Accademico d’Italia e professore «per chiara fama» della prima cattedra di letteratura moderna e contemporanea nell’Università di Roma. Panunzio seguì «in ascolto sacro» il «Corso-spettacolo» del docente, cioè le lezioni di Ungaretti, definito «gatto soriano» dal nostro poeta (Tregua di Azzurro, II, pp. 257-258), più o meno come Baudelaire, che dipinse Théophile Gautier col «suo sguardo pieno di fantasticheria felina».

Laureato in lettere, Panunzio insegnò per qualche tempo italiano e storia nei licei. Poi visse per vent’anni a Parigi, dove strinse amicizia col poeta Marino Moretti e diresse la Biblioteca dell’Istituto Italiano di cultura.
Nel 1955 con lo scrittore e sceneggiatore Gino Montesanto scrisse una riduzione radiofonica del romanzo La pelle di zigrino di Balzac. In Francia gli nacquero i figli Antoine, nel 1960, e Stefana Raffaella, detta Stephanie, nel 1961. Nell’Istituto Italiano, Panunzio rivide Ungaretti ottantenne nell’occasione di una conferenza su Dante Alighieri. A questo ventennio parigino quasi continuativo va aggiunta una decina di anni e più per frequenti ritorni in Italia in peregrinazione fra Roma, Parigi e Molfetta. A Parigi Panunzio abitava nel Quartiere Latino in Rue Royer-Collard.

In cinque di quegli anni parigini, fra il 1968 e il 1973, Enrico Panunzio insieme ai cuntisti e pupari siciliani Giacomo e Mimmo Cuticchio raccontò varie storie carolinge dell’Opera dei pupi nella “Cave Librairie
73”, cioè nella libreria di sua moglie Pierrette Jaqueline Austruy in boulevard St. Michel, di fronte al Jardin du Luxembourg, nel Quartiere Latino. In quel meraviglioso giardino spesso Panunzio, muovendosi a piedi,
incontrava il filosofo pessimista e ironico franco-rumeno Emil Cioran col bavero alzato a passeggio come un fantasma nella nebbia mattutina. Poi i Cuticchio tornarono a Palermo, dove nel ’73 aprirono il Teatro dei Pupi “Santa Rosalia”, ma Panunzio non smise di collezionare pupi siciliani e nell’ex convento dei Cappuccini al Pulo di Molfetta di tanto in tanto continuò a narrare le favolose gesta di Orlando, Angelica e dei paladini di Francia per la gioia dei propri figli Antoine e Stephanie, di Marc, nato dal precedente matrimonio di Pierrette, e di altri bambini ospiti.

Il battesimo in narrativa Enrico Panunzio lo ha ricevuto con la novella
Impossibilità del bene (in «La Voce di Molfetta», 1950, n. 1), seguita
dal racconto Un amore, pubblicato nell’antologia Prosatori e narratori pugliesi del Novecento di Ferruccio Ulivi ed Elio Filippo Accrocca (Adriatica, Bari 1969). Ma il suo vero esordio letterario è avvenuto con
I signori scaduti, otto magnifici racconti sul declinante ceto patrizio borghese meridionale, che costituiscono quasi un romanzo in embrione sulla Puglia del primo Novecento, scritti nel 1952, editi nel 1966 da Cappelli di Bologna, gratificati dal “Premio Salento” nel 1968 e infine ripubblicati nel 2013 da La Lepre Edizioni di Roma. Tra i consensi critici ricevuti, mi piace segnalare la recensione di Vincenzo Valente, Un «Gattopardo» pugliese, apparsa tempestivamente in «Politica e Mezzogiorno» nel 1966 (n. 1-2, pp. 127-132).

E. PANUNZIO, I signori scaduti, La Lepre Edizioni 2013

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Dopo una lunga fase di silenzio e fermentazione, a dieci anni dalla stesura, Panunzio ha dato alle stampe la visionaria, filosofica e ironica Apofasia del cav. Ciro Saverio Paniscotti (Guanda, Parma 1982).

E. PANUNZIO, Apofasia del Cav. Ciro Saverio Paniscotti, La Lepre Edizioni 2009

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Poi, addentrandosi con piglio mercuriale negli strabismi e nei barocchismi della sperimentazione linguistica, l’autore ha offerto il meglio di sé con i romanzi Il balcone di casa Paù (Bompiani, Milano 1983 – acquista il testo al miglior prezzo disponibile), insignito del Premio “Napoli” nel 1983, e Malfarà (Spirali, Milano 1986), giudicato il suo capolavoro da Alberto Moravia e Giacinto Spagnoletti e assegnatario del premio speciale “Brutium” nel 1987. Altri racconti, stilati a più riprese fra il 1952 e il 1988 e in parte pubblicati negli anni Ottanta sui quotidiani «Il Mattino» e «Puglia», sono confluiti nelle partiture “strabiche” della silloge L’idiota celeste (Pironti, Napoli 1989).

E. PANUNZIO, Malfarà, Spirali 1986

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In mezzo si situa l’oratorio Lo specchio di vera penitenza, musicato da Enrico Renna e dato in prima al Teatro “Flaiano” di Roma nel 1985. Nel terzo millennio si colloca il romanzo L’anno divino. Nigredo, edito da Schena di Fasano nel 2004.

Dopo aver affidato per anni le sue poesie a vari quaderni di appunti e a raccolte embrionali di liriche, come Anime nude, rimaste inedite, nel 1986 Panunzio pubblicò un Triduo poetico sulla rivista «La Vallisa» (a. V,
n. 13, Bari, aprile 1986). Finalmente nel 1997 diede alle stampe la trilogia poetica I novantanove nomi di Allah (Edizioni del Girasole, Ravenna
1997), che si divide in tre cicli o tomi: Tiziana, o I trentatré primi nomi
di Allah
. Nigredo; Pickwick, o I trentatré altri nomi di Allah. Albedo, e
La briciola dell’angelo, o I trentatré ultimi nomi di Allah. Rubedo.

E. PANUNZIO, I novantanove nomi di Allah. Nigredo. Albedo. Rubedo, Edizioni Del Girasole 1997

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In questo progetto poematico i lacerti esistenziali e le ricordanze servono da
pretesto per un corpo a corpo sensuoso e demiurgico con la parola, in una
mescidanza istrionica e verbale che ingloba realtà e invenzione, guizzi
ironici e fughe deliranti, discese terrigne e voli metafisici, alla ricerca
spasmodica di accostamenti inusitati.

Anche la raccolta di poesie Il peso degli angeli (Piero Manni, Lecce 1999) ha una struttura tripartita. Infatti si articola in tre sezioni: L’agguato del mattino, Poubelle e Il peso degli angeli.

E. PANUNZIO, Il peso degli angeli, Piero Manni Editore 1999

L’agguato del mattino raduna poesie lievitate durante la notte e assecondate dall’albeggiare mattutino. Poubelle, alla francese, è la pattumiera che raccoglie lo scarto del vissuto esistenziale. Dopo il passo «Angelo / catenato di terra retriva» nella poesia “Gomitoli di Australie e Stillicidio” (p. 45), la sequenza «Il peso degli angeli» appare in due versi della poesia “Commiato” alla fine della terza sezione e dà il titolo alla raccolta complessiva. Per dirla con l’autore, si basa su un ossimoro «in enfasi di ascensione e però sotto il
peso e lo schiaccio di una piuma effimera ma devastante».

Il volume Il peso degli angeli ha radici magno-greche e pugliesi, innesti francesi, dovuti al trentennio trascorso in Francia e soprattutto a Parigi, e arricchimenti romani, avendo vissuto Panunzio in anni diversi lungamente a Roma, dove ha frequentato letterati come lo scrittore Alberto Moravia (Roma, 1907-1990), il poeta Dario Bellezza (Roma, 1944-1996), lo scrittore e traduttore di Hugo e Maupassant Mario Picchi (Livorno, 1927 – Roma, 1996), il poeta Edoardo Cacciatore (Palermo, 1912 – Roma, 1996), lo scrittore e saggista Piero Sanavio (Padova, 1930 – Roma, 2018) e il pittore e scultore Paolo Guiotto (San Donà di Piave, 1934).

Enrico Panunzio con Dario Bellezza
(per gentile concessione del comune amico Beppe Costa)

Per quest’ultimo ha scritto il testo critico nel catalogo artistico della mostra
tenuta presso la Galleria “Giulia” tra il gennaio e il febbraio del 1973.
Un altro artista di sua conoscenza è stato l’illustratore Daniel De’ Angeli (Buenos Aires, 1954), per cui ha compilato la parte critica del catalogo La porta stretta, uscito per una mostra della Galleria “Trifalco” nell’aprile
del 1986.

Con Moravia, Enrico Panunzio s’incontrava spesso a Ponte Sisto e qualche volta lo ebbe commensale nella sua casa di Trastevere. Con Bellezza aveva dimestichezza e gli fece visita per l’ultima volta un giovedì sera, il 28 marzo 1996, tre giorni prima della morte, che avvenne nella domenica delle Palme.

Enrico Panunzio con Dario Bellezza
(per gentile concessione del comune amico Beppe Costa)

Con Picchi, ebbe spesso amichevoli scontri soprattutto su Maupassant, di cui il francesista riteneva di avere l’esclusiva.
Panunzio incontrava spesso Cacciatore, sempre a braccetto di sua moglie, in Via della Lungara, nel rione di Trastevere. Nei vicoli trasteverini il Nostro passeggiava spesso di notte discorrendo di letteratura francese e politica italiana con Sanavio, al quale lo legava una difficile ma salda amicizia, che rimontava agli anni parigini a cavallo del fatidico ’68.

Il peso degli angeli è caratterizzato da un ritmo fratto, attraversato da
eufonie e allitterazioni, ma molto raramente da rime. L’eloquio è raddensato, il dettato colto e a tratti misterioso, ricco di riferimenti autobiografici e di richiami eruditi. Panunzio insegue l’originalità attraverso l’écart
di Paul Valéry, cioè lo scarto dalla norma, con l’inserzione di neologismi
e la giustapposizione di termini inusitati e desueti, che rendono a volte
oscuro il verseggiare.

Tra i ricordi biografici segnalo, nella poesia “Ottavario” (p. 73), la rievocazione del nonno materno Giuseppe Poli fu Giacinto, rinchiuso per due mesi nel carcere di Trani, perché sospettato di essere stato uno degli istigatori socialisteggianti dei moti del 1° maggio 1898, che a Molfetta costarono 6 morti e 11 feriti falcidiati dai soldati inviati per sedare i disordini. Tra gli arcaismi del libro cito lucerta per ‘lucertola’ (pp. 9, 75), vocabolo trecentesco. Una via di mezzo tra un arcaismo e un neologismo è ciffoniera ‘armadio con specchi’ (p. 54). Nell’800 circolavano in Italia i termini cifonièra e scifoniera, dal francese chiffonière, ma Panunzio preferisce ciffoniera, più vicina all’etimo francese e al dialettale ciffunìërë.
Un dialettismo è anche il fitonimo perchiazze ‘portulache’ (p. 94). Una forzatura di Panunzio per ‘caprifichi’ è aprifichi (pp. 75, 143), che ritiene
termine «indigeno» (p. 181), ma il molfettese e il pugliese in realtà danno profico (prëfàiscë). Un’altra licenza poetica e narrativa di Panunzio è rappresentata dalla «vespa turchina» (pp. 85, 181), che è la zita-viola
(pp. 75, 181) o semplicemente la viola, che non è altro che un coleottero,
chiamato Cetonia aurata.

Tra i neologismi vi sono voci come tuttuna, tuttune, tuttuno (pp. 10, 95, 120, 156), nienteità (pp. 23, 109), nientezza (p. 47), maciara ‘maga, fattucchiera’ (p. 29), rifatta sul molfettese mêsciàlë; tuppi ‘crocchie’ (p. 69), ripresa dal molfettese tuppë; gridazziere ‘urlanti’ (p. 80), influenzata pure dal dialetto nativo; infigliare (p. 110), stràngolo (p. 114), sonnìloqua (p. 126) e tutta una serie di aggettivi in –oso, come sognosa (p. 66), saettose (p. 71), granchiose (p. 80), querciosi (p. 80), coccolose (p. 81), serpose (p. 90), spregiosa (p. 149).

Tra le tante belle poesie, segnalo …innanzi di prossima Luce (pp. 36-37) dedicata a Dario Bellezza a poco più di un mese dalla morte; Scheda (pp. 53-54), che rievoca la madre cardiopatica morta prematuramente a 43 anni; Epicedio di guerra (pp. 60-61), che ricorda il 1941 o, meglio, il ’42 a Roma, quando l’autore aveva 18-19 anni, mangiava ricotta con la tessera annonaria e castagnaccio, traduceva I fiori del male di Baudelaire e si affacciava nei bordelli, dove le “marchette” venivano sospese durante l’ascolto dei bollettini di guerra. Insomma, il patriottismo metteva in pausa l’erotismo.

Altre poesie notevoli sono Ritratto in madrigale (pp. 77-79), che descrive un dagherrotipo ottocentesco della nonna paterna; Sera Appia (p. 83), che risale al 1945 ed è ambientata nel quartiere Appio-Latino, e Gli Amici (pp. 94-96), ricordo di Raffaele Ruta, Alberto Moravia, Mario Picchi e Dario Bellezza.

Enrico Panunzio (Molfetta 1923 – Roma 2015)

Dopo la silloge Inchiostro di alba stampata a Roma nel 2001 dalle Edizioni della Cometa, va ricordata anche la raccolta L’occhio di Parigi, pubblicata nel 2004 dall’Editrice Letteraria Internazionale Libroitaliano di Trapani e dedicata a Pickwick, vale a dire all’amata moglie Pierrette.
L’occhio di Parigi raccoglie 38 poesie dedicate a quartieri, luoghi suggestivi e anche personaggi di Parigi, dove al predominante elemento visivo si giustappongono «ossessioni» olfattive. In un impasto multilingue, l’italiano dotto e parlato s’intreccia al francese e al molfettese e pugliese italianizzato. Per l’italiano parlato segnalo incazzosa (p. 20) e capasciacqua ‘testa vuota’ (p. 64), che è anche napoletano (cfr. Na capa sciacqua di Eduardo Scarpetta). Per il pugliese e molfettese cito papazza ‘sonnolenza’ (pp. 33 e 58), assanagliata ‘assatanata’ per assaglianata ‘scalmanata, affannata’ (p. 45); scarcella ‘dolce pasquale’, da Panunzio indicato invece come natalizio (p. 55), e lupomani ‘lupi mannari’ (p. 57). Da segnalare l’epitalamio ‘Mairie Cinquième’, che rievoca il matrimonio di Enrico con Pierrette, nata a Parigi il 23 agosto 1927 e morta in Italia settantaseienne il 14 dicembre 2003.

Enrico Panunzio

Almeno un cenno merita il “canzoniere” Tregua di Azzurro, che si rifà nel titolo alla poesia L’Azur di Mallarmé ed è stato pubblicato dall’editore Schena di Fasano nel 2005 in due volumi in cofanetto articolati a comporre una tetralogia: Prisma di Eterno, Cifra di Ombra, Attimo di Colomba e Voglia di Luce. Alla struttura portante della koinè letteraria italiana, il poeta giustappone neologismi, parole francesi e ancora una volta termini dialettali molfettesi e pugliesi italianizzati. Per evitare il «terrore di itinerari già percorsi», Panunzio forza «l’approccio semantico per rinnovo di stilemi», come spiega nella prefazione (vol. I, p. 7). Il poeta procede per accumulo e garbuglio inesausto di ricordi, parole e immagini. Ne risulta un linguaggio spesso criptico, esoterico, ellittico, idiolettico, molto arduo. Da segnalare in Tregua di Azzurro almeno diverse poesie dedicate alla defunta moglie Pickwick, ossia alla diletta Pierrette.

In definitiva, il versante poetico di Enrico Panunzio si configura come un pianeta letterario estremamente variegato e composito, dotto e curiosamente originale, la cui lettura richiede replicati approcci e continui approfondimenti biografici, filologici e contenutistici.

Marco Ignazio de Santis