E. MARCUSE, L’uomo a una dimensione,
Einaudi 1967 (V edizione)

Con Herbert Marcuse (1898 – 1980), anche lui appartenente alla scuola di Francoforte, si giunge al punto estremo della riflessione sull’arte ai nostri tempi. In L’uomo a una dimensione (1964) Marcuse si dichiara convinto che l’arte autentica – nella civiltà capitalistica – è impossibile. L’industria culturale assorbe ogni contenuto (anche quelli di opposizione) e ne fa merce. Il ‘sistema’ è onnipervasivo. Gli stessi personaggi ribelli o diversi, presenti nella letteratura pretecnologica come fattori di disordine e trasgressione all’ordine costituito, ora vengono ‘integrati dai media, pagati, acquistati, omologati, utili ad affermare piuttosto che a negare.

Un tempo – ad esempio – c’erano due culture: quella ‘borghese’ e quella popolare. In letteratura da una parte Manzoni e Leopardi, dall’altra i poeti a braccio delle campagne, che esprimevano una realtà ‘altra’. O i rituali carnevaleschi, i canti goliardici, le satire di Pasquino. C’era un mondo alternativo a quello ufficiale. Adesso non c’è più. Chi appare diverso, viene integrato con un ricco contratto televisivo. Chi contesta fa alzare l’audience nei dibattiti. Tutto diventa denaro, merce. Il Grande Rifiuto viene a sua volta rifiutato. L’altra dimensione viene assorbita nello stato di cose prevalente.

Herbert Marcuse (1898 – 1980)

«Il fatto è – scrive Marcuse – che la mobilitazione totale di tutti i media per la difesa della realtà stabilita ha coordinato tra loro i mezzi di espressione al punto che la comunicazione di contenuti diversi diventa tecnicamente impossibile». Chi pratica nell’arte il ‘Gran Rifiuto’ è condannato ad essere assorbito da ciò che intende confutare.

Adorno – per Marcuse – sbaglia, è troppo ottimista: l’arte autentica – di rifiuto dell’esistente per far intravedere un universo alternativo – è impossibile (o dura ben poco), perché viene ben presto integrata nel sistema. E allora, concludo io – è possibile o un’arte che non disturba (che parla d’amore, ecc.) o al massimo un’arte di estrema nicchia. Perché, appena comincia a diventare popolare, entra in campo l’industria culturale che la fagocita e ne fa merce. La depotenzia della sua iniziale energia rivoluzionaria.

Gli esempi sono infiniti, in ogni campo. Possiamo farne anche di banali: Sgarbi (che ho conosciuto, una sera) è uno che appare trasgressivo e probabilmente all’inizio lo era. Poi, appena si è visto (e lui stesso ha ben compreso) che le sue intemperanze fanno audience, tutti lo hanno voluto in televisione e lui è diventato una macchietta, uno che recita sempre lo stesso ruolo (ben pagata: all’incontro culturale in cui lo conobbi pretese e ottenne quindicimila euro per un quarto d’ora di intervento). Uno da cui ti aspetti che si incazzi e mandi qualcuno al diavolo! Se non lo fa, non è Sgarbi (il fatto che sia un fine studioso di arte diventa secondario, per la massa). Ecco perché io non credo (ai nostri tempi) assolutamente ad una qualsiasi idea di rivoluzione; nella nostra società diventerebbe subito oggetto dell’industria culturale: trasmissioni televisive, sponsor, interviste ai capi della rivoluzione, inviti, incarichi di sottogoverno.

Ci vuole poco perché il rivoluzionario diventi ministro e scriva un libro di largo successo (e vendite e soldi). Insomma il potere è una brutta cosa, ma spesso chi si oppone al potere (in questa società) è spesso uno che attende di vendersi al potere nel migliore dei modi. E il ‘potere’ lo sa e lo attende al varco. E’ ciò che inevitabilmente – in ambito politico – accade sempre.

Prendete il Movimento 5Stelle: quando era nel pieno della contestazione generale, del Rifiuto e del Vaffa, pensai (memore della lezione di Marcuse): è questione di tempo, prima o poi il ‘sistema’ della conservazione prenderà le contromisure e li ingloberà totalmente. E così è accaduto, perché un ‘universo alternativo’ non è possibile, l’uomo è ormai ad una sola dimensione (E nel mondo comunista o post-comunista è la stessa cosa: capitalismo e comunismo sono due facce della stessa medaglia, dice Marcuse). Forse può fare vera arte solo chi si ritira in un luogo isolato e taglia i ponti con l’industria culturale. Che si disinteressa di televisioni, interviste, successo, ricavi economici. Insomma, un eremita.

Certo è che Marcuse è pessimista assai, ma ci fa pensare. Ma mi fa credere che – in fondo – ciò che facciamo noi è una forma di eremitaggio culturale. Più verità, approfondimento, autenticità, che non ricerca del ‘successo’. Che poi, il ’successo’, cosa sarebbe? Risposta: divenire oggetto dell’industria culturale. E forse aveva proprio ragione Pasolini: solo la poesia (e le forme di arte ‘alternativa’, con circuiti ‘altri’ non legati alla commercializzazione, come certo cinema d’essai, o musica o arte sperimentale), non entrando nel circuito dell’industria culturale (non avendo mercato), non diviene merce (paradossalmente il suo non-vendersi è la sua vera arma).

Daniele Giancane