La notizia giunge come una schioppettata: Dragan Mraovic, il vecchio amico, l’uomo con cui abbiamo costruito dei ‘ponti’ letterari e dei rapporti umani indimenticabili tra poeti italiani e poeti della Serbia, è morto improvvisamente.

È difficile rammentare ciò che abbiamo inventato insieme (il sottoscritto lo andò a trovare nel 1985 al Consolato di Serbia a Bari e da quell’incontro nacquero mille iniziative, assieme ad altri amici come Anna Santoliquido, Donato Altomare, Loredana Pietrafesa, Marco I.de Santis, Enrico Bagnato ed altri): infinite partecipazioni a readings (specie quelli ottobrini di Belgrado), convegni, una congerie di libri di autori serbi pubblicati da ‘La Vallisa’ (studiati a lungo e con finezza da Gianni Palumbo nel suo volume Vestali in un mondo senza sogni) e di libri di autori italiani (tra gli altri, quattro o cinque miei) pubblicati in Serbia.

G. A. PALUMBO, Vestali in un modo senza sogni, SECOP 2011

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Trent’anni di collaborazione, radunati anche in un libro: I nostri primi trent’anni. Lo abbiamo confortato negli anni bui delle guerre balcaniche, anche con collette che spedivamo in qualche modo agli amici serbi. Le nostre case erano sempre piene di poeti serbi. Dragan per molti anni è stato a pranzo a casa mia ogni domenica. Io ho mangiato diverse volte a casa sua. Volevamo acquistare una casa – noi de ‘La Vallisa – situata lungo il Danubio.

Fummo chiamati da Karadzic a dire la nostra sul conflitto balcanico. Una storia lunga e intensa, narrata in parte in due tesi di laurea. Ed ora Dragan Mraovic non c’è più.

Credo che vorrebbe essere ricordato come poeta e allora riporto una sua splendida poesia: Vanja, che sa di precarietà di tutte le cose, con quella infinita malinconia che è caratteristica dei popoli dell’Est. E coll’immenso mitico Danubio, che scorre potente ma imperturbabile sulle vicende umane.

VANJA

Vanja, il sogno scorre col Danubio
E non tornerà mai più così splendente.
Tu, io e questa sera dolce del connubio
Svaniremo come una stella cadente.

Vanja, le strade sono buie e deserte.
Ogni tanto ci tocca teneramente una brezza
E coi tuoi capelli luccicanti si diverte,
gioca miracolosamente e li accarezza.

Tutto sarà, ma noi mai più in questa ragnatela,
dove la Luna svanisce da quel volto celeste.
Sulla mia fronte si è già accesa una candela
Come un faro in mezzo al gorgo delle tempeste.

Vanja, senti la notte che dal Danubio si fa amare?
È tardi. L’ultima lucciola spegne già il suo lumino.
Una volta sola si è capaci di tutto ciò che si vuol fare,
una volta sola la mia mano ti potrà salvare dal destino.

Vanja, tu non cedere a queste mie rime.
Ti ingannerà il mormorio della notte profonda.
Potresti illuderti: il Danubio sublime,
col tuo nome, le mie labbra inonda.

Ma al Danubio non importa della nostra chimera.
Perciò non parlare, non aggiungere niente.
Anche se dovessimo impazzire questa sera,
il Danubio continuerà a scorrere lentamente.

Vanja, abbracciamo il Danubio, quest’acqua potente,
anche se non c’è posto per noi nella sua memoria,
e quando la notte alzerà il suo velo indecente,
sorrideremo segnando la fine della nostra storia.

dal volume L’erba del mio volto, Bari, ed.La Vallisa,1988

Daniele Giancane

Dragan Mraovich

Due poesie di Dragan Mraovich

Ho conosciuto solo una volta a un “Lunedì letterario” DRAGAN MRAOVIC e ho di lui un bel ricordo. Mi colpì soprattutto la sua grande umanità e una poesia che lesse contro la guerra. Non ricordo più il titolo e le parole, ma il senso era più o meno questo: Chi comanda la guerra (come sta accadendo oggi) non è una persona normale, ma una mente malata che ha bisogno solo di essere curato. Per Lui la mia umile preghiera.

Riporto di seguito due poesie di Dragan, edite da Giuseppe De Matteis nell’articolo Un ponte tra due mari: Dragan Mraovic, poeta e traduttore, valido esempio della letteratura serbo-croata, edito su Readkong a questo link: https://it.readkong.com/page/un-ponte-tra-due-mari-dragan-mraovic-poeta-e-traduttore-4449804.

Queste due poesie si snodano attorno al tema della morte che penso sintetizzino il suo pensiero sul destino di ognuno di noi. La prima dalla silloge L’erba del mio volto dà il titolo alla raccolta omonima:

L’erba del mio volto

Sarò una mica celeste in eterno germe.
Sarò anch’io il fratello di qualche verme.
Si sazierà di me un bel pesce di fiume
ed il chiaro di luna gli farà lume.
Sarò aria, sarò terra, sarò l’erba pagana, per qualche mucca da latte,
sarò una genziana.
Ma quella mucca cornuta con tanto di pelo folto,
non saprà mai di brucare l’erba del mio volto.

La seconda L’amore con la morte:

L’amore con la morte

Considerandomi ormai morto,
la Morte, la più tenace tra le mie amiche,
mi ha invitato nel mio orto
per fare l’amore sul letto di ortiche…

Luigi Lafranceschina

In morte di Dragan Mraovich

Testo tratto da BREVIARIO CORATINO 42, Liturgie del libero pensiero

Dedico questa pagina del “Breviario coratino” alla nobile persona e al grande intellettuale serbo Dragan Mraovic, scomparso improvvisamente due giorni fa. La sua notevole avventura umana e culturale si è intrecciata con l’Italia, la Puglia e, in qualche occasione, anche con Corato. Personalmente lo conobbi per il tramite del gruppo dei Poeti de “La Vallisa” di Bari e della associazione “Donne e Poesia”, diretta da Anna Santoliquido, quando egli era Console Generale della Serbia nel capoluogo pugliese e nel triste frangente della crisi jugoslava e della guerra nei Balcani.

Lo conobbi come poeta e come importante mediatore culturale tra l’Italia e la Serbia. Presso l’associazione Cicres di Corato, oltre vent’anni fa, quando gli incontri culturali e letterari in città erano davvero pochi, furono ospitati molti poeti e scrittori che aprirono la nostra città a nuove visioni, prospettive e scambi. Tra questi anche Dragan Mraovic che, in verità, continuò a venire a Corato anche negli anni successivi per i legami editoriali ch’egli aveva stabilito con la Secop.

Appena dopo la fine della guerra della NATO contro la Serbia, Mraovic venne, come Console Generale della Serbia, a Corato per un incontro col sindaco Ruggiero Fiore nel Palazzo di Città e per un grande evento organizzato presso la Biblioteca comunale, allora ubicata presso la ex Pretura in Piazza Sedile, presente l’Assessore alla cultura, Giacomo Anelli. La mia modesta amicizia con Dragan da allora non si è mai interrotta ed ho avuto l’onore di essere suo ospite in un viaggio culturale in Serbia da lui organizzato. Con Dragan ci siamo sempre confrontati su Facebook su vari temi e di recente soprattutto su quelli della attualità politica e sul conflitto in atto in Ucraina. Dragan rappresentava per me un modello di intellettuale rigoroso e coerente con i propri valori. Egli era soprattutto legato alla grande tradizione culturale occidentale e mediterranea che rifiutava la deriva illuminista e globalista. Egli, viceversa, auspicava la continuità culturale e spirituale tra le grandi civiltà greca, romana e rinascimentale unita in uno sforzo di salvaguardia delle identità nazionali e nella ricerca di possibili “ponti di congiunzione” tra l’Europa mediterranea e occidentale e quella balcanica e orientale.

A questo suo grande sogno, in cui un posto privilegiato aveva l’Italia e la stessa Puglia, si è ispirata la sua vita di traduttore, poeta, storico e diplomatico. La guerra in corso in Ucraina lo aveva molto turbato e non c’era giorno che non intervenisse con le sue note e i suoi ragionamenti sempre molto critici verso il fronte occidentale egemonizzato dalla NATO, vera istigatrice del conflitto. Sono molto scosso dalla improvvisa scomparsa dell’amico Dragan. Per rendergli omaggio pubblico di seguito una mia recensione al suo testo di poesia “L’Arazzo”, che contiene in sintesi la sua visione della vita e il suo testamento poetico e intellettuale.

Grazie Dragan. Che la terra ti sia lieve.
Corato, 21 marzo 2022

L’Arazzo

L’incredibile ricchezza della “poesia-ponte” di Dragan Mraovich

Che cosa poteva regalarci Dragan Mraovic il poeta Console Generale della Jugoslavia a Bari? Quale dono poteva fare all’Italia, dopo aver tradotto in lingua serba La Divina Commedia di Dante, il meglio di Boccaccio, Leopardi, d’Annunzio e di tanti altri poeti italiani? Che cosa poteva lasciare alla Puglia, da dove sono partiti i cacciabombardieri che hanno colpito Belgrado, Novi Sad, Nis e decine di altre città serbe? Che cosa poteva di nuovo offrire a quegli amici poeti de “La Vallisa” di Bari che del suo cuore sapevano e della sua poesia già conoscevano la vena? Che cosa poteva lasciare alle molte città della Puglia, compresa Corato, che hanno conosciuto la sua costante opera di mediazione diplomatica e di organizzazione culturale? Che cosa poteva fare un intellettuale come lui per tirare fuori dalle tremende strettoie della storia la sua Jugoslavia usando “solo”, si fa per dire, la dignità della parola? Che cosa poteva lasciare ancora Dragan Mraovic se non “ancora” una raccolta di poesie? Ed è proprio quello che egli ci offre prima del suo ritorno in Jugoslavia, in quella Belgrado che ha difeso stando sui ponti sotto i bombardamenti degli aerei della NATO, che proprio dalla sua “cara Italia” partivano.

È una raccolta preziosa ed ha come titolo L’Arazzo la nuova raccolta di versi che Dragan Mraovic ci offre. Lo è perché, attraverso l’animo del poeta, si svela la “enigmatica ricchezza” della cultura serba, stretta, o costretta, fra tradizione e modernità, tra difesa identitaria e necessità di nuove aperture. Enigmatica, ma non troppo, è la ricchezza de L’Arazzo. Essa è poesia di cose semplici e di sentimenti eterni, di amor sacro e amor profano, di vitalismo sfrenato e di ricerca metafisica, di travaglio esistenziale e di istanza d’assoluto. Essa è poesia di bilanci consuntivi e di progetti futuri. Immaginiamo che, per Dragan Mraovic, questa sia una raccolta molto importante. L’Arazzo, come detto, è il titolo della poesia che dà il nome al libro. La copertina emblematicamente riproduce l’immagine, sbiadita ma fedele, di un vero arazzo realizzato alla fine dell’Ottocento nel villaggio di Draca da Rosa Djodijevic, una contadina serba. Esso diventa, nei versi di Dragan Mraovic, segno dell’uomo e simbolo stesso della ricerca poetica, oltre che chiara manifestazione di radicamento alla propria terra e di difesa identitaria.

L’Arazzo per Mraovic, che pure ha una visione eraclitea del mondo, è simbolo sacrale del tempo passato e della storia della sua gente. Come nell’arazzo di Rosa Djodijevic, il poeta nei versi della silloge “disegna e colora” le persone, le cose e i luoghi della sua vita. Sullo sfondo c’è, però, il sentimento del divenire, irrefrenabile e fatale, ed anche quello della storia, luogo nel quale l’uomo lotta per affermare se stesso e la sua gente. Il riferimento evidentemente è agli inquietanti avvenimenti dei Balcani negli ultimi dieci anni, dove si sono combattute guerre di resa dei conti tra nazionalismi, imperialismi e spinte globalizzanti.

Mraovic, nonostante tale ingombrante “scorza” della storia, è veramente notevole nella sua “capacità” di rappresentare la divina bellezza dell’istante che pulsa vitale nell’uomo e nelle cose. Egli non accetta affatto la passività, la sconfitta senza combattimento. È la legge della natura. È la legge della storia. È la legge che il poeta la riflette nei suoi versi. Dragan Mraovic non si tira fuori dalla storia perché non si tira fuori dalla vita. Egli, attingendo dalla propria esperienza, mostra di essere, come Foscolo, uno “spirto guerriero” che non vuole cedere se non all’eterno fluire delle cose.

L’Arazzo, brevemente ma intensamente introdotto da una pagina dei poeti “La Vallisa”, contiene una sessantina di poesie raccolte in cinque sezioni: La pioggia della Serbia, Terra italica e qualche verso sparso, Gli arpioni del cuore, Ma bohémien, La mia nullità. In ognuna è “trattato” un tema, secondo un intreccio tanto plastico quanto travolgente e coinvolgente. C’è il piano della storia che si intreccia con quello della “geografia”, c’è il livello memoriale che interseca quello della critica sociale fino alla invettiva politica, c’è il piano sentimentale che oscilla tra affettività ed erotismo, c’è infine un piano filosofico che si afferma come vitalismo materialistico e, allo stesso tempo, pone sullo sfondo lo spirito, l’Assoluto, se non proprio Dio.

Di particolare suggestione risulta la prima parte de L’Arazzo, quella dedicata alla Serbia, che, però, contiene tutto intero il sentimento balcanico della vita. Un sentimento che oscilla tra la consapevolezza dello scorrere del tempo e il radicarsi alla propria terra, alle proprie tradizioni, alla propria storia. In ciò, Dragan Mraovic, senza fare sfoggio apologetico della propria etnia, mostra con genuina metafora poetica il senso universale della vita. Il “pantha rei” di Mraovic è metaforicamente espresso dalle acque dei fiumi balcanici, il Timaco Bianco, il Timaco Nero, il Timaco Grande e il Danubio. Egli, come Ungaretti nella famosa lirica I fiumi, lega il proprio e, analogicamente, l’altrui destino, al perpetuo scorrere delle acque dei fiumi. Egli lo fa mostrando una reciproca “compenetrazione ontologica”. Ogni fiume è una tappa e una faccia della vita del poeta. Tutti insieme i fiumi jugoslavi per traslato ci “parlano” del mistero del divenire e della sua profondità. Così, Dragan Mraovic lega, anche suo malgrado, come era accaduto al miglior Ivo Andric e ad altri poeti e scrittori balcanici, la sua vicenda umana a quella della sua terra. Ecco, emblematicamente, i quattro versi conclusivi della poesia Il Timaco Bianco: «Pesco con la canna in mano, lunga e vibrante. Non sento più abboccare la trota battagliera. Sulla sabbia bruciante del Timaco ondeggiante bramo di accarezzare le anche di quella chimera».

I quattro versi che chiudono Il Timaco Nero: «Nero come un calabrone, come un tizzone, Il Timaco Nero serpeggiava tra i primi amori, tra le prime bugie. Mentre noi bevevamo a morire vino ciarliero dimenticando sulla spiaggia le orme tue e quelle mie». E la strofa di chiusura de Il Timaco Grande: «Talvolta torno sulle acque dei tre Timachi con la mia fionda. Lancio qualche ciottolo, sputo in acqua e scrivo qualche verso. Che cosa abbiamo voluto io, te e quest’acqua profonda? Non sarà mai capace di esprimerlo questo trittico controverso».

A leggere questi versi sembra distante l’idea che per i Balcani sia passata la furia distruttiva della storia più recente. Eppure, a saperli ben ascoltare e a volerli interpretare, essi tradiscono una nostalgia e, forse, un dolore che la tragedia della guerra ha solo ingigantito. Si tratta della nostalgia per un mondo dai rapporti umani più autentici, in cui il contatto con la natura era più frequente e ravvicinato, in cui la lotta per la vita si giocava in modo più franco, in cui la corsa dell’uomo era più a misura delle proprie gambe, e così via. Non si tratta, ciononostante, di poesia anti-modernista. Ciò perché, in fondo, Mraovic non è affatto un moderno luddista, un disfattista a tutti i costi. Anzi. Egli accetta la scienza, la tecnica e il “progresso”. Ciò che però egli rifiuta è il fatto che tutto ciò “obliteri” l’uomo, e più precisamente l’io, inteso tanto individualmente che collettivamente. In ciò Mraovic, non diversamente da tanti altri poeti serbi, è un romantico impenitente. Un romantico che associa al sentimento l’ironia e, talvolta, il sarcasmo. Un romantico niente affatto di maniera, ma misurato e consapevole. Un romantico lucido, anche quando si lascia prendere da una punta orgoglio per sé e di esaltazione per la propria terra.

Nella seconda sezione, Terra italica e qualche verso sparso, il poeta rivela la sua particolare affinità elettiva con la cultura, l’arte e la poesia italiana. Dante Alighieri e Giordano Bruno ancora “parlano” al cuore del poeta e alla coscienza dell’uomo moderno. Il primo perché “dice” al poeta del suo essere defettibile, immerso in un presente in cui ancora c’è lotta per il potere; in cui c’è ancora il peccato come “tradimento dell’uomo”, più che di Dio; in cui l’uomo è immerso in una condizione naturale “irredimibile”. È così che Mraovic dichiara il suo ateismo. La sua non è però una “mis-credenza” di facciata, una mancanza di fede da esibire. Anzi, egli sembra travagliato da ciò, un po’ come lo è stato Indro Montanelli il gran toscanaccio del Novecento che in qualche modo “rimproverava” il Padreterno per non avergli donato la fede. Dal travaglio nasce per Mraovic, come per il grande giornalista, l’idea di un uomo che deve essere totalmente consapevole e pienamente responsabile delle sue scelte sulla natura e sul mondo. Anche quando queste siano impopolari o espongano a sfide insostenibili, come quella che Mraovic manifesta verso gli USA in quanto nazione portatrice non di libertà e liberalità, ma di nuovo sfruttamento e, soprattutto, di mascherata oppressione. Ecco gli emblematici versi di apertura e di chiusura della poesia America:

La notte è l’ora giusta quando l’amore abbonda,
quando tu ti apri come una rosa.
Però, cara, la notte è anche una terribile anaconda
se tra te e me l’America serpeggia minacciosa.

America, l’anima slava sa perdonare,
America, le tue malvagità dimenticherò,
ma se le sue ginocchia ti azzardi solo a toccare,
tutte le costole, tutte le ossa ti romperò.

In questa stessa sezione trova visibilità l’altra affinità elettiva di Mraovic, quella con Giordano Bruno, di cui se da una parte condivide il libero pensiero, l’idea di una natura infinita e tutta animata, dall’altra manifesta l’assoluta sfiducia nel fatto che tutti gli uomini siano capaci di intelligenza e imparzialità di giudizio. La “santa asinità” di cui parlava Bruno ancora esiste. Se oggi non ci sono più i volgari roghi, ci sono pur sempre le sedie elettriche e altri “dolci strumenti di morte” per colpire chi al dogma non voglia piegarsi.

Una chicca dei “versi sparsi” di questa sezione è Piazza Moro a Bari. Conviene riportarla per intero. È una poesia tanto breve quanto intensa che solo chi ha vissuto per lungo tempo a pochi metri da questa piazza barese, insieme fantastica e assurda, poteva scrivere:

Una fontana al sole
come una scaglia d’oro.
La vita brilla sotto le palme
di piazza Moro.

La sezione Gli arpioni del cuore mette in mostra una vena poetica dalle forme più descrittive che connotative, ma sempre di grande efficacia lirica, di grande passione sentimentale. Un sentimento d’amore, quello di Dragan Mraovic, fatto di spiritualità fondata però sulla carnalità, ovvero originata da un trascinamento erotico-affettivo in cui si mischiano presente e passato, giovinezza e maturità secondo una integrità della vita che va pienamente vissuta dall’inizio alla fine.

La donna di Mraovic è divina tentatrice e, insieme, come nella grande tradizione duecentesca e trecentesca, “angelo venuto in terra a miracolo mostrare”. È, come si vede, un po’ Francesca da Rimini, un po’ Beatrice. Ed è curioso come il poeta usi di frequente il dolcissimo appellativo “cara” per indicare la sua donna, la carissima Mira. E come egli entri in una dimensione onirica nella descrizione-narrazione del suo rapporto con essa. Bastino, ad esempio, questi quattro versi conclusivi della poesia La roccia di Sicevo:

Lei è una dea dalla bocca d’oro
in cima alle rupi della gola
mentre io sono solo un triste decoro
nell’ombra dell’aquila che ci sorvola.

Il discorso poetico di Mraovic prosegue nelle sezioni Ma bohémien e La mia nullità. Nella prima il poeta rivela da una parte un candido sentimento di trasgressività e un cedimento gitano, quasi picaresco, dall’altra indulge verso una lirica “popolare”, nel senso più romantico del termine. Sembra di rivivere certe forme espressive del romanticismo ottocentesco, quando il poeta dava voce allo spirito del proprio popolo e alla propria terra, ma allo stesso tempo non disdegnava di far mostra della propria irriducibile, quasi anarchica, libertà. Riportiamo solo due esempi. Il primo tratto da Pensieri notturni:

Di notte ho vissuto le più grandi avventure.
Essa fu l’inizio e la fine di tutte le cose.
Di notte mi abbracciavano le vie di Belgrado, oscure,
e di notte mi hanno sempre lasciato le morose.

Il secondo tratto da Belgrado dorme:

Mezzanotte.
Il Danubio splende eternamente.
Mi consumo.
Il Kalemgdan spoglia il Sava ridente

È l’ora dei barboni.

(…)

Mentre il cielo cade
tutta la notte costruisco castelli in aria.
La mezzanotte è passata.
Sogni d’oro, città mia
mi inchino davanti a te, mia adorata.

Leggendo questa sezione non c’è solo l’affermazione alla propria nazionalità serba. Viceversa vi si scorge una grande, profonda apertura verso le altre culture balcaniche, a cominciare da quella verso la minoranza rom. Basta ciò, e si capisce quale tragico equivoco, al di là delle inevitabili appartenenze, sia stata la tragedia balcanica dell’ultimo decennio.

Infine, in questa parte del libro più che in altre, è possibile cogliere il profondo senso di umanità che pervade l’animo di Dragan Mraovic. Una umanità che si fa istanza di vita, e in fondo di pace, sembra sprigionarsi dalla sua poesia. Si tratta di un senso di umanità che va oltre la “contestualizzazione storica”, esprimendosi in alcuni casi in modo “selvaggio”, “barbaro”, “terrigno”, “orgiastico”. Insomma una sorta di panismo, un “senso della terra” che ci riporta al pensiero di Nietzsche, un sentimento molto sentito tra le grandi distese di verde e le montagne dei Balcani, dove la forza della natura, compreso il divino che è in essa, è ancora molto sentita.

Nella sezione La mia nullità sembra emergere un altro volto del poeta, quello legato all’angoscioso senso della morte che fa esattamente da contraltare alla vitalità di cui si è appena detto. In essa traspaiono tracce della stagione dell’esistenzialismo sartriano che certo costituì un versante significativo della formazione intellettuale di Mraovic. Le poesie di questa sezione non a caso sono poste alla fine del libro. In fondo l’uomo, ci ricorda Mraovic, non è che un “essere-per-la-morte”.

La morte è la grande imperscrutabile Signora. Con essa ciascuno di noi deve misurarsi prima o poi. La vita non è disgiunta dall’eterno oblio. L’essere non è che, esso stesso, espressione del nulla. Tutto ciò sembra riecheggiare ad ogni pagina di questa sezione e riportarci alla mente il monito della morte che si sconta vivendo. Ma in un modo tutto particolare per Mraovic, ovvero con una punta di derisione e di sarcasmo. Come nei seguenti versi conclusivi della poesia Il poeta:

Il serpente vibra invano con la lingua biforcuta;
il Poeta ha già celebrato col canto la sua morte.

D. MRAOVIC, L’Arazzo, La Vallisa, Bari

Insomma, ci troviamo di fronte ad un libro di versi intorno a cui è possibile seguire una trama immaginaria. È la trama del percorso di vita di Dragan Mraovic, uomo-poeta cui è capitata la sorte di essere attore e testimone di vicende significative della Jugoslavia e della cultura balcanica. Così il poeta stesso è superato. Infatti, Mraovic poeta “si oltrepassa” nella sua stessa parola. Mraovic ha reso tutto ciò in modo “fortemente dialogico” rendendo i versi fortemente “sim-patici” e partecipativi. Come ha evidenziato in una nota critica Anna Santoliquido, la poesia di Dragan Mraovic si esprime come «dialogo diretto col Danubio, la sua terra, la donna, la propria coscienza, il suo destino e la sua morte».

Noi in Italia, e in Puglia particolarmente, non possiamo non cogliere questa occasione offerta da L’Arazzo di Dragan Mraovic, per parlare ammirati della sua poesia e, allo stesso tempo, rilanciare attraverso, la sua “poesia-ponte”, un nuovo messaggio di fiducia affinché le due sponde dell’Adriatico diventino sempre più “strette”. E, infine, se proprio vogliamo capire la vicenda storica e una parte della stessa letteratura europea dell’ultimo decennio del Ventesimo secolo non dimentichiamo che faremmo cosa saggia a rivolgere lo sguardo al conflitto balcanico, il quale, dopo la Seconda guerra mondiale, è sicuramente il fatto più traumatico della storia contemporanea. E chi meglio della viva voce di un poeta serbo come Dragan Mraovic, per di più con l’incarico di Console Generale della Jugoslavia in Italia, poteva aiutarci in questo sforzo di comprensione e di pace?

Gaetano Bucci

Corato, Dicembre 2021

https://www.facebook.com/gaetano.bucci.3/posts/952476382088007

L’interlocutore

Non ho mai conosciuto personalmente Dragan sebbene fin dai miei primi anni ne LA VALLISA ebbi modo di leggere e apprezzare i suoi versi. Poi, a un certo punto, mi sono ritrovato a interagire con lui su facebook, prima con leggeri scambi di opinioni, poi coinvolti in una vera e propria litigata su alcuni principi fondamentali sui diritti civili.

Ci siamo scontrati… a tratti pestandoci con le parole, altre volte con atteggiamenti più propensi e aperti verso l’altro. Ne venne fuori un bel dialogo, vivace, partecipato, appassionato e a tratti pure insopportabile, che provai a ricostruire con andamento diaristico per pubblicarne un testo.

Non mi interessavano e non mi interessano i nomi e le persone coinvolte in quel dialogo, ma i princìpi di cui ciascuno si faceva portatore e questo mi ha spinto a pubblicare quel testo, oggi in fase di editing presso la casa editirice.

Non mi sarei mai aspettato di dover piangere la scomparsa del mio interlocutore principale. Eravamo rimasti d’accordo che prima o poi ci saremo seduti a un tavolo a condividere una birra gigante e a confrontarci faccia a faccia su quegli stessi temi. Ci piaceva anche un po’ prenderci in giro sul latino e le “classicità”. Nonostante i “fuochi incrociati” riuscimmo perfino ad abbracciarci virtualmente in occasione degli auguri per i festeggiamenti del Natale serbo e fu forse il momento in cui fummo più vicini.

Purtroppo quei boccali di birra grandi resteranno vuoti.
Sit tibi terra levis, Dragan.

Vito Davoli