La straordinarietà della Commedia sta nel fatto che essa racconta di una vita in continua trasformazione, nonostante il poema sia stato ultimato più di settecento anni orsono.

E se è vero che la vita ritratta da Dante non è mai uguale a se stessa e muta esattamente come cambiano le nostre abitudini, le nostre idee e la nostra indole di lettori, allora non c’è da stupirsi se anche un solo verso che abbiamo letto e riletto migliaia di volte, che fa parte della memoria storica dell’umanità e che è radicato al punto nelle nostre reminiscenze scolastiche da permetterci un collegamento immediato al canto a cui appartiene, ebbene non ci stupiamo se proprio quel verso improvvisamente ci rivela una verità taciuta, ben nascosta tra le parole note, così incredibilmente ovvia, che notiamo però solo quando qualcosa nella nostra vita, qualcosa di scoperto o di ritrovato magari, ci rende lettori nuovi, in grado di cogliere le sfumature cangianti del testo.


Poco tempo fa la Commedia, tramite alcune delle sue terzine più celebri,
mi ha svelato una verità che avevo visto tante volte, ma non avevo mai
guardato:

Noi leggiavamo un giorno per diletto
di Lancialotto come amor lo strinse;
soli eravamo e sanza alcun sospetto1.

(Inf, V, 127-129)
1 Si cita ora e sempre da D. ALIGHIERI, La Commedia secondo l’antica vulgata, a cura
 di G. Petrocchi, Mondadori, Milano 1966-67

Improvvisamente ecco che Dante affida a una lettura fatta ad alta voce
l’incipit di una delle riflessioni più devastanti della Commedia: persino l’amore (in alcune sue forme) può condurre alla dannazione eterna. Non è scritto che Paolo e Francesca stessero leggendo dei cavalieri della Tavola Rotonda ad alta voce, ma è assai probabile che sia così: nel XIV secolo il possesso di copie manoscritte dei grandi poemi dell’antichità era un privilegio appannaggio di poche facoltose famiglie o delle biblioteche conventuali gestite dai monaci amanuensi, dunque ritenere che nel Trecento presso una medesima biblioteca di famiglia giacessero due copie manoscritte di una stessa opera è un pensiero azzardato che in realtà rasenta l’improbabile.

Si ricordi, inoltre, che la lettura ad alta voce, all’epoca delle fiorenti corti italiane, era una pratica ben consolidata, una delle forme di intrattenimento più consuete, destinate tanto a un pubblico vasto quanto a un ritrovo di pochi eletti.

“Noi leggiavamo”: il pronome personale è testimonianza lucida dell’unione indissolubile che lega Paolo e Francesca e che li terrà avvinghiati l’uno all’altra in forma di ombre, una volta che la passione dichiarata proprio da quel “noi” condurrà gli sfortunati amanti ad una morte, alla stessa implacabile condanna.

Tutto ha inizio da una lettura fatta presumibilmente ad alta voce quando i due amanti erano (o così credevano) al di sopra di ogni sospetto. E chi leggeva? Probabilmente Francesca, non tanto per ragioni di genere, quanto per l’identità di figura parlante che Dante le attribuisce per tutto il resto del V canto; considerando invece che gli unici suoni emessi da Paolo nel corso dello stesso canto sono lamenti e un sommesso pianto, è ragionevole pensare che il lettore non fosse lui. Dante deve aver colto la potenza icastica della lettura ad alta voce di un buon libro, quanto questa possa cambiare il nostro modo di approcciarci al testo, quanto incidano le modulazioni vocali, l’espressività, magari anche la mimica facciale e una gestualità suggestiva che accompagna e sorregge la voce nei momenti topici della lettura, insomma quanto la nostra intera vita può lasciarsi influenzare da uno strumento potente quale la voce e la sua capacità di pronunciare parole in grado di modificare il corso degli eventi, di infliggere dolore o di alleviarlo a seconda dei casi.

La lettura ad alta voce si presenta altresì come uno strumento didattico di incredibile efficacia, ma prima di trattare delle ipotesi di rinnovamento didattico inerenti specificamente alla Commedia dantesca, si procede a tracciare rapidamente il profilo di alcuni autori e studiosi, esponenti del panorama letterario e critico internazionale, che riconoscono alla lettura ad alta voce un ruolo fondamentale, quasi irrinunciabile, nell’insegnamento efficace della letteratura a scuola. Daniel Pennac dedica numerose pagine di Come un romanzo alla lettura ad alta voce, un’esperienza concreta che l’autore giudica un tassello fondamentale nella vita dell’essere umano sin dalla tenera età, come sostiene anche Paul Valéry, del quale Pennac riporta parte di un discorso che lo scrittore tenne di fronte a un consesso di giovani
donne appartenenti all’austera Legion d’Honneaur: «Nella più tenera età, appena non ci viene più cantata la canzone che fa sorridere e addormentare il neonato, si apre l’era dei racconti. Il bambino li beve come prima beveva il latte. Pretende il seguito e la ripetizione dell’incanto […]»2.

2
 D. PENNAC, Come un romanzo, Feltrinelli Editore, Milano 2014 ventitreesima edizione, p. 42.

Per Pennac il discorso di Valéry racconta in modo essenziale e autentico del rapporto d’amore che può legarci a un libro sin dall’infanzia, un legame che la lettura ad alta voce va a corroborare come linfa: man mano che l’età adulta avanza, tendiamo a dimenticare in che modo così naturale e spontaneo le “Lettere” sono entrate a fa parte della nostra vita e ci hanno spalancato gli occhi su mondi incantati e su orizzonti di carta, rendendoci così simili a quel «pubblico implacabile»3 affamato di racconti di cui parlava Valéry.

Se è vero che l’abitudine ad ascoltare racconti e storie sin dall’infanzia contribuisce a far sì che il bambino, in un secondo momento, si accosti in maniera naturale e soprattutto autonoma alla lettura di un testo, è anche vero, dice Pennac, che sarà poi compito della scuola conservare intatta tale predisposizione: perché il “buon lettore” rimanga tale, è necessario che egli sia circondato da adulti entusiasti che, parlando della lettura ad alta voce, non godano a metterlo in imbarazzo, né ostentino la loro competenza in fatto di lettura, ma al contrario lo stimolino continuamente, lo spronino a migliorarsi mettendo a suo servizio le stesse fragilità e passioni che scuotono le loro fondamenta di esseri umani rapiti dall’incanto della lettura, alimentando così «il suo desiderio di imparare, prima di imporgli il dovere di recitare»4.

Si parta dal presupposto che l’amore per la lettura non si può né insegnare né imporre, perciò solo una testimonianza vitale e concreta contribuirà a trasformare, lentamente ma inesorabilmente, ciò che era un dovere di scolaro in piacere necessario e gratuito. Tale piacere, come fosse una pianticella appena sbocciata di cui prendersi cura, va alimentato quotidianamente: «Basta non lasciar passare gli anni. Basta aspettare che faccia notte, aprire ancora una volta la porta della sua camera, sederci accanto al suo letto e riprendere la nostra lettura comune»5. Basta uno sforzo. Basta un impegno quotidiano. Basta un sacrificio… sacrificio, poi! Che parola bizzarra e ambigua, che ci costringe a pensare a uno sforzo fatto con riluttanza e fatica!

3 Ibidem. 

4
 D. PENNAC, Come un romanzo, cit., p. 43.

5
 Ivi, p. 44.

Basta uno sforzo. Basta un impegno quotidiano. Basta un sacrificio… sacrificio, poi! Che parola bizzarra e ambigua, che ci costringe a pensare a uno sforzo fatto con riluttanza e fatica!

Ma ponendo che sia la parola più adatta da usare in certi casi, a chi lo si chiede tale sacrificio? Ai genitori, risponde Pennac, e poi alla scuola. E dopo tutto non si rinuncia a niente, perché leggere, anche leggere ad alta voce, è un dono e basta, è gratis, non implica l’esigenza di fare domande, purché lo si faccia ogni sera come una sorta di rituale, purché siamo disposti a leggere e a rileggere magari, ogni volta che il solito “pubblico implacabile” ci chiederà “Ancora!”.
«Mille sere! Leggiamo per mille sere a partire da oggi!»6: è il grido entusiasta di Alice, protagonista e autrice di un romanzo del 2015, intitolato The Reading Promise e tradotto in italiano con il titolo La lettrice di mezzanotte. Si tratta del racconto autobiografico di una folle quanto affascinante impresa che coinvolge un papà bibliotecario e la sua figlioletta, la quale, incantata dalla voce del padre e dalla sua abilità di far vivere davanti ai suoi occhi di bambina i personaggi fantastici del regno di Oz o del Bosco dei Cento Acri, chiede al genitore l’impegno costante di leggere, almeno per dieci minuti ogni sera prima che scocchi la mezzanotte, un pezzetto del libro al quale si stavano dedicando.

6
 A. OZMA, The Reading Promise, Sperling & Kupfer Editore, trad. di Chiara Brovelli,
 New York 2015, p. 3.
A. OZMA, La lettrice di Mezzanotte, Sperling & Kupfer 2015

La Serie, così la chiamano i due protagonisti, perché sia portata avanti degnamente, richiede al padre un preciso impegno quotidiano, ossia quello di “preparare” la lettura serale, in modo da non incappare in strafalcioni dovuti a una lettura incauta, in modo da sottolineare con la giusta enfasi vocale e mimica il saliscendi dell’emotività dei personaggi, dei quali è necessario imitare la voce e le movenze, inventandosi le sfumature più bizzarre, e tutto per sortire l’effetto sperato: che la lettura susciti negli occhi di sua figlia un insperato senso di meraviglia, che un giorno lei cercherà nel mondo. Una delle pagine più interessanti del testo racconta proprio del rituale con cui James Bronzina, il padre di Alice, preparava, a volte per ore intere, la lettura serale, esercitandosi privatamente prima di cominciare a leggere per la figlia:

Papà chiedeva sempre un po’ di tempo per preparare la lettura della sera, prima che lo raggiungessi di sopra. E sono sicura che in alcuni casi, con i libri più impegnativi, soprattutto quelli che avevano una lingua difficile ne avesse bisogno. Ma nemmeno rinunciava all’opportunità di censurare il testo, se pensava ci fosse qualcosa di inappropriato. Non lo vedevo mai scrivere sulle pagine, anche se ero certa di capire quando sostituiva una parola o evitava una frase: comunque, di solito i suoi tagli si limitavano al massimo a un periodo. Con Dicey’s Song però le sue capacità di improvvisazione si trovarono di fronte a una sfida completamente nuova7.

7
 A. OZMA, The Reading Promise, cit., p. 137.

Padre e figlia si trovano coinvolti in qualcosa di più grande di loro: un legame fatto di parole, di carta, di voce, di gesti, di complicità, di silenzi, di emozioni difficili da descrivere e da sostituire che crescono con entrambi loro. La Serie, superando di gran lunga le mille sere proposte all’inizio, si interrompe solo quando Alice inizia a studiare al college.

La straordinarietà dell’esperienza di una lettura condivisa e la sua capacità di trasformare il rapporto padre-figlia in qualcosa di unico e quasi incomprensibile a chiunque si ponga al di fuori della promessa di leggere qualcosa a qualcuno e di leggere con qualcuno è ciò che fa di questo romanzo una storia diversa dalle altre e che conferma le posizioni sostenute da studiosi quali Vygotskij, convinto assertore del fatto che è proprio la funzione creatrice dell’immaginazione a caratterizzare la vita umana e, se il libro si presenta come fonte inesauribile di stimoli e di impulsi che i lettori giovani e meno giovani utilizzano per elaborare le proprie personali immagini della realtà circostante, la lettura ad alta voce, dal canto suo, soprattutto quando eseguita lentamente e curata nei minimi dettagli, tanto nell’attenzione al ritmo e all’espressività vocale, quanto alla considerazione del significato specifico di ogni parola, stimola incredibilmente la capacità di ascolto e le facoltà immaginative di coloro che hanno la fortuna di fruire di un dono simile.

Tornando a Pennac, l’autore francese riconosce alla scuola un ruolo cardine nell’adozione della lettura ad alta voce come strumento didattico efficace, capace in primis di avvicinare o riavvicinare i giovani lettori al testo letterario. Non solo: la lettura ad alta voce sembra favorire lo sviluppo di importanti dinamiche di interazione sociale e verbale, tra i bambini soprattutto, i quali entrano in un rapporto di immediata e totale empatia con il lettore, la cui voce invisibile prende corpo nei personaggi, nelle loro voci, nei loro movimenti e sentimenti.

Da non sottovalutare è la centralità degli aspetti verbali di tale strumento didattico: ogni adulto, naturalmente, legge nel proprio peculiare e caratteristico modo, catturando così l’attenzione dei giovani lettori che, prima di identificarsi nel testo, ritrovano se stessi nelle variegate modulazioni della voce narrante, nei sorrisi, nelle espressioni e nelle smorfie del lettore, lasciandosi contagiare dalle emozioni che egli esprime e che gli provengono dalla lettura diretta del testo. Il coinvolgimento emotivo degli studenti nell’insegnamento di un testo letterario si attua nel momento in cui tra il lettore e l’ascoltatore si instaura una relazione non solo verbale ma anche fisica, fatta di gesti, di sguardi e di sorrisi.

Per garantire una così alta didattica della letteratura a scuola, è ovviamente necessario che il lettore conosca profondamente il testo che si appresta a leggere alla classe e che si alleni con costanza nell’esercizio della lettura, in modo da regolare l’espressività della voce in base ai momenti cruciali della narrazione e destare, così, di continuo l’attenzione degli ascoltatori. Accanto all’impegno genitoriale, dunque, la scuola insegna a leggere, finché non sarà proprio lui, il bambino affamato di racconti, a chiedere, fremente di desiderio, di leggere con il genitore, tanto che arriverà un giorno in cui egli esclamerà: «Stasera leggo io!»8.

8
 D. PENNAC, Come un romanzo, cit., p. 46.

Parlando del professore che a scuola legge ad alta voce a un pubblico che spesse volte non è ancora in grado di farlo, Pennac lo definisce un “maestro trobadorico”9, uno che nel Medioevo recitava a gran voce le canzoni di gesta girando per locande e corti.

Oggi come allora, l’effetto che la lettura ad alta voce del maestro sortisce è lo stesso: «Apriva occhi, illuminava menti, invitava i suoi sulla strada dei libri, pellegrinaggio senza fine né certezza, cammino dell’uomo verso l’uomo»10.

Il professore a scuola, o il maestro che dir si voglia, provoca la classe che dichiara di non amare leggere e si propone allora di leggere lui stesso qualcosa, suscitando la perplessità degli astanti, quando «apre la cartella e tira fuori un librone grossissimo»11.

9
 Ivi, p. 76.

10 Ibidem. 

11 Ivi, p. 88.

Il nocciolo della questione è: un insegnante di lettere può davvero trascorrere un intero anno scolastico a leggere? Si può davvero insegnare letteratura facendo a meno dei manuali, ma concentrandosi esclusivamente sul testo? La provocazione di Pennac non potrebbe essere più chiara: il suo professore sostiene che non ci sia bisogno di prendere appunti, che al contrario l’unica cosa da fare è ascoltare. A quel punto accade qualcosa: lo scetticismo degli studenti pian piano lascia il posto a qualcosa di diverso, alla curiosità; la curiosità lo lascia alla passione e la passione lo lascia… Possibile? All’amore? Proprio quell’amore che va al di là di qualsiasi insegnamento?

«La voce del professore ha contribuito alla riconciliazione»12 dei più giovani con la lettura e, nonostante questo merito, essa rimane un tramite: lo scopo ultimo è permettere a ciascun studente di ritrovare (o trovare per la prima volta) l’intimità con il testo e il suo autore e riscoprire (o scoprire dal nulla) il piacere di leggere.

12 Ivi, p. 96.

Tra i dieci diritti che Pennac rivendica al lettore si annovera anche quello di leggere ad alta voce: rivolgendosi a un’interlocutrice la cui identità non è meglio specificata, l’autore le domanda perché la lettura a voce alta rivesta un ruolo tanto importante nella sua vita. «Per la meraviglia – risponde lei – Le parole pronunciate si mettevano a esistere al di fuori di me, vivevano veramente»13. E in tal modo la lezione di letteratura diventa esperienza vitale, testimonianza che non può lasciare indifferenti. Ascoltando la sua giovane interlocutrice, Pennac vaga con i pensieri, finché non gli viene in mente «il vecchio Dickens, ossuto e pallido, prossimo alla morte, entrare in scena… il suo vasto pubblico di illetterati improvvisamente immobile, silenzioso, al punto che si sente il libro aprirsi… […]»14.

13 Ivi, p. 135.

14 Ivi, p. 136

Tra le lettere personali di Charles Dickens pervenute fino alla nostra conoscenza ce n’è una datata 1858 e indirizzata a Frederick Evans, all’epoca suo editore, membro della casa editrice Bradbury & Evans.

Nella lettera Charles racconta di un’attività destinata ad assumere sempre maggior peso nella sua vita di autore di fama internazionale: la lettura pubblica dei suoi romanzi. All’inizio le letture venivano eseguite per beneficenza, ma poi Dickens si accorse che avrebbero potuto fruttargli parecchio denaro, oltre che una crescente popolarità: cominciò quindi a sottoporre i suoi romanzi più celebri a numerosi adattamenti per poterli recitare in pubblico, fino a farne «veri e propri fenomeni sociali»15.

15 C. DICKENS, Quante cose ho da raccontarti, L’Orma Editore, Roma 2020 I edizione, p. 52.

Nella lettera a Evans, Dickens esprime una serie di dubbi riguardo alle possibili ricadute che l’attività di performer avrebbe potuto avere sulla sua reputazione. Al tempo stesso si diceva ossessionato da questo pensiero: «L’idea delle Letture che mi è venuta tempo fa mi si è attaccata addosso»16. Nella lettera vengono inoltre elencate le tappe del tour che avrebbe portato Charles a leggere a Londra e nei suoi dintorni, con il progetto, se le letture avessero riscosso il successo sperato, di proporle anche in Irlanda e in America, dove il nome di Dickens era già una garanzia di successo. Qual era davvero il dubbio che assillava Dickens? Nella lettera lo dichiara apertamente: egli temeva più di tutto la possibile ricaduta negativa derivante dall’uso improprio che avrebbe fatto «dei rapporti personali (direi quasi di affetto) che sussistono tra me e i lettori»17.

16 DICKENS, Quante cose ho da raccontarti, cit., p. 53.

17 Ivi, p. 54.

Questo perché, e Dickens lo sapeva bene, la lettura ad alta voce è tanto efficace quanto più è alimentata da un rapporto di intimità e di reciproca fiducia che si instaura tra il lettore (che è anche performer) e il suo pubblico. Dickens temeva di approfittarsi di tale fiducia per scopi lucrosi. La storia ci dice che si trattava di dubbi infondati: i biglietti per assistere alle letture pubbliche di Charles Dickens andarono a ruba fino a poco prima della sua morte, l’immagine che venne in mente a Pennac.

Dickens aveva capito che leggere qualcosa ad alta voce, qualcosa di proprio soprattutto, significava dare a chiunque fosse disposto ad ascoltare parte di sé, della propria anima, quella che di solito si cela tra le righe, tra le pagine e che improvvisamente viene gridata a gran voce, correndo il rischio di essere fraintesi, pur di regalare a un pubblico affezionato e fiducioso un po’ di meraviglia. Il medesimo pensiero lo snocciola Pennac a conclusione della sua disamina sulla lettura ad alta voce: «L’uomo che legge a viva voce si espone completamente. […]. Se legge veramente, […], se la lettura è un atto di simpatia per l’uditorio come per il testo e il suo autore […], allora i libri si spalancano e in essi, dietro a lui, si riversa la folla di coloro che si credevano esclusi dalla lettura18».

18 D. PENNAC, Come un romanzo, cit., p. 138.

Ma un professore a scuola è disposto a correre un rischio del genere?
È disposto a esporsi, a rivelarsi, a dare un nome alle proprie fragilità, debolezze, intime passioni, rischiando che il suo uditorio si faccia un’idea sbagliata di lui o si approfitti di tanta generosità d’animo? Secondo alcune autorevoli voci del panorama letterario contemporaneo, questo è l’unico modo, l’unico prezioso e fragile tentativo, per fare della lezione di lettere un’esperienza.

Secondo Davide Rondoni, proprio quella della lettura a viva voce, di una voce estranea che racconta qualcosa, qualsiasi cosa, è un’esperienza totalizzante per gli studenti, nella quale persino il silenzio acquista un suo specifico rilievo. Tale pensiero è condiviso dall’italianista Ezio Raimondi, secondo il quale una lezione a scuola (e una lezione di letteratura in particolare) è una forma di «dialogo dove il silenzio, cioè il saper ascoltare, non è meno necessario della parola»19.

19 D. RONDONI, Contro la letteratura. Poeti e scrittori. Una strage quotidiana a scuola, Il Saggiatore, Milano 2010, p. 86

Agli occhi di Rondoni un rinnovamento della didattica della letteratura a scuola è questione quanto mai urgente: la scuola dovrebbe concedere maggiore spazio di manovra agli insegnanti, i quali dedicheranno buona parte della lezione alla lettura e all’ascolto di buone poesie, di squisiti romanzi, di pensieri profondi e provocatori, partendo dal presupposto che l’insegnante, dal canto suo, «deve saper leggere bene»20, in quanto ne va del suo mestiere e dell’opportunità di appassionare la classe. In tal modo la lezione diventa reale e viva, prendendo corpo attraverso un linguaggio che troppo spesso non risulta familiare: docente e studenti intrattengono una relazione paritaria, basata sullo scambio reciproco e vivace di idee e di sensazioni che solo una buona lettura può suscitare.

20 RONDONI, Contro la letteratura..., cit., p. 85.

Che la Divina Commedia si presti alla lettura ad alta voce lo sapeva bene Giovanni Boccaccio, il quale si trovava a Firenze nel 1373 quando, circa cinquant’anni dopo la morte del sommo poeta, accettò l’incarico di leggere e commentare i canti del poema dantesco presso la Chiesa di Santo Stefano in Badia.

Purtroppo l’impresa di Boccaccio si interruppe al XVII canto dell’Inferno. La cosa interessante da considerare, tuttavia, è che tale richiesta fu avanzata proprio dal popolo fiorentino, il quale presentò ai priori del comune una petizione redatta e firmata che recitava così: «A favore della maggior parte dei cittadini di Firenze che per sé, per gli altri cittadini desiderosi di aspirare alle virtù e anche per i loro figli e discendenti vorrebbero essere istruiti sul libro di Dante, dal quale anche chi non ha studiato può essere educato a fuggire i vizi e ad acquistare le virtù e una bella eloquenza, preghiamo con reverenza che voi, Priori delle Arti e Vessillifero della Giustizia del Popolo e del Comune di Firenze, provvediate a fare solennemente approvare […] la scelta di un uomo saggio e preparato, esperto nella scienza di questo particolare tipo di poesia, per il tempo che vorrete, non superiore a un anno, perché legga a Firenze il libro chiamato in volgare “El Dante” a tutti quelli che vorranno ascoltare […]21».

21 F. NEMBRINI, Una vita con Dante, in D. ALIGHIERI, Inferno, Mondadori, Milano
 2019, p. 33, trascritto in Dell’esilio di Dante. Discorso commemorativo del 27 gennaio
 1302 letto al Circolo Filologico di Firenze il 17 gennaio 1881 da Isidoro del Lungo. Con
 Documenti, Le Monnier, Firenze 1881, pp. 164-65, trad. di F. Nembrini.

Boccaccio non si lasciò sfuggire l’occasione di parlare di Dante ai suoi concittadini che erano evidentemente consapevoli che il poema dantesco parlava, e parla tuttora, di vita vera e che in esso si snodano le vie attraverso le quali veramente un’anima smarrita e misera può pervenire alla felicità vera e duratura. Boccaccio stesso ammise a più riprese che la lettura della Commedia gli aveva cambiato la vita e fu anche questa la ragione per cui, all’inizio delle sue letture pubbliche a Santo Stefano, la battezzò con il nome con cui la ricordiamo ancora oggi: Divina Commedia.
In Dante tutto acquista consistenza e stabilità22.

22 I. CALVINO, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Oscar Mondadori, Milano 2010, p. 19.

Trattando del canto XVII del Purgatorio, Italo Calvino in Lezioni americane opera una distinzione tra due tipi di processi immaginativi che la lettura della Commedia è capace di avviare: «quello che parte dalla parola e arriva all’immagine visiva e quello che parte dall’immagine visiva e arriva all’espressione verbale»23.

Ciò che interessa particolarmente la pratica della lettura ad alta voce è il primo processo descritto da Calvino, processo applicabile a qualsiasi forma o genere letterario, che si tratti della scena di un romanzo o di uno stralcio di articolo di giornale. Tuttavia, quando la parola è potente abbastanza da favorire spontaneamente la visualizzazione mentale di immagini più o meno suggestive, e dunque quanto più il testo è coinvolgente, allora la lettura, sia essa diretta o eseguita a voce alta, permette che la scena descritta prenda vita, «o almeno frammenti e dettagli della scena che affiorano dall’indistinto»24.

23 CALVINO, Lezioni americane..., cit., p. 93. 

24 Ibidem.

Di indubbio interesse è la testimonianza della scrittrice e insegnante di lettere Carmela Camodeca, la quale ama raccontare di quando, per calmare la sua nipotina che all’udire le solite favole della buonanotte non accennava a smettere di piangere, presa dalla disperazione, cominciò a declamare il primo canto dell’Inferno dantesco: da quel giorno la bambina volle che la nonna le raccontasse quella storia ogni sera prima di andare a dormire.

Si tratta di un’ulteriore dimostrazione di come la lettura ad alta voce si risolva in un rapporto intimo tra una persona disposta a mettere in gioco la propria interiorità, sottoponendola inevitabilmente al giudizio altrui, e un pubblico (non importa quanto vasto) disposto a farsi traghettare da una voce estranea verso nuovi orizzonti immaginativi.

La Camodeca racconta di essersi pian piano specializzata nella declamazione serale dinanzi al suo specialissimo pubblico e di essersi esercitata nelle più stravaganti modulazioni della voce e nella mimica facciale. La scrittrice aggiunge che la nipotina, in un secondo momento, ha cominciato a domandarle il significato di alcune parole che non conosceva, quali “selva” o “pelago”.

Una sera la nonna mostrò alla nipote il video di Roberto Benigni che legge a viva voce il canto proemiale della Commedia: a differenza della nonna, Benigni non arrestava la sua declamazione al verso 90, perciò da quel momento la bambina pretese che il canto della sera le venisse recitato per intero. La scrittrice racconta con sincero stupore di aver più volte sorpreso la nipote, mentre giocava, a recitare alcuni spezzoni del canto: nonostante le prevedibili e comprensibili storpiature a cui il testo poetico veniva sottoposto dalla piccola declamatrice, sembrava che la bambina recitasse il canto «sempre rispettosa del ritmo e soprattutto delle rime»25.

25 C. CAMODECA, La Divina Commedia a tre anni?, in «La ricerca», Loescher Editore, Torino 1 Luglio 2016.

Nel momento in cui una mente tanto acerba viene colpita con tale intensità da un testo antico è come se si verificasse una folgorazione difficile da comprendere in un primo momento: nel chiedere alla nonna di “raccontarle” il canto, la bimba dimostra ingenuamente di aver percepito, sentendo declamare i versi, che all’interno di essi si sviluppa in effetti una narrazione, un racconto appunto, cogliendo così l’essenza stessa del testo. La bambina ha compreso che nella storia c’è un “io” in pericolo che si è smarrito in un luogo buio e pauroso e che viene ostacolato nel suo cammino da tre belve feroci, finché un “tu” non meglio identificato risponde al grido d’aiuto dell’“io” e viene a salvarlo. Tramite la lettura ad alta voce, la bambina fa esperienza di una serie di istanze e di situazioni totalmente umane che per questo non fa fatica a comprendere e a ricondurre alla sua personale esperienza: quale uomo, adulto o bambino, non sente almeno una volta la paura e non avverte il sollievo proveniente dall’aiuto ricevuto?

Quindi la bambina percepisce anche il tema della corporeità tanto caro a Rondoni: comprende e partecipa della sofferenza fisica del protagonista e se è vero che la capacità impareggiabile di Dante di parlare all’uomo dell’uomo esercita un effetto benefico anche sui lettori più giovani, si comprende l’accorato invito che la professoressa Camodeca rivolge ai suoi lettori: «Fidiamoci della lingua di Dante, lasciamo parlare direttamente la sua
poesia»26.

26 Ibidem.

La Camodeca parte dal presupposto che i bambini non si spaventano all’udire parole che non conoscono, al contrario ciò che è ignoto e inusuale, il più delle volte, li incuriosisce: messi di fronte a un testo poetico diretto e autentico come la Commedia, i bambini, seppur inconsciamente, avvertono l’incisività delle parole, soprattutto se queste sono declamate con forza e trasporto, colgono la forza emotiva del messaggio veicolato da quelle stesse parole e, in ultimo, percepiscono il valore estetico dei versi che stanno ascoltando, anche se non sono ancora in grado di dare loro un’identità strutturale precisa.

Un’altra cosa importante da considerare: per avvicinare ancora di più la nipote al canto, la Camodeca si è servita di un supporto audio-visivo, ma non uno qualunque, bensì di un estratto dello spettacolo Tutto Dante curato e messo in scena da un attore di fama mondiale, Roberto Benigni. Numerosi autori e critici contemporanei hanno applaudito il nobile intento perseguito dall’attore toscano, ossia quello di far risorgere il suo amato Dante dagli abissi della retorica e della filologia nei quali era sprofondato a causa dei programmi scolastici asettici e angusti che hanno sortito l’effetto rovinoso di diffondere tra gli studenti una malcelata diffidenza nei confronti della Divina Commedia, accusata, tra le altre cose, di essere troppo ardua da comprendere. Delle cose difficili quasi nessuno si innamora.

Una cosa è certa: Benigni ha letto, sera dopo sera, i canti della Commedia ad alta voce e così facendo ha dato vita a un evento mediatico senza precedenti, uno spettacolo teatrale trasmesso dalle reti nazionali, caratterizzato da una forte pregnanza culturale e che si è posto l’obiettivo di promuovere la graduale riscoperta della straordinaria attualità della Divina Commedia.

Rondoni ha definito Tutto Dante una risposta concreta alla fame profonda che la gente ha di letteratura, per quanto alcuni scettici abbiano etichettato lo spettacolo come nient’altro che una moda. Benigni stesso ha rivelato di aver nutrito in un primo momento dei dubbi riguardo alla scelta del titolo Tutto Dante, temendo che parole apparentemente altisonanti potessero far diminuire il numero degli spettatori; ma alla fine del tour, l’attore ha ammesso che la parte dello spettacolo intermante dedicata a Dante e, nello specifico, alla lettura, al commento e alla declamazione finale del canto è proprio quella che ha colpito maggiormente il grande pubblico che, nota Benigni, sembra non avere più «nostalgia per la parte comica»27.

27 D. RONDONI, Per lei e per tutti. Appunti su Dante. E sull’amore, Edizioni della
 Meridiana, Firenze 2015, p. 202.

Sarà anche difficile, la Commedia, ma Dante è assolutamente capace di lasciarsi vedere e sentire da chi lo legge o lo ascolta e per questo Benigni benedice la difficoltà insita nel poema, in quanto, come a scuola, il momento in cui lo studente capisce di non saper fare qualcosa è anche quello che gli dà la possibilità di provare, di scoprire il mondo e dunque anche se stesso. «Scopri che sei vivo»28, dice Benigni.

In occasione di un convegno di dantisti tenutosi circa tre anni fa ad Apiro, nelle Marche, il “Dante di Benigni” è stato riconosciuto come un genere letterario a se stante: nel prendere atto della notizia, l’attore si è detto sorpreso e sinceramente grato del fatto che le sue Lecturae Dantis siano diventate persino oggetto di interesse e di studio da parte della compagine culturale contemporanea, la quale, a suo dire, dovrebbe urgentemente cimentarsi nella promozione di una scuola dedicata specificamente alla lettura delle opere dantesche, partendo dal presupposto che il grande interesse che le trasposizioni teatrali della Commedia hanno suscitato in un pubblico tanto vasto e stratificato non è da considerarsi un evento causale, in quanto Dante per primo «non ha fatto nulla a caso»29, ma ha pensato, meditato e studiato con passione ogni singolo aspetto del suo poema, «la dolcezza di certi versi, le pause, i silenzi, gli endecasillabi che a volte vengono trasfigurati e, nella lettura, a volte anche sfigurati»30.

28 RONDONI, Per lei e per tutti..., cit., p. 210. 

29 Benigni al convegno sul ‘suo’ Dante, in «Quotidiano.net», 19 Ottobre 2015.

30 Ibidem.

Accostandosi alla lettura dei canti, Benigni si propone di accompagnare e travolgere nel testo gli spettatori, i quali forse per la prima volta guardano al poema con occhi nuovi e diventano protagonisti di un’esperienza sensoriale a tuttotondo: il linguaggio teatrale, così diretto e vivo, permette a chi si lascia coinvolgere in esso di inoltrarsi concretamente nel fetore infernale, di vedere con i propri occhi come «il male viene preso tra le braccia e portato di peso, così che appaia meno violento di quello che è»31.

31 G. MEREGHETTI, TUTTODANTE/ La pietà di Benigni “distrugge” l’Inferno di
 Dante, in «ilsussidiario.net», 4 aprile 2013.

Dopo aver letto il canto senza dilungarsi in futili digressioni che appesantiscono il testo, Benigni passa a recitarlo tutto d’un fiato, facendo dono al pubblico di un «Dante semplicissimo e drammatico, a portata di mano e immenso come il cielo»32.

32 V. CAPASA, TUTTODANTE/ Così Benigni trasforma l’esperienza in poesia, in
 «ilsussidiario.net», 14 Marzo 2013.

Lascia agli spettatori l’ultima parola sul testo, chiedendo loro di prestare attenzione solo a una cosa: a quella scintilla di interesse che, dapprima fioca, suggerisce al cuore di ciascuno che qualcosa di nuovo sta accadendo; un nuovo desiderio di conoscenza sta prendendo forma.

Per fare un esempio concreto delle interessanti risorse formative alla base delle Lecturae Dantis di Benigni e per far quadrare il cerchio di questo scritto, si fa riferimento al V canto dell’Inferno: ponendo l’accento sulla straordinaria umanità di Dante personaggio e di tutto ciò che la Commedia racconta, Benigni opera dapprima una necessaria contestualizzazione storica dei protagonisti del canto per poi soffermarsi sul sentimento di pietà, quasi vietato all’Inferno, che coinvolge e sconvolge Dante quando si trova di fronte a una verità amara e incommensurabile.

Paolo e Francesca si amavano e questo li ha condannati per l’eternità: Francesca prende la parola, protegge il suo amore per Paolo, ne difende il giusto valore contro tutto e tutti, persino contro la giustizia divina. Francesca che leggeva ad alta voce di Lancillotto e del bacio proibito dato a Ginevra. Una tale umanità e una tale passione, raccontati con partecipata commozione, non potrebbero lasciare indifferenti nemmeno i cuori più aridi.

Una lettura del genere può cambiare la vita; può fare innamorare o ridestare un interesse sopito; può far cedere, sottomettere la ragione al talento, condannare a una grama punizione. Questo vale per Benigni con Dante, così come per Francesca con il suo romanzo d’amore. Se tutto questo è vero e se è vero che compito principe della scuola è quello di preparare alla vita fuori da quelle mura, allora diventa questione assai urgente approntare una metodologia didattica improntata alla promozione dell’autentica e diretta bellezza di un testo letterario come la Divina Commedia, per far vibrare così le corde dell’anima dei più giovani, non ancora sfregiati dagli orrori del mondo, né segnati dall’ipocrisia che diventa troppo spesso una costante dell’età adulta.

Il rischio è quello di incorrere in un cambiamento radicale di prospettiva. Ma senza cambiamento finiremmo di meravigliarci della vita. E allora che si legga e che si legga a viva voce per raggiungere anche i cuori più sordi.

Mariasole Di Cosmo