Un saggio breve di LORENZO SPURIO

La vicenda di Salvatore Carnevale, bracciante e sindacalista della classe contadina barbaramente ucciso dalla mafia locale a Sciara (PA) nel 1955, scosse molto l’opinione pubblica dell’epoca. Definizione, quest’ultima, oggi d’ampio utilizzo e che possiamo concederci d’impiegare in tale dissertazione volendo intendere il panorama provinciale del periodo, quello relativo alla cultura popolare dell’epoca, vale a dire della classe contadina.

L’omicidio di Turiddu – appellativo ancora oggi molto usato per riferirsi a uomini che portano il nome di Salvatore – si colloca in un anno particolarmente tormentato per la storia socio-politica del nostro Paese. Siamo nel pieno degli anni Cinquanta – nel 1955 per l’esattezza – a meno di dieci anni di distanza dal referendum istituzionale che vide la vittoria dell’istituto repubblicano e la nascita del nuovo Stato Italiano. Un periodo dove politicamente domina la Democrazia Cristiana e così sarà ancora per molto tempo negli anni che seguiranno che, dal punto di vista sociale, vede l’uomo allontanarsi ben coscientemente dai drammi e dai profondi traumi del secondo conflitto mondiale che aveva lasciato il Paese dilaniato e in balia dell’esigenza di una forte rinascita collettiva e di una ricostruzione veloce.

Siamo, però, anche in una vigilia – possiamo denominarla così conoscendo bene il corso degli anni e delle decadi successive – che aprirà a un periodo di rinato slancio e di benessere collettivo, quello del “boom” o miracolo economico che la storiografia localizza nel periodo 1958-1963. Intervallo di cinque anni in cui, pure, si assiste all’importante Pontificato di Giovanni XXIII, il “Papa Buono” che, dalla recondita provincia veneta e dal Patriarcato di Venezia, giungerà a vestire il pallio di San Pietro dando un segno molto importante alla Chiesa Universale con il mai dimenticato Concilio Vaticano.

Se l’indomani dell’Unità d’Italia (1861) si erano evidenziate (esasperate) le grandi e mai gestite vulnerabilità della Nazione – vale a dire il profondo divario tra classi sociali ma anche tra Nord e Sud del Paese, finanche la presenza di cellule più o meno organizzate di potere eversivo che impiegavano la violenza, alla ricerca di una propria autonomia, secondo una logica verticistica e di dominio (brigantaggio, mafia, cellule indipendentiste, forme deviate e massoniche) – tali idiosincrasie e problemi – la nota “questione meridionale” di Jovine, Silone e Scotellaro – per intenderci – non mancarono di rappresentare la loro pervasività nel tessuto sociale. Non si intende, comunque, ripercorrere qui in pochi paragrafi l’intera Storia di vari decenni del nostro Paese che sarebbe erroneo voler ricondurre a semplificazioni, considerazioni sinottiche e visuali veloci e riepilogative.

Il fenomeno corruttivo era stato ben delineato da vari autori non solo in relazione ad alcune categorie professionali ma con particolare attenzione agli apparati statali e del mondo della burocrazia, sino a quella concernente gli organi dello stato. La Protesta del Popolo (1848) di Luigi Settembrini può essere un chiaro esempio di questo aspetto. Unitamente alla corruzione agli alti livelli, s’imprime anche nella letteratura l’attenzione verso le stagioni del brigatismo con la figura di Salvatore Giuliano e la strage di Portella della Ginestra che accadde nel 1947.

La letteratura della mafia – a partire forse da I Beati Paoli (1941) di Luigi Natoli – è praticamente un flusso continuo di nuove scritture, nelle forme del romanzo e del saggio investigativo, ma anche di scoperte tra la produzione scritta di decenni passati tra chi, mosso da vari scopi e con i linguaggi più diversi, se ne è occupato. Penso ad alcuni nomi di intellettuali, più o meno noti al grande pubblico, dei quali negli ultimi anni mi sono occupato scrivendone note di approfondimento. Penso ai giornalisti Giuseppe Fava e Peppino Impastato – attivista che non si risparmiò nel denunciare la “montagna di merda” del fenomeno mafioso – ma anche Danilo Dolci, voce di «Radio Partinico», Maria Saladino di Camporeale, finanche i magistrati che, nello svolgimento della propria professione – una vera missione – caddero nelle reti invalicabili della piovra, da Falcone a Borsellino, ma anche Livatino e Chinnici e altri ancora, senza dimenticare il Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e politici di primo piano quale il fratello dell’attuale Presidente della Repubblica, Piersanti Mattarella, allora Presidente della Regione Sicilia, barbaramente ucciso come tanti altri uomini di chiaro impegno, amanti della legalità e instancabili lavoratori per la ricerca della verità.

Non possiamo dimenticare l’apporto degli intellettuali di questa battaglia combattuta contro i poteri deviati del fenomeno corruttivo che, proprio in territorio sicano, ha visto i più efferati crimini. Due testi poetici, entrambi in dialetto siciliano – palermitano (l’uno del piccolo comune dell’entroterra denominato Aliminusa, l’altro di Bagheria) ci parlano dell’amara vicenda di Salvatore Carnevale assassinato nel 1955. Il primo è quello di Giuseppe Giovanni Battaglia di Aliminusa, che esordì in campo poetico con tre opere in dialetto locale (La terra vascia del 1969, La piccola valle di Alì, del 1972 e Campa padrone che l’erba cresce del 1977) quale segno di profondo attaccamento e riverenza alla sua terra, per poi seguire un percorso diverso, veicolato in una poesia in lingua d’indagine ontologica, di fine espressione intellettuale, particolareggiata e profondamente intima. L’altro testo è quello de cantastorie “poeta nella piazza” Ignazio Buttitta, di fede comunista, amico e frequentatore di esponenti quali il pittore Renato Guttuso e l’intellettuale Leonardo Sciascia.

Ignazio Buttitta (1899 – 1997)

La poesia “Turiddu” di Giuseppe Giovanni Battaglia (1951-1995) è contenuta nel volume La piccola valle di Alì (Flaccovio, Palermo, 1972), prezioso libro che si apre con una lettera posta quale prefazione vergata dallo scrittore Leonardo Sciascia che parla di «Un dialetto integrale e “lontano”, come una restituzione alla memoria, all’infanzia, alla vita dei nostri paesi, all’interno dell’isola come erano tra le due guerre». L’autore de Il giorno della civetta sottolinea nel suo breve scritto come Battaglia abbia fatto uso della parlata locale, frutto autentico dell’esperienza oriunda e gnoseologica dell’appartenenza alla terra, con una finalità chiara: il dire evita l’evocazione (e certamente anche l’invocazione) per addentrarsi nel mondo tangibile dell’individuazione: «ho visto che alle parole corrispondevano le cose, la realtà, la situazione in cui l’assume, la condizione cui si ribella». Parole profetiche se pensiamo che Battaglia, in seguito, scriverà opere quali I luoghi degli elementi (1986) e Inventario degli strumenti del padre e della madre (1987) dove l’elemento-oggetto (inteso come cosa concreta che in sé assomma esperienze, ricordi e affetti) risulta centrale. Emblematica è l’idea dei suoi tanti “Inventari”, all’estrema ricerca di una catalogazione minuziosa del concreto per giungere a una mappatura totale dei sensi, delle sensazioni e dei significati. Il proposito – il recupero dell’arsenale degli affetti e la costruzione globale dei reperti della memoria – pur lodevole non può che essere raggiunto in forma elusiva, carente, manchevole di quell’idea di totalità. L’oggetto, allora, da punto di partenza diventa elemento limite, ma anche circostanza a latere di un ripercorrere i sentieri del vissuto. Percorso accidentato non in quanto rovinoso nel periglio dato dalle insidie, ma affaticato dall’immancabile frammentarietà.

G. G. BATTAGLIA, Voglia di notte, Edizioni Arianna 2019

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La poesia di Battaglia che parla di Turiddu è forse – insieme alla celebre “La terra vascia” che diede il titolo al suo primo volume e al componimento dedicato al rivoluzionario greco Alekos Panagulis (amante della battagliera Fallaci) – una tra le più belle.

Essa può essere scomposta – per il tema e il tono impiegato – in due parti ben contraddistinte. La prima di esse è relativa a un tempo in cui l’assassinio dell’uomo è già avvenuto, lo spargimento di sangue – il crimine – si è compiuto. L’accadimento è avvenuto come al rallentatore di una scena di una pellicola, attorniato – lo immaginiamo – da una folla più o meno ampia.

Il contesto della morte, dunque, è in mezzo al popolo di cui faceva parte – e di cui era difensore – lì, proprio tra la sua gente. Che cosa accade? Il poeta riflette su tutte quelle azioni della vita pratica dell’uomo, contadino giornaliero come tanti, che Turiddu ora che è morto non potrà più svolgere.

Battaglia ne fa una sorta di elenco (inventari e cataloghi in lui, si è già detto, sono piuttosto ricorrenti) per rimarcare la vastità di impegni e di sacrifici del contadino siciliano. Un collegamento diretto è alla lirica “Jurnateri” che pure dipinge molto bene quel mondo subalterno. Con la morte di Turiddu non solo tutte quelle attività da lui portate avanti cessano ma è come se, proprio per l’azione nefanda commessa dell’assassinio, anche gli altri giornalieri vengano in qualche modo a subirne le conseguenze.

Turiddu Carnevale

L’assassinio di Turiddu, che è pensato quale soluzione da parte di qualcuno per eliminare il contestatore, l’eversivo, l’oppositore e il fastidioso, solo perché difensore dei suoi sacrosanti diritti di lavoratore, vuole anche avere come effetto quello d’imprimere sul popolo un messaggio chiaro: è questa la fine che fa chi non si sottomette e alza troppo la voce. Pensato, dunque, anche come ammonimento sociale e reprimenda, è vissuto dal popolo contadino orfano del suo fratello, come affronto ed ennesima forma di supremazia e tirannide. Lo sconforto e la rabbia, il dolore e la minaccia continua non lasciano, però, posto alla facile sottomissione né alla sola lamentazione. È, quello di Battaglia, un canto di sofferenza e di condanna, di commemorazione e lotta.

In questa prima parte del componimento che ho inteso selezionare leggiamo (riportiamo direttamente la traduzione in italiano e, a seguire, l’originale in dialetto):

Il morto imbrattato di sangue
parla agli uccelli
agli alberi e al seminato
e si addolora
che non può mandare gli uccelli
a cantare nelle campagne,
a discorrere di uomini santi e diavoli;
e farsi baciare perché li fece andare
sulle bocche
dei pozzi, coi pizzi aperti,
a tastare l’acqua della libertà.

E si addolora di non potere più piantare, abbeverare e potare
gli alberi e raccogliere la più
bella foglia da mettere
nel libro vecchio della storia;
e il fiore sopra il tavolino
tra le molliche di pane
e le osse d’oliva e il ritratto
del padre.

E di non potere seminare a novembre
neanche raccogliere a giugno
e aiutare la madre a infornare il pane.

* * *

Lu mortu nciardatu di sangu
parra e l’aceddi
all’arbuli e a lu siminatu
e si mutria
ca nun po’ mannari cchiù l’aceddi
a cantari nta li campagni
a discurriri di omini santi e diavuli;
e farisi vasari picchì li fici iri
supra li ucchi
di li puzzi, cu li pizzi aperti,
a tastari l’acqua di la libirtà.

E si mutria di nun putiri cchiù chiantari, abbivirari e putari
l’arbuli e arrimpicari la cchiù
bedda fogghia di mettiri
nta lu libbru vecchiu di la storia;
e lu ciuri supra lu tavulinu
tra li muddicchi di pani
e l’ossa di l’alivi e lu ritrattu
di lu patri.

E di nun putiri siminari a nuvembri
mancu arricoghiri a giugnu
e aiutari la matri a nfurnari lu pani.

A questa parte, che in chiave sottrattiva e nostalgica descrive quel che, con la morte di Turiddu, si è irreversibilmente perso, segue una parte che ben s’inserisce nella più alta tradizione della commemorazione. Sono versi che tendono a innalzare le sue doti e virtù di uomo ma che vanno anche oltre, facendolo più di un semplice uomo, come spesso accade nelle forme dell’elogio funebre. L’uomo viene quindi ritratto per mezzo di dettagli che tendono a innalzare le qualità a consegnarlo al lettore quale esempio di rara bellezza, di sincero affetto, di fiera difesa degli emarginati, caricandolo di una dimensione superiore, vicina alla mitologia e all’eroismo:

Quant’era bello Turiddu
con un ciuffo di capelli neri
che s’appozzava nella sua fronte.
Quant’era bello colle mani in croce
e con la testa
che guardava al sole.
Quant’era bello
mentre guardava
negli occhi suo padre
nell’aria rossastra
e la madre se lo baciava
se lo stringeva
ci afferrava le mani
e ci voleva dare fiato
ma non sapeva che i bambini
diventavano uomini
col fiato suo;
ci voleva dare la voce
ma non sapeva
che lui parlava
con la voce dei poveri
dei giornalieri e dei contadini
nelle trazzere;
ci voleva dare sangue
ma non sapeva
che ai giornalieri di Sciara
ribolliva il sangue
col suo sangue per le strade del mondo.

* * *

Quant’era beddu Turiddu
cu un ciuffu di capiddi niuri
chi s’appuzzava nta la so frunti.
Quant’ea beddu cu li manu ncruci
e cu la testa
chi taliava a lu suli.
Quant’era beddu
mentri taliava
nta ll’occhi a so’ patri
nta ll’ariu russignu
e la matri si lu vasava
si lu strincia
ci affirava li manu
e ci vuleva dari ciatu
ma nun sapia ca li picciriddi
divintavanu omini
cu lu ciatu d’iddu;
ci vuleva dari la vuci
ma nun sapia
ca iddu parrava
cu la vuci di li poviri
di li jurnatera e di li viddani
nta li trazzeri;
ci culeva dari sangu
ma nun sapia
ca a li jurantera di Sciara
ci arrivugghievanu li sangura
cu lu sò sangu pi li strati
di lu munn.

Qualche nozione anche su Ignazio Buttitta (1899-1997), per avvicinarci al Lamentu ppi la morti di Turiddu Carnivali, la sua composizione dedicata a Salvatore Carnevale resa celebre anche grazie all’interpretazione di Ciccio Busacca.

Buttitta nacque a Bagheria, comune dell’hinterland palermitano allora arretrato e in preda alle prime lotte sociali e operaie nel 1899 da una famiglia di commercianti. Simpatizzante e vicino all’ideologia comunista, ne fu una delle anime della zona. Il suo impegno socio-politico nacque con lui: nel 1922 figurava tra i fondatori del Circolo di Cultura “Filippo Turati” e due anni dopo dal socialismo era confluito nel più radicale partito comunista che non abbandonò mai sino alla sua morte.

Durante il secondo conflitto mondiale Bagheria venne bombardata e il poeta nel 1943 si trasferì per un periodo al nord Italia, a Codogno, per ritornare in maniera definitiva nella sua città nel 1960.

Intensa la sua produzione poetica contrassegnata da testi di chiaro impegno sociale a partire dalla prima raccolta, Sintimintali (1923), dove, secondo Marco Scalabrino, «emergono poesie di forte impegno civile e umanitario»1, passando per Marabedda (1928) e Lu pani si chiama pani (1954) dove ancor più intenso si fa il canto di sfogo e denuncia, di dolore e deplorazione per l’ingiustizia e la cieca violenza.

1. MARCO SCALABRINO, Ignazio Buttitta dalla piazza all’universo, Edizione dell’Autrice, Venezia, 2019, p. 13.

Di questa fase va di certo ricordata l’opera Lamentu ppi la morti di Turiddu Carnivali (1956), componimento di sofferenza e commemorazione per la morte violenta di Salvatore Carnevale che, come ricordato, avvenne nel maggio del 1955 a Sciara, nel Palermitano.

Turiddu Carnevale

Il volume venne arricchito dalla prefazione e dalla traduzione di Franco Grasso. Esso contiene ballate e canti popolari dove, dal punto di vista metrico, si prediligono schemi classici, della tradizione musicata, di ottave siciliane ed endecasillabi. Questo lamento (come tutti i lamenti, vien ricordato nel volume di Scalabrino il celebre Llanto por Ignacio Sánchez Mejías di Federico García Lorca per il torero amico morto sull’arena) ha una forza comunicativa senza pari al punto da portare a una forte mimesi e compartecipazione alle vicende dolorose in quel dato ambiente che sembra abbandonato da Dio.

Buttitta esprime se stesso per mezzo del dolore collettivo di un popolo che assiste all’ennesima barbarie. Il tono è alto, è un’elegia dove si percepisce nettamente la sofferenza ma anche il bisogno di dire, di svelare il marcio. Di rivendicare e d’impegnarsi per abbattere una determinata società. Il dolore è raggrumato nella presenza afflitta della povera madre dell’uomo assassinato («Mio figlio aveva il sangue d’oro fino / e questo l’ha d’aria di pantano»2).

2. Testo originale: «Me figghiu avìa lu sangu d’oru finu / e chistu di pisciazza di pantanu».

Natale Tedesco ha parlato di «narrativa epico-lirica»3. Buttitta è il cantastorie – il suo è un cuntu – che narra non le gesta vittoriose di un possibile eroe che lascia il suo regno, segue traversie e poi, maturo, vi fa ritorno, ma è cronista di una storia malvagia, di una vita ammorbata dall’odio e dalla violenza dove la morte è il segno della depravazione della razza umana. Ecco perché in queste figure popolari, che soffrono e vivono un vero e proprio processo di sofferenza e martirio, che Buttitta svela, quale parallelismo, l’immagine di un Cristo sofferente, sottoposto alle sevizie, deriso e sottomesso dai cattivi: «Turriddu Carnevale nominato / che come Cristo morì ammazzato»4.

3. MARCO SCALABRINO, Ignazio Buttitta dalla piazza all’universo, op. cit., p. 78. 

4. Testo originale: «Turiddu Carnivali nnuminatu / e comu Cristu murìu ammazatu».

Il bracciante stroncato è una vittima – metafora di una classe denigrata e oppressa dai potenti – ma è anche un eroe, un esempio buono da seguire: nel suo impegno verso il lavoro, la dedizione alla famiglia, la moralità e l’ideologia socialista in aiuto e sostegno dell’intera classe sociale.

Questo realismo, che è un riflesso di quel vivido espressionismo pittorico dell’amico Guttuso, provoca un certo stordimento: tra la pedissequa tracciatura di una vicenda di cronaca di quel periodo, Buttitta adopera una trasfigurazione della storia che si fa maestra di vita, testamento di sapienza, monito e ambito di riflessione. Cantare l’amara fine di Turiddu Carnevali non è un tentativo piagnucoloso di ricordare un uomo qualunque e la violenza con cui è stato messo fuori gioco, ma è denunciarne il vile atto commesso, imprimere una dichiarazione di sdegno e di sfida a chi brutalizza il popolo con la violenza per i suoi fini.

Lorenzo Spurio