Facciamo un salto indietro nel tempo: siamo nel 1366, precisamente tra il 24 e il 26 aprile, e Francesco Petrarca e suo fratello Gherardo si stanno accingendo a scalare l’erta cima del Monte Ventoso (o sarebbe meglio dire Mont Ventoux), a pochi passi da Avignone.

Al tramonto, giunto ormai a una considerevole altezza, Francesco si volta a guardare alle sue spalle, verso occidente, e si ritrova a contemplare uno spettacolo mozzafiato: i monti attorno a Lione, lo scintillante mare al largo di Marsiglia e infine il Rodano che, potente, si apre una strada alle pendici del monte.

La natura che si staglia in tutta la sua bellezza di fronte agli occhi dello scalatore procura a Francesco un crescente senso di meraviglia e il suo animo ne è pervaso al punto che, quasi in uno stato di trance, egli compie un gesto automatico, un rituale quotidiano: ed ecco, il poeta apre il libricino delle Confessioni che era aduso portare con sé ovunque andasse e lo sguardo gli cade (per nulla casualmente, tutto fa parte di un disegno divino ben congegnato agli occhi del Nostro) su un passo che descrive l’atavica esigenza degli esseri umani di andare alla ricerca della bellezza nel mondo che li circonda.

«Stupii, lo confesso»1. È lecito chiedersi cosa abbia provocato in Francesco tanto stupore, se la visione del paesaggio circostante, oppure l’essersi imbattuto nel passo che ritraeva esattamente il suo stato d’animo; tuttavia, dallo sdegno con cui immediatamente dopo Francesco chiude il libro a cui era devoto, si potrebbe pensare che il precedente stupore derivi al poeta proprio dal fatto di essersi stupito.

Per essere più chiari, Francesco Petrarca in un punto preciso dell’ascesa al Monte Ventoso diventa veicolo e dimora di quella che Benedetto Croce avrebbe definito “intuizione pura”, una voce poetica disinteressata, capace di cogliere il significato ultimo delle cose senza inseguire un utile e senza la pretesa di rendersi utile.

1 F. PETRARCA, Le Familiari, vol. I, trad. di U. Dotti, Argalia, Urbino 1974.

Ma Francesco è anche l’uomo del dissidio interiore, del duplice desiderio per il mondo e per Dio che rivela nel poeta un animo dimidiato, offuscato dall’insana bramosia di conciliare due aspirazioni vitali diametralmente opposte (o così lui crede); perciò provare tanta meraviglia e sperimentare il senso di appagamento che ne deriva allo spirito, sapendo che il tutto scaturisce dalle cose del mondo e non da quelle di Dio, è per Francesco motivo di angoscia e di delusione.

Bisognerà attendere quasi sei secoli di letteratura perché il dissidio petrarchesco si concili nel personaggio di Ismaele, voce narrante del Moby Dick di Herman Melville, il quale raggiunge un sapiente compromesso nell’intuire che il divino si manifesta nelle cose del mondo, dalle più piccole e apparentemente insignificanti alle più potenti e misteriose e che, in quanto tali, sono origine di un senso di meraviglia di cui, se lo si sperimenta, non ci si deve vergognare.

Se Petrarca avesse saputo come vivere in superficie, forse non si sarebbe stupito tanto di stupirsi di fronte alla bellezza terrena né avrebbe chiuso il libro galeotto nel tentativo vano di mettere a tacere le magnanimità divine.

Di queste bizzarre entità ho già scritto in precedenza, in relazione all’ispirato saggio di Hubert Dreyfus e Sean Dorrance Kelly, dal titolo Ogni cosa risplende: i due filosofi americani hanno formulato un excursus delle fasi in cui si articola la storia letteraria della civiltà occidentale, individuando una serie di autori e relative opere nei quali fosse possibile riscontrare il paradigma della vita in superficie, unico possibile rimedio prospettato dai due autori alla condizione dell’uomo contemporaneo denunciata come ascrivibile al nichilismo e dunque alla presa di coscienza dell’insensatezza dell’essere.

Se con vita in superficie si intende la capacità propria di Ismaele di accettare l’ineffabilità della natura divina, così come l’impossibilità di spiegare il mistero che si cela dietro la Balena Bianca in quanto non appannaggio dell’essere umano, e vivere di conseguenza attendendo la spontanea e momentanea manifestazione delle magnanimità divine, fatte di suoni più che di parole, di sensazioni e di intuizioni più che di forme, allora la disamina di Dreyfus e Kelly potrebbe rivelarsi mancante, ancora una volta, di un tassello fondamentale del puzzle, perché abbiamo tutte le ragioni di credere che dentro Ismaele agisca la voce del fanciullino, eppure Giovanni Pascoli non è citato nemmeno una volta nel saggio preso in esame.

Secondo gli autori, l’uomo moderno, per salvare se stesso dalla condizione nichilista in cui versa da secoli, dovrebbe recuperare il senso del sacro che gli consenta di scorgere la presenza della divinità dentro e fuori di lui, e dunque meravigliarsi di questa rivelazione per poi chiamarla per nome.

Esattamente come fa il fanciullino, novello Adamo, che si meraviglia del creato come lo vedesse per la prima volta e conferisce a tutto un nome inedito, avvalendosi di un linguaggio nuovo e puro.

Il fanciullino, in effetti, tiene fissa la capacità di meravigliarsi come suo tratto distintivo e dal Pascoli è detto “invisibile fanciullo”, così come invisibili (almeno per la maggior parte del tempo) sono le magnanimità divine: tanto il fanciullino quanto le magnanimità si presentano avvolti da un’aura di mistero, quasi impossibili da spiegare a parole, piuttosto tendono a manifestarsi attraverso una fitta trama di sensazioni.

Nello specifico, del fanciullino avvertiamo la voce, la sonora risata, delle magnanimità divine il senso di stupore che attraversa chi, come Ismaele, le coglie in superficie. Non solo: Dreyfus e Kelly asseriscono a più riprese che ognuno reca dentro di sé l’impronta divina e che questa definisce la vera natura degli esseri viventi, descrivendo così una forza democratica che agisce veramente in tutti e, se per alcuni risulta invisibile, è solo perché l’uomo contemporaneo si è reso cieco e sordo alla presenza delle magnanimità divine.

Tuttavia lo spirito democratico è uno dei primi tratti comuni tanto al fanciullino quanto a Ismaele, tant’è che il Pascoli smentisce con viva forza la falsa credenza secondo cui il fanciullino dimori solo in alcune anime elette, rifiutandosi di «credere a tanta infelicità»2: il fanciullino, al contrario, è una forza democratica che appartiene strutturalmente e per natura a ogni essere umano, anche solo in virtù della certezza che tutti siamo stati bambini, e il fatto che tale invisibile entità agisca attraverso Ismaele è un’ulteriore conferma della sua universalità, in quanto Ismaele non è certo l’eroe ideale, anzi è descritto a più riprese come un personaggio mutevole e lunatico, un giovane privo di chissà quale erudizione, desideroso di mettersi per mare non per la sete di avventura o per disprezzo della vita, ma spinto dal bisogno di placare la malinconia che lo logora. Ismaele è inoltre presentato come un vagabondo nell’economia del romanzo, un fuori casta, il che non contribuisce a tracciare il profilo di colui che sembra destinato a svelare il mistero universale che si cela dietro la Balena Bianca, a meno che non si guardi a lui dal punto di vista democratico del fanciullino; egli non è un poeta, né un intellettuale, non ha nemmeno un ruolo centrale o particolarmente attivo all’interno dell’equipaggio, eppure è l’unico personaggio del romanzo a lasciarsi appagare dalla momentaneità del divino.

2 PASCOLI, G., Il fanciullino, a cura di G. Agamben, Feltrinelli, Milano 2019, p. 31.

In Ismaele, in effetti, si concretizza il concetto pascoliano di “poesia senza aggettivi”, quel linguaggio puro e privo di forzature che «consiste nella visione d’un particolare inavvertito, fuori e dentro di noi»3: e tale particolare resta inavvertito almeno fino a quando un animo particolarmente sensibile in sintonia con il proprio fanciullino interiore non lasci emergere questa forza invisibile, permettendo a se stesso di guardare il mondo con occhi nuovi e meravigliati per coglierne le magnanimità nascoste tra le myricae.

Secondo la poetica della mediocrità, «le cose grandi, le cose ricche, le cose sublimi non riescono poetiche, se non sono sentite e dette in persona di chi si stupisce davanti a loro […]»4: un concetto molto simile può applicarsi al mistero della Balena Bianca che ossessiona il capitano Achab, per quanto non si tratti certamente di una piccola cosa; eppure, esattamente come accade per il senso del sacro che il fanciullino percepisce nel mondo, anche la natura di Moby Dick non può essere cantata se non da chi si stupisce di fronte al suo mistero e lo accetta per quello che è, senza pretendere di spiegarlo a parole.

3 Ivi, p. 59.
4 Ivi, p. 46

Di fronte a rivelazioni del sacro di questa portata, il fanciullino si mostra capace di provare emozioni totalizzanti, che lo fanno spaziare dalla sfera del riso a quella del pianto, senza sapere perché e senza interrogarsi sull’origine di quelle emozioni eterogenee, esattamente come fa Ismaele che si sofferma spesso ad ascoltare e ammirare gli altri uomini dell’equipaggio raccontare fiabe e leggende, a volte tinte di macabro.

Dunque, se una forza simile al fanciullino dimora nell’animo di Ismaele, questa gli consente di avere uno sguardo limpido sul reale, permettendogli di stupirsi tanto della bellezza quanto dell’orrore del mondo: «Non ignorante di ciò che è bene, sono lesto nel percepire un orrore, ma non per questo, se ci riesco, gli volto le spalle»5.
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5 MELVILLE, H., Moby Dick, Bur Rizzoli, Milano 2010, cap. I, p. 29

Parlando di sé e della sua incapacità di rifiutare il mondo, Ismaele probabilmente delinea la più profonda e radicale differenza tra la sua personalità e quella del fanciullino: quest’ultimo prelude quasi esclusivamente a stati d’animo gioiosi e vitali, mentre la gamma sensoriale di cui Ismaele fa esperienza sembra anche più eterogenea e profonda, in quanto i suoi stati d’animo possono giungere a toccare abissi oscuri di tristezza e di orrore e anche in quel caso Ismaele si dimostra ben disposto all’intuizione delle fugaci magnanimità divine, di cui il fanciullino ci fa meravigliare nelle belle giornate di sole e Ismaele anche al freddo e al buio.

Se poi identifichiamo la stessa poesia pura con una magnanimità divina e non solo come veicolo rivelatore della stessa, allora il fanciullino e Ismaele sono ancora una volta simili: «Or dunque intenso il sentimento poetico è di chi trova la poesia in ciò che lo circonda, e in ciò che altri soglia spregiare, non di chi non la trova lì e deve fare sforzi per cercarla altrove»6.

6 PASCOLI, Il fanciullino, cit., pp. 41-42.

Le magnanimità divine, infatti, si rivelano all’improvviso agli occhi di chi è disposto a guardare, senza sforzarsi di trovarle, ma semplicemente accogliendole; inoltre, la bellezza che il fanciullino percepisce nella fitta trama di rispondenze misteriose che fanno da venature all’universo è ingenua e allo stesso tempo autentica in un modo spietato: il modo alogico in cui il poeta fanciullo coglie le corrispondenze universali è in tutto simile all’inabissarsi di Moby Dick, che fa sprofondare Ismaele in quello che Pascoli chiama “abisso della verità”, una verità che ci viene messa davanti agli occhi ormai liberi dai filtri e dagli schemi irrigiditi della civiltà occidentale.

Si deduce, quindi, che il fanciullino e Ismaele approdano entrambi a una conoscenza prerazionale e immaginosa del reale e alla conseguente scoperta delle segrete corrispondenze fra le cose dell’universo.

Ismaele, tuttavia, si rivela fin da subito un personaggio contraddittorio, perciò egli si mostra quasi del tutto disinteressato a scovare le magnanimità divine o a spiegarne il significato; al contrario gli basta sapere che esistono e che prima o poi si manifesteranno e forse è proprio questa sua cieca fiducia nelle corrispondenze dell’universo che gli permette di riscontrarle, a differenza di quello che accade al suo alter ego, il capitano Achab, che invece è affetto da una monomania talmente ingombrante da condurlo alla morte, ossessionato com’è dal desiderio di ricongiungersi alla verità ultima che per lui si cela dietro il muro (così lo chiama) della Balena Bianca senza volto: «Ma nel grande capodoglio […] non vedete nessun punto preciso, non vi rivela nessun tratto distinto, né naso né occhi né orecchie né bocca; non la faccia (non ne ha nessuna, il capodoglio, che sia tale), nulla, tranne quel vasto firmamento della fronte, pieghettato di enigmi»7.

7 MELVILLE, Moby Dick, cit., cap. LXXIX, p. 428.

Sin dagli Estratti che inaugurano il romanzo, comprendiamo che la Balena Bianca sottende molteplici significati, il più delle volte inerenti alla sfera del sacro, e se realmente tali significati hanno lo scopo di comporre, alla fine dell’insostenibile queste di Achab, l’immagine di Dio, Dreyfus e Kelly sostengono si tratti di un Dio politeistico, distante anni luce da quello biblico.

E la differenza più sostanziale consiste proprio nell’assenza del volto di Moby Dick, mentre nell’impianto cristologico il volto di Dio si incarna e si rivela in quello del Figlio prediletto, Gesù.

Nemmeno Pascoli, in effetti, descrive fisicamente il fanciullino, proprio in virtù della sua natura invisibile e in parte ineffabile, per quanto sia interessante il punto di vista di Valeria Paolini che descrive il fanciullino come “markedly gendered”, identificandolo quindi con un genere in particolare, che è quello maschile8.

Facendo uno sforzo di immaginazione, si potrebbe pensare che il volto del fanciullino, ne avesse uno, somigli a noi stessi, o almeno a noi come siamo stati da bambini, considerando che tale misteriosa entità dalla gaia voce è da ritenersi parte integrante del nostro io, bagaglio o in certi casi solo residuo di ciò che siamo stati durante l’infanzia; eppure, niente di tutto questo viene esplicitato all’interno del saggio pascoliano, perciò dobbiamo attenerci all’invisibilità del fanciullino, tratto che lo avvicina pericolosamente a Moby Dick.

Il fanciullo e la balena sono simili perché entrambi incarnano sia il mistero che il veicolo per accedervi anche solo momentaneamente e la mancanza di un volto potrebbe spiegarsi alla luce dell’assenza di definizione delle forme, che rende molto più arduo comprendere l’entità del mistero.

Allora forse il nodo della questione è sempre lo stesso: l’appagamento totale e concreto a cui l’essere umano aspira per natura non proviene dalla comprensione, ma dall’intuizione delle magnanimità divine, nel momento in cui accorgersi della loro esistenza ci basta e non sentiamo il bisogno di tradurle in immagini.

Per Dreyfus e Kelly «al centro del modo di interpretare la balena in Melville, c’è l’idea che non esiste un significato dell’universo nascosto dietro agli avvenimenti che hanno luogo in superficie: sono invece gli stessi avvenimenti – contraddittori, misteriosi e molteplici – a costituire il significato»9. Ismaele stesso ammette di non potersi spingere oltre la pelle della balena per cercare di comprenderla.

8 PAOLINI, V., Eternal Boyhood. Innocence, Decadence and Cross Gender Communication in Rudyard Kipling and Giovanni Pascoli, in «Academia.edu», 2020. 

9 DREYFUS, H., KELLY, S. D., Ogni cosa risplende. I classici e il senso dell’esistenza, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 2012, p. 153.

Ed ecco che la voce del fanciullino ancora una volta parla per Ismaele, il quale si fa bastare le myricae, decide di vivere in superficie e di assaporare solo i significati che emergono dagli abissi e che si manifestano agli occhi di chi conserva il potere di meravigliarsi e trovare nello stupore una consolazione autentica, per quanto passeggera.

Neanche il fanciullino, dal canto suo, si sforza di comprendere la poesia pura: egli ne adopera semplicemente il linguaggio in modo spontaneo e naturale. Ogni significato profondo viene fatto emergere e portato in superficie e questo permette a chi, come Ismaele, è disposto ad abbassare o quanto meno a mutare la sua personale idea di felicità di riscontrare significati genuini e insperati nei rituali quotidiani che scandiscono la nostra routine e che, assaporati, sono in grado di appagarci anche solo per un momento.

Riflettendoci, il fanciullino compie un movimento identico a quello delle magnanimità: egli si cela nelle profondità recondite del nostro io e in alcuni casi ci resta per sempre, relegato negli abissi della retorica e del perbenismo che tanto di frequente caratterizzano l’età adulta; in altri casi invece si manifesta, ma come?

Salendo in superficie, appunto, e nello specifico emergendo all’altezza degli occhi, dei quali si serve per cogliere le meraviglie proprie della ritualità quotidiana, e della bocca con la quale chiama per nome tutte le cose come le vedesse per la prima volta, e le cose che vediamo per la prima volta, se nessuno si è ancora preso la briga di dargliene uno, necessitano di un nome che le identifichi e le renda un po’ meno misteriose e perciò accessibili alla conoscenza dell’uomo.

In effetti, come sostiene Valeria Paolini, la grande capacità del fanciullino consiste nel «catturare l’essenza profonda del mondo, di vedere oltre le apparenze […], un bambino interiore che permette al poeta di vedere quello che gli altri non vedono, inclusa la bellezza del mondo naturale e di esprimerla in maniera vivida attraverso la poesia»10.

10 PAOLINI, Eternal Boyhood, cit. (traduzione mia).

La bellezza che Ismaele coglie nel creato, e in particolare nella potenza devastante del mare, risulta sempre intrisa di profonde contraddizioni, le stesse che determinano lo stato d’animo mutevole del giovane marinaio, capace nel giro di poco di passare dalla gioia al “novembre umido e piovigginoso” che grava sulla sua anima e per curare il quale Ismaele decide di mettersi per mare, alla stregua di un moderno Ulisse.

Ma la medesima mutevolezza la riscontriamo nella poetica pascoliana: il poeta delle myricae canta tanto l’incombere della morte in Novembre quanto la vitalità del fanciullino e, se si pensa poi al Gelsomino notturno, talvolta persino nello stesso componimento vanno a coesistere due dimensioni intimamente interconnesse, l’amore e la morte, che insieme tessono una trama intricata di significati difficili da far emergere.

Tuttavia, il motivo che origina tali apparenti contraddizioni non potrebbe essere più evidente e semplice: vivere in superficie significa adeguarsi al mutamento delle stesse magnanimità divine che solo in superficie si manifestano e che possono assumere forme sempre nuove, a volte orrende, a volte piacevoli e generatrici di pace, in ottemperanza al postulato principe sostenuto dai due filosofi americani che recita: «Tutt’intorno a noi c’è gioia, […]: l’unica cosa che dobbiamo fare è prestarvi attenzione. […] Se saprete riconoscere la gioia intorno a voi, anche solo occasionalmente, capirete che si tratta di un’emozione che già possedete nel qui e ora. Non per sempre e non sempre. Tuttavia, sarete in grado di apprezzarla quando si presenterà l’opportunità»11.

11 DREYFUS, KELLY, Ogni cosa risplende..., cit., p. 158.

Si tratta di un invito a vivere la vita presente, in parte equiparabile al carpe diem o al “chi vuol esser lieto sia” di medicea memoria, ma meno godurioso e più sensato, più improntato alla ricerca della felicità autentica che alla sperimentazione dei brevi piaceri. Un invito del genere potrebbe facilmente essere travisato, come fa Achab, il cui desiderio degenera in follia proprio a causa della ricerca spasmodica derivante dalla pretesa di mettere in fila tutti i significati sottesi dell’universo, che invece per Ismaele fa troppo rumore, a meno che non ci si allontani dalla fonte del caos: tutto sta nell’aderire ai singoli significati delle myricae, anche se sono parziali, anche se è impossibile connetterli tra loro a comporre trame ordinate e fisse.

Lo stesso Ismaele afferma chiaramente: «E così, attraverso le nebbie spesse dei foschi dubbi della mia mente, s’aprono a tratti intuizioni divine, che accendono tanta foschia con un raggio di luce»12.

12 MELVILLE, Moby Dick, cit., cap LXXXV, p. 399.

Un’altra questione da affrontare riguarda il complesso tema del linguaggio: l’ineffabilità sembra una costante della Balena Bianca, in quanto il mistero che le si cela dentro è per sua natura indicibile, oltre che invisibile, come è stato già ampiamente dimostrato.

Ismaele dunque non dispone di un registro linguistico specifico, a differenza del fanciullino, il quale solo rare volte fa silenzio e tiene il broncio, ma per la maggior parte del tempo adopera un linguaggio proprio e «a ciò lo spinge meglio stupore che ignoranza»13.

13 PASCOLI, Il fanciullino, cit., p. 32.

Ed è ormai chiaro che il linguaggio di cui si avvale il fanciullino è quello della poesia pura, quella capace di rinunciare ai ghirigori e alle ricche volute che ritraggono le piacevolezze della vita e che si limitano, tuttavia, ad adornare il linguaggio poetico, senza conferirgli ulteriore sostanza.

Solo rinunciando allo sfarzo e alla bella forma, il fanciullino riesce a fare della poesia un autentico canale di verità. La rinuncia compiuta da Ismaele è di altra natura: il marinaio non solo rinuncia alla pretesa di servirsi di un linguaggio univoco fondato su strutture incrollabili e universalmente valide, ma rinuncia anche a spiegarsi, a parole o a gesti, le cose del mondo, preferendo invece viverle appieno, evitando una volta e per sempre di rispondere alla fatidica domanda “che significa?”.

Per recuperare una distinzione proposta da De Sanctis, il sentimento poetico puro non ha nulla a che vedere con la fantasia, in quanto «poesia è trovare nelle cose il loro sorriso e la loro lacrima; fantasia è invece quella che, scontenta della realtà presente, cerca immagini nuove e strane, e combinandole insieme abilmente mira a suscitare la meraviglia e l’ammirazione»14.

14 MENDES, L., Il fanciullino del Pascoli e l’intuizione pura del Croce, Morrico, San Severo 1940, p. 14.

In quanto privilegiato osservatore delle magnanimità divine, Ismaele non ha bisogno di immaginare altro, perché chi vive in superficie trova la meraviglia da sé in ciò che lo circonda, lasciando agire nell’anima un sentimento poetico disinteressato, nella consapevolezza che le magnanimità divine non portano necessariamente una felicità duratura, ma veicolano sempre un senso di meraviglia appagante e pienezza di sentimenti.

Per tornare al discorso del linguaggio, non bisogna dimenticare che Ismaele è la voce narrante del Moby Dick e già a partire dal celeberrimo incipit (“Chiamatemi Ismaele”) due questioni si palesano alla nostra attenzione: “Ismaele” potrebbe essere uno pseudonimo e si tratterebbe di un ulteriore elemento in comune con il fanciullino, il quale in effetti manca di un nome univoco; in più, anche Ismaele si pone come novello Adamo, non certo perché dà un nome alle cose al di fuori di sé e che lo meravigliano, ma in quanto chiama per nome se stesso, o almeno la versione di lui capace di entrare in comunione con il mistero del mondo, la Balena Bianca, che governa sull’infinito come fosse Dio.

A differenza di Achab, che vede in Moby Dick agire una “malignità intelligente”15 che lo ha menomato, per poi volutamente lasciarlo in vita, affinché lo sventurato capitano potesse convivere con dolore e frustrazione per il resto dei suoi giorni, Ismaele nella balena non vede nulla di male, non vi scorge una forza diabolica, non la considera se non alla stregua di un mistero ineffabile, né maschio, né femmina, solo sfuggente e reale.

15 BHUVANESHWARI, D., SUTHANTHIRA DEVI, J., Symbolism in “Moby Dick” by Herman Melville, in «International Journal of Research  Engineering Technology», vol. 2, Issue 5, July-August 2017 (traduzione mia).

L’ultima considerazione riguarda la differenza che intercorre tra i concetti di bellezza e di sublime, entrambi legati alla sfera dei sentimenti e delle sensazioni, ma differenti nella sostanza: nello specifico, la bellezza riguarda ciò che può essere compreso dalla ragione, mentre il sublime è inerente a tutti quei significati sottesi che possono essere solo intuiti o sentiti sottopelle.

La bellezza è ciò di cui si stupisce il fanciullino e prende dimora nelle myricae; il sublime, al contrario, si espande lungo la vastità del mare, oltre la linea dell’orizzonte, nell’eccezionalità dell’universo e si fa carne in Moby Dick. Inoltre, la bellezza, piccola o grande che sia, è visibile, tant’è che il fanciullino, per dare un nome alle cose, deve prima vederle; il sublime, invece, è offuscato, avvolto in una coltre di oscurità e insensatezza e proprio in virtù di ciò Moby Dick non ha un volto e, se ne ha uno, non intende, mostrarlo.

Eppure, anche se percepiscono cose diverse, il fanciullino la bellezza e Ismaele il sublime, entrambi decidono di vivere in superficie e fanno così esperienza delle magnanimità divine.

Al termine di questa breve riflessione, sento di poter giungere alla conclusione che ogni ricerca esiste per essere approfondita, a volte smentita o confutata, altre volte solo arricchita. Non ho la pretesa di aver aggiunto un tassello all’indagine di Dreyfus e Kelly, tuttavia mi sembra doveroso, laddove mi imbatta in esempi inequivocabili di letteratura (anche solo di un frammento di testo) che racconti qualcosa a proposito della vita in superficie, gridarla al mondo, ma silenziosamente, attraverso un tratto di penna nera. Dopo tutto certe cose meritano di essere chiamate per nome.

Mariasole Di Cosmo