Ignazio Buttitta (Bagheria, 1899 – 1997) è senza dubbio il più grande poeta siciliano del ‘900. Certamente la Sicilia ha prodotto tanti altri ottimi poeti dialettali, da Sante Calì a Vannantò – ma la forza espressiva, la tensione politica, la concezione della poesia come atto rivoluzionario e di risveglio delle coscienze, nonché come ‘voce’, recitazione, teatralità,direi ‘corporeità’, in Buttitta è insuperabile.

Da ragazzo lavora nella salumeria del padre, partecipa alla prima guerra mondiale, assume posizioni antifasciste, scende in piazza per gli scioperi dei lavoratori, pubblica testi di poesie sin da ‘Sintimintali’ del 1923.

Si sposta in Lombardia e lì conosce Quasimodo e Vittorini. Addirittura Quasimodo gli traduce in lingua italiana Lu pani si chiama pani (1954).

Pubblica Lamentu pi la morti di Turiddu Carnivali, messo in musica dal cantautore Ciccio Busacca. E poi l’apprezzamento di Pasolini e altre raccolte. L’autobiografia La mia vita vorrei scriverla cantando. Il premio Viareggio (1972), la laurea honoris causa.

I. BUTTITTA, La mia vita vorrei viverla cantando, Sellerio 1999

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Un poeta-affabulatore, che radunava attorno a sé piazze piene di gente che veniva ad ascoltarlo recitare i suoi testi. Un fenomeno irripetibile.

Molte sue poesie sono famose e tuttora recitate dal popolo siciliano. Forse la più nota in assoluto è Lingua e dialettu, che può essere una sorta di manifesto sull’importanza e la necessità del dialetto: tutto tu puoi togliere al popolo – scrive – ma non gli puoi togliere «la lingua avuta in dono dai padri»:

Un popolo mettetelo
in catene
spogliatelo
tappategli la bocca,
è ancora libero.

Toglietegli il lavoro
il passaporto
la tavola dove mangia
il letto dove dorme
è ancora ricco.

Un popolo,
diventa povero e servo,
quando gli rubano la lingua
avuta in dono dai padri:
è perduto per sempre…

* * *

Un populu
mittitilu a catina
spugghiatilu
attuppatici a vucca,
è ancora libiru.

Livatici u travagghiu
u passaportu
a tavula unni mancia
u lettu unni dormi,
è ancora riccu.

Un populu,
diventa poviru e servu,
quannu ci arrobbano a lingua
addutata di patri:
è persu pi sempri…

Meravigliosa poesia: noi siamo dialetto e se ci togli il dialetto (la lingua tramandata dagli avi), non resta nulla. Non restano più tradizioni e storia, identità e parola. Solo macerie e caos. Solo infelicità e sradicamento.

Daniele Giancane