Gli sguardi sulle città e il richiamo della natura.

La scrittura di Giuseppina Girasoli è piuttosto complessa, perché molto letteraria, nel senso che si riallaccia alla grande poesia novecentesca italiana, da Quasimodo a Montale, con uso di termini specifici, certamente non quotidiani.

Sia quando scrive di città (Palermo, Matera) che quando si interroga sui destini umani il ‘tono’ resta elevato. Non è mai lingua ‘parlata’, ma lingua colta.

Possiamo forse considerare la Girasoli un’erede poetica di Biagia Marniti, la grande poetessa ruvese di cui è studiosa (anche la Marniti mantenne questa tensione ‘alta’ della poesia). E allo stesso tempo considerare l’itinerario di Giuseppina un ‘viaggio’ nel Sud. Centrale è il senso musicale di questa poesia, il verso sinuoso, soprattutto nei finali, che lasciano al lettore un che di sospeso e di incantato.

Giuseppina Girasoli

È nata a Ruvo di Puglia dove vivo tra un viaggio e l’altro. Ha conseguito la laurea in Scienze dell’Educazione 25 anni fa con la tesi La Biblioteca per Ragazzi, aspetti metodologici, programmatici storici e pedagogici, relatore il professor Daniele Giancane e il Master Universitario in Formazione del Docente Documentarista Bibliotecario con una tesi sulla poesia. Interessanti i due corsi di perfezionamento in Cinema e Storia, direttore il prof. Raffaele Licino con la tesi Il Bene Maligno in Rosmary’s baby di Roman Polanski e quello in Tecniche di Insegnamento della Storia con il Laboratorio di Storia, direttore il prof. Antonio Brusa.

Presidente dell’Associazione Librogirotondo, costituita nel 1997, ha lavorato nelle scuole, biblioteche e manifestazioni culturali con diversi progetti di animazione alla lettura, laboratori di scrittura e costruzione di libri multisensoriali. Due suoi racconti sono stati pubblicati nel 2021 nella antologia Surrealia. «Amo la poesia e la lettura da sempre».

QUANTE MATERA

Tutto di seta il dedalo di stelle
nuvole rosa le chiome rotonde dei mandorli.

Foreste sotterranee
navigano sotto pietre bianche
con occhi vuoti,
rovi pungono ali appena schiuse
e i primi asparagi coraggio ce ne vuole
a crescere e crescere più della prima orchidea viola.

Asfodeli gialli a testa alta a sgualcirsi tutti
in uno scorcio d’azzurro
che marcia
nei funghi neri di fumo
di quattromila grotte di roccia lacera.

E grandine picchia
su ombrelli di buchi
e macerie di giardini.

PER BIAGIA MARNITI

Chiusa soffusa Roma
tra gli ippocastani spogli

pescano plastica
i rami dei platani nel Tevere,
di denso verde torbido,

scorre si increspa per uno sputo dal ponte.

Va verso il mare la testa di una Erinni sola
le palpebre serrate
nel marmo,
gelido il tratto sul bianco.

D’arancio il pelo
del “micillo” di Biagia
trema nel sogno che lo inquieta
e la luna bianca rotea
in un’ala di gabbiano.

Cavalieri di Malta
lasciano solo un foro
nel portone sbarrato:
un bagliore
nell’occhio di chi spia
la cupola di una favola
al tramonto.

Nella cappella 27
del Verano monumentale
i versi delle tue poesie,
cara Biagia,
hanno eco nuova
tra i silenzi impolverati
e le ombre dei cipressi,
illuminano lucerne e vasi di bronzo divelti

ondeggia sul bordo ovale del tuo viso altero
la chiocciolina di Gaia.

MA QUALE PRIMAVERA

Il vento tra i capelli, a primavera,
raggera di tempo sfogliato
non placa questo brivido nel grembo

ruvida carta vetrata gratta la ruggine polverosa
di un grido che è lava e
scuote i nidi delle ghiandaie

scaraventa lontano foglie appena schiuse,
non si placa il massacro
dei narcisi gialli
per le strade
una manciata di gemme
senza api né polline.

RACALMUTO

Racalmuto
un grappolo di case
sotto tralci di persiane chiuse,
fresco silenzio nelle stanze,
vorticano sulle strade i raggi a picco
i campi gialli stridono di sole e di cicale.

Il teatro Regina Margherita è il suo rosso cuore di velluto
un ferro di cavallo di voci e musica,
dal fondale i Vespri Siciliani ascoltano
dimessi e dispersi dopo la battaglia.

Cristalli di salgemma i racconti di Sciascia,
una miniera di zolfo la sua riflessione
limpido e lucido rimane a cent’anni
il suo pensiero.
Per un visionario libero
la morte usò catene leggere,
ma lungo e ironico resta il suo sguardo su di noi,
tutti noi matti
in cerca di autore.

LUNEDI’ DELL’ANGELO

Voglio sfogliarti
come nella nuvola d’aprile si perde
la rondine
lasciarti tutti i petali
tra i capelli
il profumo,
si può ridere insieme
per niente
nel vento
dei coriandoli rosa.

Piovono gocce
di carta
velina di un sogno,
con l’unicorno bianco
ci dissetiamo
alla sua stessa fonte.

Liberi
da focomelici
abbracci,
ti tocco
bianco elleboro,

si disfa
nell’aroma
di caffè
la lunga notte.

PALERMO

Tu sì, tu l’hai vista quanto è larga Palermo,
ocra è ogni tegola e orma, di sabbia si sbriciola
col vento di mare e i fumi del Ballarò.
Nel luglio di fuoco, fuma d’incenso il duomo,
nella coppa con l’aquila d’oro
brilla una fiamma tra le mani di Orlando.

Danzano di marmo i mascheroni e le foglie,
un occhio rosso rubino splende in un ostensorio
e nel cielo di corallo
rotea un piviale
su un teatro di pupi sferraglianti.

La tavola è cunzata
in un bric e brac
del tutto perso dismesso
da buttar via.

Vertigine è camminare lungo i merli,
funamboli sospesi nel vuoto tra le torri,
la Santuzza traslata dal monte Pellegrino,
riposa nell’urna d’argento
e l’imperatore Stupor Mundi
due passi più là giace bardato
nella sua veste rossa di porfido.

Entro nel profumo delle spezie,
un vortice via vai di languori da riempire,
in un intenso ciavuru
fumano stigghiole e cantari d’olio,
un canto s’alza con il fumo,
un coro a più voci
un su e giù di tono e volume
ad abbagnare.
Dalle decorazioni a nucarnas,
in un coppo rigirato intorno al braccio,
allallata mi perdo nel ventre della Vucciria.

MOLLICHE

Briciole di pane raffermo
lasciate a macerare
tra un idillio di cielo ed un bosco spoglio di neve.

Tempo di scarti
nessuno può sfuggire
all’usura del pensiero
logoro ogni grido sordo di voce,
non hanno colore le note del pianto.

Son fogli intonsi i nostri giorni integri:
guarda cosa resta dopo la pioggia
su fili d’erba sotto il sole che si fa goccia di cristallo.

Tornare ogni giorno
a sentirsi terra
dopo il temporale,
vaste distese di cieli
senza fili barricati confini.
Sprofondare sotto il peso dell’urlo che preme
Sulle labbra del pianto.
Ascoltare la voce che si affaccia al mistero.

Si inzuppa di stantio e muffe di miceli brulicano
sull’orlo della menzogna
quando il sibilo del disprezzo
cancella il profumo del pane
in ogni strada pregna di gocce
nell’appena,
appena mattina.

Nocino

Affogo nel mallo a ferragosto,
Chiodo di garofano in una stecca di cannella,
è uno schizzo nero la scorza del limone.

Brucia in un flusso non ancora maturo il nocino,
filtro un liquido nero di seppia
fumo nel cielo di fiamme e Canadair.

Aspetto giorni clementi di foglie fresche
di sabbia intatta sulle dune senza gigli
quando il mare ascolterà la sua onda.

Mare onda divento e danza delle meduse,
sulla battigia le vidi esalavano ruga su ruga,
le umiliate ventose urticanti
bruciano sulla pelle disumane disfatte.

Senza luna

Quando dentro la notte
arde la tua assenza
graffia tinte oscure
perfora il ventre del silenzio.

Batte il fiume del desiderio
contro dighe di ghiaccio,
vaghe vibrazioni estatiche
solo sporadiche incursioni.

Questa notte senza sfere e argentei spicchi,
anni luce le lontananze raschiano il tempo,
il ramo stride sullo specchio,
avrà una ferita il viso del giorno.

Anime pezzentelle

Resta rosso
il silenzio imperlato,
fragile sagoma di un cieco
in una corazza roboante
su cingoli e ruote chiodate.

Resta bianco
un tumulo di Capuzzelle,
anime delle Fontanelle,
sempre grande pezzentelle
alle porte dell’Ade.

Resta il giallo accanto ai Lari sepolti,
nel focolare di macerie
vidi, in orbite azzurre,
splendere canti di calendule.

Daniele Giancane