Ralph Waldo Emerson (1803 – 1882 ) è una formidabile, complessa, variegata personalità intellettuale, fra le più grandi dell’Ottocento. Una sorta di genio: poeta, filosofo, critico letterario, conferenziere eccelso, pastore della Chiesa Unitariana, studioso di psicologia, traduttore di Dante e di poeti persiani, punta di diamante del movimento del ‘Rinascimento americano’.

RALPH WALDO EMERSON, (1803 – 1882 )

Harold Bloom lo ha definito “la figura centrale della cultura americana”. Borges e Frost lo hanno ritenuto un mito. Ma è stato anche – e questo ci interessa in specie adesso, uno studioso di estetica. Un grande studioso di estetica.

Dunque, per Emerson il Poeta è l’uomo della Bellezza. Egli, ‘in mezzo a uomini parziali, è l’uomo completo e ci fa cogliere non la sua ricchezza, ma la ricchezza comune’. E lo è per destino, per nascita, per vocazione. Perché l’Universo ha tre figli: il Conoscitore, il Fattore e il Dicitore. Il primo ha amore per la verità , il secondo per il bene, il terzo per la bellezza. E quindi il poeta è il Dicitore. Il poeta ha un’esperienza nuova da dispiegare. Ed ogni esperienza richiede un’altra confessione.

Un tempo, ogni parola era poesia. E ogni nuova relazione è una parola nuova. Noi siamo simboli e abitiamo simboli. Il fatto è che – infatuati dagli usi economici delle cose – non riconosciamo che esse sono ‘pensieri’. Il poeta dona loro un potere che ne fa dimenticare il vecchio uso e mette occhi e lingua a ogni oggetto muto e inanimato. Ecco perché il poeta volge il mondo in cristallo e sta un passo più vicino alle cose.

Il poeta è il dicitore, il Nominatore. I poeti fecero tutte le parole, quindi il linguaggio è l’archivio della storia. Ciascuna parola fu all’inizio un colpo di genio. E poi divenne di uso corrente, perché simboleggiava il mondo, sia per il primo Dicitore (il poeta), sia per il primo ascoltatore. E si scopre che anche la parola più spenta e morta fu un tempo una luminosa immagine. Il linguaggio è poesia fossile. Come le rocce calcaree sono composte da masse infinite di conchiglie d’animaletti, così il linguaggio è fatto di immagini o tropi che da tempo hanno cessato di ricordarci la loro origine poetica.

Ma il poeta ‘nomina’ la cosa o la riporta alla luce nell’essenza originaria. Ed è un’illuminazione, un tuono. Ecco che il poeta parla con un impeto quasi ‘selvaggio’ e con l’intelletto ‘lasciato libero da ogni funzione di servizio’. E’ l’intelletto inebriato di nettare. Ecco perché i bardi amano il vino, l’idromele, i narcotici, l’oppio (e rieccoci all’uso della droga come itinerario verso l’oltre): perché emerga l’esaltazione della parte ‘animale’. Il fine è far uscire l’intelletto dalla custodia di quel corpo in cui è ingabbiato. Dare potere ai normali poteri che l’essere umano ha, ma che restano silenti.

E tutto in fondo – scrive Emerson – la conversazione, la folla, la danza, i fuochi, la scultura, i viaggi, la pittura, la politica, l’amore, cosa sono? Tentativi di realizzare la tendenza centrifuga. Il fuoriuscire da se stesso. I poeti – così – sono dei liberatori. Infatti, nei libri e nella poesia nulla ha valore all’infuori di ciò che è trascendentale e fuori dall’ordinario. Nella poesia ci deve essere una ‘nuova testimonianza’. Il poeta scioglie le nostre catene. (Continua)

Il discorso di Waldo Emerson è assai interessante perchè si incentra non tanto sulla poesia quanto sulla figura del poeta. Chi è il poeta, come agisce, quali metodologie mette in atto per far fluire nel linguaggio il suo mondo interiore. Qual è il suo ruolo nella società. Sono riflessioni che oggidì possiamo sentire come troppo romantiche, ma che conservano un loro fascino e una loro verità.

(Testo di riferimento: Ralph Waldo EMERSON, Essere poeta, ed. Moretti & Vitali, Bergamo 2007).

Il poeta e il mistico

Poeta e mistico per molti versi appaiono simili – scrive Emerson – perché ambedue sono proiettati verso il mondo interiore ed anche perché, in fondo, le stesse religioni del mondo (torna l’eco di Platone e poi di Giambattista Vico e poi di Heidegger ) non sono altro che ‘le esclamazioni di pochi uomini immaginosi’.

Ma sono – il poeta e il mistico – anche molto diversi, per il rapporto che hanno col simbolo: il mistico inchioda il simbolo a un solo senso, che era vero per un certo momento, ma che poi diviene vecchio e falso. E Emerson intende per ‘falso’ ciò che non giunge più al cuore dell’uomo. Che ha perso di empatia. Che non dà più emozione e quindi verità.

Ogni simbolo nasce, si evolve, muore. Ma tutti i simboli – pensa invece il poeta – sono fluidi e il linguaggio serve per veicolare, non per sostare. Il poeta sa che tutti simboli sono veri, se sono veri per la persona per la quale hanno significato. Il simbolo in sé è solo ‘transizionale’, non è vero in eterno. L’errore di tutte le religioni è rendere il simbolo rigido e inflessibile. Il poeta, invece, inventa i simboli. Il poeta coglie la natura fluttuante dell’umano e della realtà e la rende luminosa.
Quanto poco di ciò che sappiamo viene detto!

E poi Emerson, quasi in forma biblica, indica al poeta la strada: «O poeta! Tu lascerai il mondo e conoscerai soltanto la musa. Non conoscerai più i tempi, i costumi, i favori, la politica o le opinioni degli uomini, ma tutto prenderai dalla musa. Che facciano altri azioni altisonanti: tu starai celato nella natura, né potrai darti alla Borsa o al Campidoglio. Potrai passare per sciocco o scapestrato, ma avrai una meravigliosa ricompensa: l’ideale sarà per te reale e le impressioni del mondo cadranno come pioggia estiva su di te».

Perciò «il poeta trascorre in un’ora una quantità di vita che potrebbe rifornire abbondantemente i settant’anni di un uomo che gli sta accanto». La ricompensa è vivere una vita di una intensità pazzesca: la sua sensibilità gli farà vivere in un’ora ciò che un uomo comune vive in 70 anni.

Io penso che Emerson abbia ragione e perciò ho sempre ritenuto che dedicarsi alla poesia (o a un’altra arte) sia una scelta assoluta e in contrasto con qualsiasi altra. E’ un impegno totalizzante: non si può essere poeti e dedicarsi attivamente alla politica o a qualche altra cosa (lo può fare solo chi considera la poesia un passatempo o una persona – rara – che avverte come poetico il suo impegno politico). Ed anche la riflessione che il poeta (ma qui parliamo dei grandi, ovviamente) vede più lontano del religioso, credo proprio che sia vero. O perlomeno, del mistico legato strettamente ad uno specifico itinerario religioso. Il percorso religioso considera ‘definitivo’ il simbolo (la verità è stata raggiunta, che si tratti di Gesù o di Maometto). Il poeta considera che ogni percorso è un viaggio, che può avere illuminazioni e momenti estatici, ma che non termina mai. E che è vero nel momento in cui è vero per chi lo compie.

Notazione personale: è il motivo per cui – dopo anche lunghi itinerari religiosi – mi sono dimesso e allontanato: perchè ogni religione diviene culto, pratica, rito. Il fatto è che la religione parte da una verità assodata e assoluta (la verità è Gesù o Maometto o Buddha), mentre il poeta (l’artista) è alla ricerca della verità, sa che ogni ‘simbolo’ (direbbe Emerson) è relativo. Ed è il motivo per cui in tutto il Novecento poeti ‘cattolici’ non ce ne sono quasi per nulla (forse, a grandi livelli, solo in parte Ungaretti e Claudel, ed anche molto a modo loro).

Daniele Giancane