Qualcuno mi informò che al Consolato jugoslavo di Bari lavorava un poeta, tale Dragan Mraovic. Era il 1985. Subito volli conoscerlo: nacque così un’amicizia che è durata oltre trent’anni (fino alla sua dipartita proprio quest’anno) e che ha dato vita ad una cooperazione tra poeti italiani e poeti jugoslavi mai vista prima.
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Si vive e non si comprende mai abbastanza il confine tra la vita e la morte. Quando un affetto scompare si squarciano i veli e si barcolla tra l’incredulità e il reale. Il tempo da ‘soggetto’ sonnacchioso diventa improvvisamente il nemico su cui scagliare dardi impietosi. L’ansia ti serra la gola e annaspi tra dubbi e incertezze. Ti chiedi se sia tu ad essere nel mistero o se l’opacità dei giorni ti abbia negato di comprendere il senso vero dell’esistere.
Un ponte fra due mari
È di fondamentale importanza il luogo, la lingua, la cultura del proprio popolo, la memoria per fare un uomo! Altrettanto importante è il fuoco che spira dentro, il bisogno di confrontarsi con se stessi e il mondo, per fare un uomo e un poeta, un artista a tutto tondo.
Quella lingua di fuoco che si agita in noi, la parola viva che ci caratterizza, si fa canto e vita e ci accompagna nel viaggio, a scoprire l’universo che è presente in ciascuno, le emozioni, i propri ideali, i valori basilari dell’accoglienza, della nostra ardente umanità.
Come scrivevo nel 1988 nella mia prefazione critica a L’erba del mio volto di Dragan Mraović, è dal 1985 che questo vivacissimo intellettuale ha costruito sull’Adriatico un ponte letterario fra la Jugoslavia e l’Italia, fra i Balcani e il Bel Paese, traducendo poeti e narratori dell’ex Jugoslavia sulla rivista barese «La Vallisa».
La notizia giunge come una schioppettata: Dragan Mraovic, il vecchio amico, l’uomo con cui abbiamo costruito dei ‘ponti’ letterari e dei rapporti umani indimenticabili tra poeti italiani e poeti della Serbia, è morto improvvisamente.