Non piangere Antonio – vedi? –
siamo tutti come te
granelli di niente fasciati d’illusioni
nel sorriso del tempo…

Sara Del Vento

Ha esordito, appena diciannovenne, Antonio Vanni, con un libretto stampato da una tipografia di Cassino: La nube (era il 1984: ventuno poesie, nota introduttiva di Sara Del Vento e riflessione finale di Amerigo Iannacone, che poi sarebbe diventato uno dei suoi più fedeli compagni di viaggio nel mondo della poesia e dell’editoria).

La precoce pubblicazione fu subito apprezzata da nomi importanti, tra i più attenti di quegli anni, e fu Giorgio Barberi Squarotti che – scrivendo la prefazione di due volumi pubblicati con l’editrice Genesi di Torino (L’albero senza rami e la luna nel ’92 e L’Ariel nel ’97) – conferì ad Antonio Vanni un sicuro riconoscimento critico. Meritato, già allora, e va ribadito ora, dopo decenni di lavoro sull’espressione che hanno affinato e al tempo stesso ammorbidito la tecnica conservando integra la dimensione umana del poeta.

Antonio Vanni

Anima bella quella di Antonio Vanni, 33enne di Isernia, infermiere psichiatrico che fugge (o cerca di eludere) la realtà del quotidiano – «mi stacco dal dolore reale / con la poesia» – nel sogno di un’epopea della parola alla quale affidare (o con la quale sfidare) la scoperta di sé. «Le luci e gli idilli dell’infanzia – scrive Barberi Squarotti nella prefazione – sono come lasciati addietro…». Viene però da credere che difficilmente Vanni saprà (o vorrà) liberarsi dalla sua fanciullezza, dal magico volo di Ariele… Fin dalla scelta del titolo di questo sesto libro di versi, è chiaro l’intento, nello spirito di mistico insegnamento alla gioia che anima il giovane scrittore: la poesia plasma un’altra vita, e alla resa dei conti «noi non siamo nostri». L’Ariel è dunque un piccolo libro di formazione? Ma il poeta si ‘forma’ sempre, specie quando, leopardianamente, nel pensier si finge, eccetera, e ha il coraggio di crederci.

Così, oltre vent’anni fa, recensivo brevemente (sul giornalino di varia
letteratura “Il Foglio volante”, diretto dal comune amico Amerigo Iannacone) “un piccolo libro”, L’Ariel, di Antonio Vanni, poeta del quale poi
mi sarei occupato a lungo, fino alla presentazione di Plasmodio qualche anno fa.

A. VANNI, Plasmodio, Edizioni Eva 2017

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Un po’ Pascoli e un po’ Francesco, ma filtrati entrambi nella più moderna visione di una realtà che è purtroppo ancora contaminata da brutture e dolore, e perfino schizofrenica, ma pur consente – a chi abbia occhi di fanciullo – una valvola di sicurezza, forse la maglia strappata nella rete che ci vincola alla concretezza dello spazio: il poeta sa dove cercare e come cantare una dimensione di salvezza, magari in sé, nella sua mente e nel suo sguardo, nella consapevolezza di essere abitatore del mondo, ma al tempo stesso di potere, di dovere oltrepassare la siepe. – ed ora accolgo con affettuosa trepidazione il suo ultimo nato, il libretto Dimenticato, dal titolo apotropaico, certo, poiché certo l’autore non vorrebbe, non potrebbe accettare di essere dimenticato, né che lo sia il suo lavoro.
Lavoro al quale crede e al quale ha dedicato gran parte della sua vita pubblica (un’altra gran parte di quella vita è dedicata anche al prossimo, essendo lui – ed esercitando con passione la professione di – infermiere
psichiatrico).

A. VANNI, Dimenticato, Macabor 2021

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Nella poesia di Antonio Vanni, come scriveva (nel 1994) Vincenzo Rossi, nella prima presentazione della silloge Diario di una nuvola bassa, «il pulsare dolente dell’io adulto sulle tenerezze dell’adolescenza» è la chiave che consente di leggerla come sospesa tra passato e presente, nel sogno di quel che fu e nell’attesa di quel che sarà.

Antonio è un fanciullo poeta, non un poeta che è rimasto fanciullo, il che potrebbe significare una sua più o meno volontaria e consapevole adesione alla poetica pascoliana del “fanciullino”: Antonio è davvero rimasto fanciullo, prima ancora di essere o diventare poeta. In lui la parola è diretta, chiara, anche quando non lo sembra, proprio come lo sono le parole di chi ancora deve imparare a usare a fondo le proprietà del linguaggio, ma sa come farsi capire, sa esprimere sentimenti e bisogni, sa comunicare e rendere partecipi di sé.

Certo, bisogna avere orecchie per intendere. La sua scrittura non è mai stata facile: gli piace provare stupore mentre coniuga parole e costruisce versi, mentre nei versi infila incolla incendia significati altri e sposta spinge scuote le normali valenze semantiche. Se non sa stupirsi, non gli va nemmeno di partecipare un’emozione, che dev’essere colta e vissuta, manifestata e condivisa, altrimenti non vale la pena provarla (da una mia recensione a Plasmodio).

Ascoltare le parole poetiche di Antonio Vanni richiede dunque una buona dose di pazienza, poiché ci si deve disporre ad una comprensione profonda di temi comuni ma esposti in modo particolare. Dalla sua prima pubblicazione, la sua cifra si è fatta più precisa; la consapevolezza di una volontà che è slancio di innamorato, umana condivisione di bene, è anch’essa forte e presente nelle tematiche tipiche della sua poesia.

Nel suo ultimo (piccolo) libro (solo 17 poesie), Dimenticato, Antonio Vanni mostra aspetti nuovi della sua personalità poetica, ma si dimostra insieme fedele a se stesso, alla sua volontà di rappresentazione che permane la stessa – pur con evidenti sfaccettature – nel corso degli anni.
Sono pressappoco trentacinque anni, poco più, dall’esordio di quel “piccolo libro” che era La nube: non è perché è facile parafrasare, data l’atmosfera dantesca in cui viviamo questo tempo, ma 35 anni secondo Dante era “il mezzo del cammino”. Possiamo parlare di “mezzo” per Antonio “fanciullo”? Sì, se intendiamo che sta ancora in mezzo al guado, e nel cammino della vita è fermo in un punto, sospeso tra ieri e domani.

A. VANNI, Diario di una nuvola bassa, Edizioni Eva 2014

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La poesia di Antonio Vanni è fuori del tempo, poiché vive di un suo tempo: «questo viso del giorno è tutta la mia vita» (in Ode al pianto perduto) – e «appena mi sveglio inizio a sognare…».

Si può citare interamente come emblematica di un modo di intendere
e fare la poesia la brevissima Quanto leggero.

Quanto leggero
può essere un padre
se resta immobile sulla luna.
Con lo sguardo sorride ai camminanti
delle stelle,
le rose nei laghi addormentati.

C’è tutto: il sogno e la vita, l’amore e il disincanto. E c’è l’immagine chiave di una vita in poesia: il lago addormentato che custodisce rose – non si può evitare l’accostamento ai testi finali di questo libro, nei quali torna il lago ma soprattutto è presente il caro, indimenticato Luciano (amico d’infanzia del poeta, che lo ha perduto in un tragico incidente).
Ecco perché anche il titolo, Dimenticato, vuole essere apotropaico e va letto in negativo, come specchio di un’altra realtà che mangia i bambini e spinge ad una vita nuova, impossibile peraltro, se priva, privata di un bene così grande come l’amore per un amico.

«Scusami se la mia vita ti ama»: è uno dei versi più belli forse della sua intera produzione lirica – è davvero il pudore di un padre (il verso viene da una poesia per il figlio, in Plasmodio) che desidera parlare al figlio con toni da adulto e invece arretra, tornando ai trenini di legno dei giochi d’infanzia e torna al se stesso fanciullo che ora non sa come specchiarsi nel bambino cresciuto che è suo figlio.

Perché Antonio, uomo e poeta, ma soprattutto padre, vorrebbe davvero poter plasmare daccapo il suo mondo per non doverlo perdere più.

Giuseppe Napolitano