Ad un certo punto qualcuno bisognava che lo dicesse; e Vito Davoli lo dice.

   Lo dice che il discorso razzista e discriminatorio di chi vuole chiudere le frontiere alla sofferenza umana e lasciare morire chi fugge da sofferenze inimmaginabili non può agire nel discorso pubblico e privato in modo indisturbato.

   Lo dice che il ricatto retorico del buonismo è solo un ricatto disonesto; e ai ricatti bisogna sempre avere la forza di sottrarsi.

   Lo dice in una lunga conversazione sui social sviluppata prima della pandemia. Ma l’eco delle sue parole risuona ancora oggi mentre migliaia di migranti passano un feroce inverno al confine dell’Unione europea, tra la Polonia e la Bielorussia, riflettendo ad un mondo distratto l’immagine di donne, uomini e tanti, tantissimi bambini che muoiono di freddo e fame in faccia alla nostra indifferenza.

   Lo dice Vito ad un interlocutore sordo, assordato dalle stesse parole che gli rimanda.
L’elenco dei luoghi comuni che la ribellione civile di Vito trova in risposta, lo troverete in questi scritti. Mi colpisce il primo argomento, così banale e già sentito mille volte: «Quanti migranti sei disposto ad ospitare a casa tua?».

   Ognuno di noi potrebbe dare una risposta a questa domanda e se chi l’ha posta non fosse sordo ne sarebbe spesso stupito. Ma non è questo che conta e Vito lo dice. Conta, in realtà, che quella domanda è una barbarie, la negazione del nostro stesso sistema sociale che pure a parole si dice di dover proteggere dall’orda barbarica dell’“invasore”.

V.DAVOLI, Appunti di un buonista, Amazon KDP / Leucò 2022

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Perché se dessimo un senso ad una domanda che senso non ha, dovremmo allargarla. Chi di noi si batte ogni giorno per la difesa della sanità pubblica, contro la chiusura di un ospedale, di un presidio di salute, di un diritto, dovrebbe forse sentirsi rispondere “quanti malati sei disposto ad ospitare a casa tua?”.

   Già, quanti? Chissà se l’ineffabile interlocutore del dialogo di Vito si accontenterebbe, se avesse bisogno di cure ospedaliere, di essere ospitato a casa mia. E se avesse bisogno di una radiografia gli basterebbe che gli si faccia una foto con lo smart-phone?

   Perché a furia di ripetere questa storia del buonismo ci si dimentica che sull’accoglienza del bisogno, della fragilità, del suo superamento in un’esistenza piena nel nostro Paese, si costruisce un modo di essere più civile della nostra società. Ed è una cosa di cui abbiamo maledettamente bisogno, altro che buonismo.

   Vito scava questi temi, affronta uno per uno i luoghi comuni, gli stereotipi, i clichè! È un viaggio nelle argomentazioni ma è pure un entrare nel fuoco della ferocia del mondo.

   Non è un viaggio comodo, questo, è bene saperlo. Ma se ne esce con la consapevolezza che tacere non è possibile. Che certe cose occorre dirle, perché le parole, anche le parole, stiano nell’aria che respiriamo, siano anch’esse presenti nei tempi che viviamo. Che non lascino indisturbate quelle altre parole: l’odio e il razzismo.

   Tutti noi dovremmo porci il problema di costruire una risposta plausibile di cui poter essere degni quando ci chiederanno dove eravamo mentre succedeva tutto questo. Cosa facevamo quando l’odio dilagava?

   Vito ci prova e ci dà un esempio. Ci sono le parole e ci sono i fatti e le azioni, non c’è dubbio. Ma cosa sono anche queste ultime, senza una parola che dica che la vita degli altri e la loro sofferenza conta? Che ricominci a dirlo e non smetta più?

   Ed allora affrontiamo questo viaggio con Vito e facciamolo nostro. Entriamo nel fuoco e proviamo ad uscirne. Leggiamo questo dialogo spesso doloroso e snervante. E facciamolo vivere con altri interlocutori tutte le volte che sarà necessario.

Enio Minervini