La poesia non è oggetto di sapere. Già Platone aveva parlato – addirittura – di ‘divina follia’. Interrogato da Socrate sul senso e lo scopo della sua attività, Jone, il rapsodo, il poeta, fa la figura dell’idiota. Tutti sanno quel che fanno e soprattutto perché lo fanno. Lo sa l’artigiano, lo sa il soldato… Jone no.
Ma a trarlo dall’imbarazzo è lo stesso Socrate il quale gli fa notare che nel suo non sapere c’è qualcosa di più prezioso di qualsiasi sapere e di qualsiasi abilità o competenza. Ed è proprio di chi, nulla sapendo, lascia che la sua anima sia invasa dagli dei.

Anche Giambattista Vico dirà che il sapere dei poeti è un non sapere, un sapere fittizio, che però rappresenta la forma più alta del sapere. Nel ‘non’ del sapere si apre un varco alla verità: ed è – questo varco – un analogo della ‘radura’ che un fulmine schiude nel fitto del bosco (Heidegger), tanto da costringere i ‘bestioni’ che vi abitano a trattenersi sulla soglia di uno ‘stupore’ ancora muto ma già carico di senso.

Giambattista Vico (1668-1744) Martin Heidegger (1889-1976)

Sulla base di questo ‘stupore’ gli uomini abbandonano lentamente la ferinità e danno inizio alla storia. Dice (la poesia, la radura) non tanto quel che l’uomo è (un bruto), quanto quel che l’uomo ‘deve’ essere: una creatura a immagine di Dio. I poeti sono poeti – teologi, che – nel loro fare fittizio – inventano storie per dar senso alla loro esistenza. Il poeta crea miti, ma questi miti diventano la realtà. Il fatto è che il poeta, fingendo, inventando, creando collegamenti che non ci sono nella realtà (la metafora), immaginando, sognando, istituisce un orizzonte dialogico che accomuna gli uomini e li costringe a guardare ‘oltre’, verso orizzonti più comprensivi.

Al poeta – in realtà – (e questa è una grande lezione anche per la poesia di oggi e di sempre) non interessa come sono fatte le cose, gli importa investirle di valore simbolico. Sono i poeti che inventano la religione (Shelley dirà che i poeti sono i legislatori del mondo, su questa stessa scia). Il poeta ‘umanizza’ il mondo e induce gli uomini a pensare che un dio comunichi loro qualcosa. Alla fine li spinge ad agire secondo principi condivisi e non ‘secondo natura’(che è natura ferina, bestiale). Sono solo invenzioni, le sue. Bugie.

Eppure sono quelle bugie che edificano il mondo. Che danno origine alla storia. Noi – grazie ai poeti – viviamo in un mondo di simboli, che scambiamo per realtà. Il non sapere dei poeti è quindi il sapere più importante che ci sia. La poesia non è un sapere. Non è un fare. Ma il poeta è un creatore di miti, ed è sui miti che si costruisce la civiltà.

Cosa ricaviamo oggidì da tutto questo?
1. Che la poesia (quella vera) è un’attività estremamente importante per gli esseri umani. Essa è addirittura ‘fondativa’ di civiltà. Non la si può prendere sottogamba come giocherello o passatempo.

2. Che il ‘mestiere’ di poeta è – a farlo bene – il più importante mestiere che ci sia, perché ‘inventa’ il mondo. Persino le religioni – dice Vico – sono state inventate dai poeti (e possiamo spingerci più in là: Gesù è stato un poeta formidabile: coi suoi sogni, le sue ‘utopie’, le sue idee, ha edificato una civiltà: noi non sappiamo davvero chi era Gesù, ma sappiamo che certamente era un poeta).

3. Che la realtà in sé, al poeta, interessa poco. Ciò che gli interessa è ammantare di simboli la realtà. Reinterpretarla. Ecco perché la poesia ‘realistica’ (politica o simili) non ha senso: perché al poeta non interessa la realtà com’è. La vede sempre attraverso i simboli che crea.

4. Che tutto è metafora. Noi siamo metafora. Il nostro linguaggio quotidiano è-anche se non ci facciamo caso-una metafora ininterrotta. Sentivo poco fa la televisione. Qualcuno diceva: ‘Abbiamo raschiato il fondo del barile’. Un altro: dobbiamo vincere lo scudetto. Arrivano i ‘vigili del fuoco’. E’ tutta invenzione. Le parole sono simboli. Le parole sono state inventate dai poeti: scudetto e vigili del fuoco sono state inventate da D’Annunzio, ma tutto (sedia, lampada, cielo)sono invenzioni, simboli inventati da poeti anonimi e sconosciuti (chissà quando, chissà dove).

La realtà-in sostanza-è l’invenzione della realtà. E’ invenzione dei poeti.

Daniele Giancane