In quanti delle generazioni presenti e passate hanno tentato di dare un nome a quella sensazione di fugace turbamento e smarrimento improvviso che sprofonda l’animo umano in abissi inesplorati? Essa deriva solitamente dalla presa di coscienza, imprevedibile e rara, della condizione di irreparabile caducità dei viventi di fronte all’immensità del tutto e alla rivelazione di un senso senza identità.

Tale complessità di sentimenti afferisce convenzionalmente alla dimensione dello stupore, dinanzi alla quale sembra che due sole siano le reazioni possibili che l’essere umano è capace di mettere in atto: l’urlo muto, come quello magistralmente raffigurato da Münch e impresso nella memoria storica contemporanea, forse proprio perché così aderente a una sfera ancora inesplorata dell’umana natura e del reale, oppure il vivere in superficie.

È lecito chiedersi cosa mai significhi questa espressione, cosa comporti per un ordinario cittadino della società globalizzata tenervi fede.
La risposta si trova tra le pagine di un piccolo compendio dal titolo potente, pubblicato direttamente in edizione tascabile, come se gli autori desiderassero farne un vademecum che tutti, proprio tutti, avrebbero potuto portare con sé: Ogni cosa risplende1 è la coraggiosa disamina condotta da due filosofi contemporanei, gli americani Hubert Dreyfus e Sean Dorrance Kelly, attraverso il mondo dei classici, tanto arduo da comprendere quanto rischioso da esplorare nel tentativo di offrirne una prospettiva inedita.

H. DREYFUS, S. D. KELLY, Ogni cosa risplende.
I classici e il senso dell’esistenza,
Einaudi 2012

I due studiosi, dunque, intraprendono una queste indietro nel tempo, indagando tutti quegli autori e le rispettive opere che non solo costituiscono le radici del substrato culturale occidentale, ma che soprattutto hanno contribuito alla formazione di un’identità civile nella quale, anche a distanza di secoli, è davvero possibile riconoscersi: si tratta di Omero e dei padri della tragedia greca, dei filosofi cristiani e di Dante Alighieri, dei pensatori illuministi fino a giungere a David Foster Wallace, che figura come uno degli ultimi baluardi dello straniamento letterario.

Lo scopo dell’indagine è quello di provare a definire quale sia la risposta dei contemporanei alla perenne ricerca di senso connaturata all’uomo come animale razionale per eccellenza e il punto di partenza è costituito da una nota affermazione di Heidegger il quale, commentando il poeta tedesco Hölderlin, sostiene: «Solo a momenti l’uomo fa esperienza di una pienezza divina, dopo la vita è sogno di essi»2 ; in sintesi, l’essere umano, talvolta, può partecipare pienamente dello stato di grazia derivante da un’improvvisa rivelazione di senso, ma tale illuminazione si manifesta solo per un breve e fugace momento e, per sua natura, non può perdurare, se non nella memoria dell’esperienza miracolosa.

Dreyfus e Kelly si dicono convinti del fatto che gli autori di cui sopra abbiano sperimentato lo stato di grazia conseguente a un’illuminazione epifanica e che, nei loro rispettivi scritti, abbiano dato compiuta testimonianza della scelta di vivere in superficie.
Naturalmente il contesto storico di riferimento contribuisce a modificare sensibilmente le dinamiche entro cui il concetto di vivere in superficie si dispiega, in quanto quel significato ultimo e inafferrabile delle cose a cui lo spirito umano anela è destinato a mutare così come la sensibilità storica e civile si trasforma; perciò a Omero viene riconosciuto il merito di aver vissuto in totale sintonia con la propria epoca, al punto che ha dato vita a temi, personaggi e luoghi che rispecchiano perfettamente il timore, nutrito dai suoi concittadini, che gli dei intervenissero a sconvolgere i precari equilibri del mondo conosciuto, così come la fede nella Τύχη, che di certo avrebbe salvaguardato il trionfo degli uomini virtuosi e avrebbe garantito la prosperità delle poleis osservanti; Dante, dal canto suo, perviene durante il viaggio oltremondano a una progressiva rivelazione di senso che, agli occhi di un uomo del medioevo, è certamente da identificarsi con Dio, il Sommo Bene, fonte di piena e appagante beatitudine.

Nel caso di Dante, Dreyfus e Kelly corrono un rischio considerevole, sostenendo una linea di analisi testuale del tutto inedita che si incentra sulla cosiddetta poetica del desiderio: ciò che realizza l’ideale di vivere in superficie nella Divina Commedia è il libero arbitrio, più precisamente la scelta consapevole di dirigere i propri desideri all’amore divino, l’unico in grado di colmare le mancanze umane e di osteggiare il continuo richiamo al nichilismo.

Ma Omero e Dante, per quanto impegnati entrambi nella ricerca del senso ultimo e della verità, non possono offrire un ritratto convincente dell’uomo contemporaneo che ha toccato con mano, per un breve momento, la pienezza della vita in superficie. Il nodo della questione si risolve nella figura di Ismaele, voce narrante del Moby Dick di Melville. «Chiamatemi Ismaele»3 è l’incipit del romanzo dal quale, secondo gli autori, si sprigiona il più autentico senso del male che la letteratura contemporanea abbia mai contemplato, un male che assume i tratti di un atto scabroso, più che dell’avventura per mare4.

E a compiere questo atto è il capitano Achab, «cacciatore di balene fanatico»5, l’antieroe necessario più alla consacrazione del personaggio di Ismaele, che ai fini dell’intreccio. Il capitano ha infatti votato la propria intera esistenza alla ricerca spasmodica e insensata della famigerata Balena Bianca, che mai si mostra. Essa non è che un mistero velato di ombre, il cui senso resta inafferrabile, come accade alla più potente delle divinità, la cui natura metafisica è al di sopra dell’umana comprensione e troppo complessa per essere imbrigliata nelle redini del linguaggio comune.

Nulla di sorprendente se si pensa che tema centrale della cantica del Paradiso è l’ineffabilità della natura divina e con essa i limiti strutturali del linguaggio umano che si manifestano nel tentativo di raccontarne le fattezze. Al polo opposto c’è Ismaele, «personaggio lunatico e socievole»6, deciso a seguire l’istinto di viaggiare per mare per non soccombere alla malinconia che gli circola nel sangue.

In una lettera a Hawthorne (dedicatario del romanzo), Melville descrisse Ismaele come un personaggio mutevole, il cui spirito è capace di toccare altezze vertiginose e, un momento dopo, di inabissarsi nelle torbide e insondate profondità marine. Proprio per la sua innata capacità di adattare corpo e spirito a un continuo cambiamento, Ismaele è l’unico personaggio del romanzo in grado di cogliere «le magnanimità divine», le quali – scrive Melville – «sono spontanee e istantanee»7.

Dunque, la rivelazione di senso per Melville è permeata di divino e muta continuamente; perciò solo chi cambia con essa sarà in grado di farne esperienza. Achab è allegoria dell’uomo contemporaneo destinato a inabissarsi perché deciso a inseguire un desiderio inappagabile, mentre Ismaele è il poeta, l’intellettuale, colui che ha il coraggio di dare una svolta considerevole alla propria esistenza: «[…] mi sono reso conto che in tutti i casi l’uomo finisce con l’abbassare o se non altro trasferire il suo concetto della felicità attingibile, […]»8.

Ad Achab una vita in superficie non basta, egli vuole disperatamente scoprire il segreto della balena e, attraverso di esso, pervenire alla certezza ultima dell’esistenza. Il capitano è determinato a raggiungere il suo grandioso obiettivo anche a costo della propria vita e questo suscita un senso di profonda ammirazione nei due autori; tuttavia, è Ismaele ad aver capito che il mistero che la Balena Bianca rappresenta non è appannaggio dell’essere umano, per cui esso non potrà per sua natura appagare alcun desiderio di beatitudine.

Ismaele, infatti, non solo sopravvive alla rovinosa avventura, ma si rivela depositario di uno straordinario senso di appagamento, derivante da «questa capacità di vivere in superficie, di dare agli avvenimenti della vita quotidiana il significato che offrono sul momento, invece di cercarvi uno scopo recondito, di trovare gioia e felicità in ciò che già esiste […]»9.

Ismaele è, dunque, l’uomo che ha fatto esperienza di un’intima rivelazione e che perciò ha potuto comprendere la portata dell’errore fatale di Achab, alla ricerca dell’impossibile: egli sa che la vita quotidiana e gli stati emotivi più semplici ad essa correlati costituiscono tutto ciò che procura agli esseri umani una gioia tale da poter arrestare il senso di malinconia, di smarrimento e di annullamento di sé che sono gli agenti più pericolosi e mortiferi della società odierna.

Vivere in superficie significa, inoltre, avere contezza delle contraddizioni della vita come qualcosa di ordinario, anche laddove sfuggano a un’immediata comprensione, nella consapevolezza che, non per questo, esse impediscono il raggiungimento della beatitudine anelata.

Sussiste, tuttavia, un problema irrisolto, in quanto l’audace excursus condotto da Dreyfus e Kelly non contempla quella che, alla luce delle ultime considerazioni, si erge come un’assenza assordante e scomoda.
Perché, se esiste una voce della letteratura che ha colto appieno le contraddizioni dell’esistenza, una penna che ha raccontato l’istantaneità delle magnanimità divine in versi brevi e indelebili, questo e molto altro è Giuseppe Ungaretti. Prestando attenzione all’evoluzione di quella che opportunamente Luigi Paglia definisce «poetica della parola»10, è facile pervenire alla conclusione che Vita d’un uomo11 non è solo una raccolta di poesie, saggi e traduzioni, ma è più compiutamente la dimostrazione che l’ispirazione poetica che travolse Ungaretti, così intimamente legata alla sua personale vicenda biografica, è permeata di un intenso senso dello stupore che spalanca l’orizzonte fantastico sul quale il poeta si affaccerà per l’intera durata della vita e dell’attività letteraria.

Prima di provare a rispondere al quesito cardine di questa indagine, e cioè se Giuseppe Ungaretti abbia anch’egli partecipato della rivelazione istantanea delle magnanimità divine e se abbia, successivamente, colto il segreto che si cela dietro la scelta di vivere in superficie, è necessario approfondire le sfumature che il concetto di stupore assume nella poesia ungarettiana e soprattutto cercare di scoprire da dove esso provenga.

Il poeta interviene a chiarire in prima persona la questione della provenienza di un sentimento quasi onirico, sostenendo che la fonte del senso di meraviglia che colpisce prima gli occhi e poi l’anima del poeta risiede in una figura di donna, in carne e ossa: si tratta di Dunja, la balia dalmata accolta dalla madre del poeta in casa loro, dopo la morte del padre di Giuseppe, nel 1890.

«Lo stupore che ci raggiunge dai sogni, m’insegnò lei a indovinarlo»12: insomma, è grazie agli «occhioni notturni»13 di Dunja, spalancati dalla sorpresa su una realtà in continua trasformazione, che il poeta fa la sua prima vitale esperienza delle meraviglie che si celano nelle pieghe dell’universo e che rivelano il proprio significato ultimo solo in un momentaneo baluginio, che va semplicemente colto, non necessariamente compreso.

Alcune liriche de L’Allegria tracciano il profilo di un uomo desideroso di lasciarsi illuminare dall’epifania dell’universo e, se così non fosse, Mario Luzi non avrebbe parlato dei versi spezzati di Ungaretti come di una vibrazione in grado di fare da ali alle parole e ai suoni.

È Ungaretti stesso a sostenere, in poche righe dal sapore squisitamente autobiografico, di essere stato un uomo di guerra, incapace dunque di lasciarsi tormentare dall’idea di uccidere o di restare ucciso sul campo di battaglia, ma proprio per questo di non volere «altro per sé se non i rapporti con l’assoluto»14.

Tra le liriche che cantano della vita in superficie di Ungaretti spicca Casa Mia, della sezione Ultime de L’Allegria: «Sorpresa»15, recita il verso incipitario e subito accade come se il cuore del poeta fosse preso da un’improvvisa e violenta combustione, nel momento in cui egli realizza, quasi schiacciato dallo stupore, di aver commesso un imperdonabile errore di valutazione nel credere che il tempo potesse mutare anche di poco l’amore per il luogo in cui si è sentito al riparo dai mali del mondo.

Ora che il poeta è consapevole dell’esistenza delle magnanimità divine, del fatto che esse si rivelino improvvisamente a chi desidera stupirsene senza la pretesa di apporvi un sigillo di proprietà, è necessario capire in quale misura Ungaretti sia stato in grado di vivere in superficie.
Il trittico costituito dalle liriche Mattina, Solitudine e Dormire è in un certo senso illuminante a riguardo, in quanto l’intuizione improvvisa e temporanea di una presenza, di una verità recondita, dà vita a un’immagine violenta che si fa veicolo di infinito, che si dilata nello spazio miracoloso di un momento.

L’esaltazione mistica dell’universo che si rivela nello slancio impetuoso di Mattina si raggela nell’urlo muto di Solitudine, paragonato puntualmente al fulmine, in quanto esso, pur non facendo rumore, squarcia il cielo in tempesta e sprofonda l’animo umano nell’inquietudine derivante dalla consapevolezza che un essere fragile può restare schiacciato dall’infinito. Dormire, invece, rappresenta un momento di transizione, la placida quiete nella quale lo spirito sconvolto dalle magnanimità può trovare ristoro, come un paese ricoperto dal manto di neve che ovatta i passi pesanti dei suoi abitanti, assumendo le sembianze di una sorta di città fantasma.

Parlando in prima persona, l’io lirico avvalora l’autenticità delle sensazioni descritte e contribuisce a rendere ancor più evidente il movimento trasversale dell’immensità che tutto coinvolge, ma di cui solo chi vive in superficie è pienamente consapevole. La questione nodale che si pone dinanzi a Ungaretti sembra essere la difficoltà di comunicare la propria esperienza: l’io lirico si è mostrato capace di cogliere le magnanimità divine, in quanto destinatario dell’illuminazione, ma nutre ancora la necessità profonda di rivelare al mondo le sensazioni sperimentate e un desiderio simile lo conduce inevitabilmente a scontrarsi con il trauma dell’ineffabilità dei misteri universali, tema portante di alcune delle liriche ungarettiane più iconiche.

Ne Il porto sepolto, ad esempio, il poeta ci pone innanzi un viaggio mistico, più simile forse a un rituale di iniziazione, nel quale l’io lirico scorge il rivelarsi sfuggente delle magnanimità e, non appena egli tenta maldestramente di afferrarle, ecco che ciò che gli resta è la poesia, l’unico strumento appannaggio dell’uomo per poter evocare la presenza dell’infinito, senza tuttavia poterlo esprimere compiutamente: quello dell’ineffabilità, dell’impotenza della parola, è uno dei traumi che storicamente affligge la natura umana e il poeta gli rende assoluta giustizia, servendosi della celebre immagine ossimorica che identifica l’infinito e i segreti che custodisce come «quel nulla/d’inesauribile segreto».

Il nulla, inoltre, non ha alcuna connotazione negativa, al contrario, come sostiene Matteo Gilebbi, la contraddizione insita nella «pienezza del nulla»16 perviene alla maturazione di un concetto poetico inedito, ossia il nulla cosmico eterno, ineffabile e pieno di vita proprio perché afferente alla sfera più profonda e insondata dell’animo umano, nella quale dal silenzio e dal placido torpore germoglia miracolosamente l’intuizione poetica.

Gilebbi, in particolare, indaga le Poesie disperse e Altre poesie ritrovate, nelle quali il tema portante dell’ineffabilità afferisce a tutte quelle dimensioni dell’essere e del reale che non possono essere afferrate dal linguaggio umano, neanche da quello poetico, nonostante Ungaretti creda che proprio alla poesia spetti in realtà «decifrarne il segreto»17. Tra le liriche disperse ne compare una che fa da manifesto al dramma dell’ineffabilità e che reca, presumibilmente non a caso, il titolo Poesia18:

I Giorni e le Notti
suonano
in questi miei nervi d’arpa
Vivo
di questa gioia malata
d’universo
e soffro
per non saperla accendere
nelle mie parole

A questo punto è possibile evidenziare le prime note stridenti della relazione tra l’io lirico di Ungaretti e Ismaele: il poeta è ancora lontano dal realizzare pienamente l’ideale del vivere in superficie, in quanto, a differenza del marinaio, sembra convinto che sia sua premura comunicare al mondo la propria scoperta.
Tuttavia l’“inesauribile segreto”, per definizione, può essere solo scorto ma non detto, intuito ma mai rivelato. È questa l’unica svolta che Ungaretti non ha ancora il coraggio di compiere: il poeta è ancora restio ad accettare la condizione temporanea e la natura indicibile dell’infinito, al punto che la gioia di averne intuito l’esistenza è corrosa dalla malattia e dalla sofferenza atroce derivante, ancora una volta, dall’impotenza delle parole conosciute, inadatte a rivelare le dinamiche entro cui l’infinito si espande.

Ismaele, invece, è pienamente partecipe di quella gioia non detta: ha compreso che la beatitudine di vivere in superficie prescinde dalla necessità di spiegarne il fascino ad altri. Per godere completamente di tale beatitudine, l’essere umano necessita, inoltre, di essere presente a se stesso in ogni momento; in caso contrario, rischierebbe di lasciarsi travolgere da un turbinio di emozioni smisurate e deleterie.

È ciò che accade ne La notte bella (1916) e in Godimento (1917): nella prima lirica la proiezione dell’immenso si mette in dialogo con il cielo e in stretta comunione con la natura circostante, al punto che il desiderio della superficie permette al poeta di riemergere dallo stagno buio in cui rischiava di affogare, fino a che la luce cristallina delle stelle, ancor più apprezzabile proprio perché esaltata dall’oscurità dell’universo, non lo richiama alla vita. Ancora una volta le magnanimità divine si mostrano e il poeta permette loro di stravolgerlo fino a esclamare: «ora sono ubriaco/d’universo».

La simbiosi con l’universo degenera in quella che Glauco Cambon definisce una «violenta appropriazione dell’Essere»19 e accade che lo stato di ebbrezza lasci il posto al delirio febbrile protagonista di Godimento, lirica appartenente alla sezione de L’Allegria intitolata Naufragi: la febbre iniziale che assale il poeta potrebbe costituire la reazione appassionata e sublime dell’io lirico di fronte all’istantanea e piena illuminazione.

Il poeta, però, cade preda del suo stesso desiderio, quando dichiara di voler godere del dolce frutto derivante dalla comunione con il segreto che istantaneamente si rivela, ancora una volta mostrandosi incapace di domarne il potente flusso. E mentre Ismaele si dimostra in grado di vivere in superficie momento per momento, senza attendere in stato angoscioso la prossima rivelazione di senso, Ungaretti non riesce a liberarsi della prospettiva di un futuro che non potrà controllare: egli sa che, calata la notte, il sapore amaro del rimorso non tarderà a far sentire il suo fiele e che non è detto che l’illuminazione, una volta trascorsa, si palesi nuovamente.

Ciò che è necessario intuire è che la dimensione dell’infinito non è alcunché di astratto o estraneo alla natura umana, che invece ne è strutturalmente attratta e che, secondo Dreyfus e Kelly, filosofi delle magnanimità divine, tanto più partecipa della vita in superficie quanto più permette a ogni singola azione quotidiana di acquistare un significato appagante: ecco spiegato il motivo per cui la colazione al mattino dovrebbe divenire un rituale sacro, durante il quale osservare, sperimentare e infine scoprire come le piccole cose riescano a procurare un piacere tanto inaspettato e coinvolgente.

È proprio questo il perno attorno a cui ruotano le liriche Risvegli (1916) e Sereno (1918), la prima appartenente alla sezione intitolata Il porto sepolto, la seconda alla sezione Girovago.
In Risvegli l’io lirico rischia di smarrire se stesso, finché il ritrovamento di sé, conseguente alla rivelazione di senso, non lo risveglia dolcemente dal suo torpore: di nuovo il poeta viene colto di sorpresa, ma stavolta accade perché l’infinito viene a calarsi in un’atmosfera intima e familiare, nel conforto che avvolge il poeta, appena destatosi «in un bagno/di care cose consuete».

Disperso lo stato di torpore che offusca gli occhi e il pensiero, l’io lirico si risveglia e rinsalda un’armonica relazione con la propria esistenza. È dunque nella capacità di respirare a pieni polmoni la dimensione del quotidiano che il poeta può sperare di vivere in superficie.

Dopo tanta
nebbia
a una
a una
si svelano
le stelle

In Sereno l’epifania si mette in moto attraverso la rivelazione progressiva del cielo stellato: gli astri cominciano a venir fuori dalla coltre di nebbia, uno a uno, in modo che lo stupore possa esplodere in un vero e proprio stravolgimento dell’io lirico che, per la prima volta, non partecipa di una rivelazione istantanea, ma della crescente consapevolezza di essere parte di un ciclo di vita eterno.

L’ombra del futuro si avverte appena nella presa di coscienza di essere, di fronte al dispiegarsi dell’infinito, «immagine/passeggera», in qualche modo destinata a dissolversi.

Ungaretti ha colto le contraddizioni del reale più di quanto abbiano testimoniato altri poeti contemporanei. La sua vita è stata attraversata da sofferenze atroci, dovute alla perdita dei suoi cari, come all’estenuante guerra di trincea. Bisogna forse prestare più attenzione all’intestazione recata dalle liriche de L’Allegria e magari chiedersi come mai Ungaretti tenesse così tanto a far sapere ai suoi lettori dove si trovasse al momento della composizione. Trattandosi nella maggior parte dei casi di zone di guerra, quali Locvizza, Mariano, Versa, è probabile che il poeta volesse lasciare una traccia storica che conferisse veridicità alle sensazioni espresse dai suoi versi spezzati e privi di punteggiatura.

Ma alla luce della breve indagine condotta, forse è possibile pervenire a una conclusione diversa. Scrivendo sul fronte e nominando piccole città rase al suolo, il poeta ci dimostra che, anche circondato dall’orrore, gli è possibile abbandonarsi all’ispirazione poetica la quale, nello spazio di un unico momento, si rivela, prospettandogli una beatitudine inattesa, derivante dalla vita in superficie, emersa finalmente dagli abissi dell’odio. Che sia l’ispirazione poetica stessa la magnanimità divina che investe il poeta? Che sia la fugace speranza di fare ritorno al conforto della quotidianità l’unica risorsa veramente necessaria a vivere in superficie?

Perché le poesie di Ungaretti non figurino nel saggio di Dreyfus e Kelly resta un mistero irrisolto. Tuttavia, forse non è il caso di lasciarsi inabissare da un desiderio di scoperta probabilmente destinato a restare inappagato; meglio, invece, volgere la mente al pensiero che molti altri poeti della contemporaneità hanno cantato, più o meno consapevolmente, della superficie. È ora che qualcuno dia voce a quei canti ancora silenti.

Mariasole De Cosmo


1H. DREYFUS, S. D. KELLY, Ogni cosa risplende. I classici e il senso dell’esistenza, Einaudi editore, Torino 2012.

2DREYFUS, KELLY, Ogni cosa risplende… cit. p. VI.

3H. MELVILLE, Moby Dick, Bur Rizzoli, Milano 2010, cap. I, p. 23.

4DREYFUS, KELLY, Ogni cosa risplende… cit. p. 136.

5Ivi, p. 137

6Ivi, p. 141

7Ivi, p. 143.

8MELVILLE, Moby Dick… cit. p. 551

9DREYFUS, KELLY, Ogni cosa risplende… cit. p. 154

10L. PAGLIA, L’urlo e lo stupore. Lettura di Ungaretti. L’Allegria, in «Quaderni della Nuova Antologia LXIII», Le Monnier, Firenze 2003, p. 2.

11Con questo titolo si fa riferimento alla raccolta delle opere di Ungaretti, la cui pubblicazione fu intrapresa dall’editore Mondadori nel 1942.

12PAGLIA, L’urlo e lo stupore…, cit. p. 5.

13 Ibidem.

14Ivi, p. 81.

15Si cita ora e sempre da G. UNGARETTI, L’Allegria, Einaudi Editore, Torino, p. 10.

16M. GILEBBI, L’ ‘Inesauribile Segreto’ del Nulla in Poesie Disperse e Altre Poesie Ritrovate di Giuseppe Ungaretti.L’Anello che Non Tiene, «Journal of Modern Italian Literature» 2010, vol. 22, p. 61.

17GILEBBI, L’ ‘Inesauribile Segreto’ del Nulla…, cit. p. 68.

18G. UNGARETTI, Poesie disperse, in «Vita d’un uomo» vol. III, Arnoldo Mondadori Editore, Verona 1945.

19G. CAMBON, La poesia di Ungaretti, Einaudi Editore, Torino 1976, p. 29.