Credo che oggidì non si possa scrivere poesia o interessarsi di poesia senza tener conto degli studi e delle riflessioni di Martin Heidegger, che ci spiega chiaramente che significa scrivere poesia (Teniamo da parte il ‘biografico’ di Heidegger e la sua adesione al nazismo, qui riflettiamo sulla sua concezione estetica). Qual è il ‘compito’ del poeta e del suo stesso stare al mondo. Heidegger (1889 – 1976), in L’origine dell’opera d’arte (1936), Perché i poeti? (1946) , In cammino verso il linguaggio (1959), ci rivela la funzione della poesia nell’epoca del predominio della tecnica.

Martin Heidegger (1889 – 1976)

Viviamo – scrive Heidegger – nel ‘tempo della povertà’: è il tempo degli ‘dei fuggiti’. Tempo povero di ‘sacro’(naturalmente intendendo con questo termine non l’adesione ad una religione specifica, ma l’atteggiamento dell’essere umano di fronte alla vita). E’ un tempo povero di ‘essere’ (così dice il filosofo: ‘essere’ in contrapposizione ad ‘ente’).

Siamo nell’epoca del predominio ‘oggettivante’, ’manipolante’, atteggiamento iniziato con Cartesio, che ha finito per emarginare la ‘visione’ di Pascal della ‘invisibile ultrainteriorità del cuore’, per cui l’uomo è naturalmente sospinto verso ciò che deve essere amato: gli avi, i morti, l’infanzia, i nascituri, il tempo, l’anima. Siamo diventati manipolatori e predatori. Siamo diventati ‘funzionari della tecnica’. Manipoliamo il mondo, la natura. E’ una ricchezza apparente, perché basata sull’ingannevole convinzione che attraverso la produzione, la trasformazione, l’accumulazione, l’uomo possa essere più felice.

E’ un errore clamoroso. E allora, se siamo nel tempo della ‘povertà’, ovvero della totale ‘desacralizzazione’ (non ci interessa il sacro, lo stupore, l’oltre) ecco il potentissimo compito che Heidegger ravvisa nei poeti: «Spetta ai poeti illuminare gli uomini del nostro tempo, ritrovare le tracce degli dei fuggiti». Spetta ai poeti indicare le tracce per ritrovare la propria essenza: pervenire al fondo dell’abisso e ricominciare a guardare verso l’alto. O verso il ‘dentro’.

Ma ci vuole poesia vera, poesia ‘pensante’ o un ‘pensare poetante’, che costituisce questa ‘rivelazione’. Il fatto è che i poeti (ma quelli veri) sono gli ‘arrischianti’, coloro che sperimentano il linguaggio. Il poeta non sperimenta per narcisismo o per tornaconto (tutto questo è inutile), non ha interessi personali, non è schiavo della ragione, della tecnica, dell’utile. E’ un uomo libero perché riscopre la ‘logica del cuore’. Il fatto è che il linguaggio tradizionale non rivela più, anzi nasconde, obnubila, si ferma alla superficie, è usurato. Il poeta deve reinventare un linguaggio poetico/pensante.

I poeti veri ‘arrischiano’ il linguaggio, non usano pedissequamente il linguaggio esistente. Così il poeta passa dal dominio ‘calcolante’ al dominio dell’Angelo. L’opera d’arte non è usabilità, valore commerciale, pura descrizione. E’ allusione ad altro. E così Heidegger spiega il dipinto di Van Gogh che rappresenta un paio di scarpe. In sé e per sé sono solo due scarpe dipinte bene. Ma quelle due scarpe ci proiettano in una dimensione diversa da quella in cui comunemente siamo. Ci proiettano nella dimensione della ‘verità’: le scarpe di Van Gogh sono allora il simbolo del mondo contadino, legato alla terra in un rapporto di ‘fidatezza’.

Alcune delle celeberrime Scarpe di Van Gogh

Le scarpe testimoniano la fidatezza, il silenzioso e misterioso richiamo della terra. Ed ecco che la vera poesia ci conduce ad una dimensione non solo estetica, ma ‘estatica’ e ad una esperienza di ‘sapere’. Ci svela il mondo. Ci apre una ‘radura’ di senso. L’essenza della poesia – che si realizza nel linguaggio – è l’instaurazione della verità. Essa è ‘donare’, ’fondare’, ’iniziare’.

Parole potentissime e profonde, come si vede, di fronte alle quali dobbiamo riflettere profondamente. Il compito del poeta è altissimo. Anzi: è vitale. Sta a lui ridestare le coscienze, inventare il linguaggio, iniziare un nuovo corso, aprire una radura di verità.

Addirittura ridestare il ‘sacro’ che nessuno e nessuna Istituzione (Chiese di ogni tipo comprese) riescono più a fare, perse come sono anche loro nel mondo della manipolazione, del ‘fare’ (aiutare, essere solidale, costruire edifici, in sostanza restare nel campo della politica e delle problematiche sociali).

Heidegger ci dice che o la poesia (l’arte) è questo: rivivificare il mondo e riportare ‘a casa’ gli dei fuggiti (e indicò come modello Hoelderlin), o non serve a nulla (è puro narcisismo, gioco, autocelebrazione). Ecco perché il poeta non deve avere fini economici o personali. Ed io proseguo: ecco perché penso – quasi continuando la riflessione di Heidegger – che il poeta debba praticare il ‘dono’ delle sue poesie.

La poesia non si vende, se no diventa un oggetto commerciale, resta nel campo dell’utilità. I libri di poesia devono essere regalati (anche perché il dono è esso stesso una ‘pratica’ rivoluzionaria: chi dona qualcosa, in un mondo dominato dalla tecnica e dal commercio? Solo i poeti. Coloro che inseguono gli dei fuggiti).

Daniele Giancane