È giunta fra le mani degli interessati e degli addetti ai lavori, a partire dall’aprile del 2022, l’antologia La poesia delle donne in Puglia, curata da Daniele Giancane per le Edizioni Tabula fati di Chieti, che fanno capo a Marco Solfanelli.

Giancane non è nuovo ad operazioni di questo tipo. Al suo attivo ha il florilegio Poeti della Puglia, allestito con Raffaele Nigro per Forum / Quinta Generazione (Forlì, 1979), e la più corposa crestomazia, ricca di ben 42 autori e autrici, La poesia in Puglia, curata insieme allo scrivente per il repertorio antologico regionale della poesia italiana degli Anni Sessanta – Novanta del Novecento, diretto da Giampaolo Piccari e apparso ugualmente presso Forum / Quinta Generazione (Forlì, 1994).

Allargando lo sguardo al Mezzogiorno continentale, Giancane alcuni anni dopo ha varato l’antologia Vertenza Sud. La poesia nelle regioni dell’Italia meridionale per Besa Editrice (Nardò, 2001), che si avvale dei contributi di sei curatori regionali: Anna Ventura (Abruzzo), Orazio Tanelli (Molise), Marco I. de Santis (Puglia), Daniele Giancane (Basilicata), Antonio Spagnuolo (Campania) e Pino Corbo (Calabria).

AA. VV. Vertenza Sud. La poesia nelle regioni in Puglia, Besa Editrice, Nardò 2021

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Mentre i volumi La poesia in Puglia e Vertenza Sud includono densi ragguagli critici sui diversi percorsi poetici esaminati, il florilegio La poesia delle donne in Puglia, come annuncia Giancane nella presentazione, condensa l’offerta editoriale di “genere” in una «semplice antologia» propositiva, rimandando al futuro un auspicabile «studio critico» di altri «autori e autrici» sulle poetesse antologizzate.

Tenendo conto del boom demografico, antielitario e orizzontale delle presenze poetiche femminili in Puglia e affidandosi ai criteri della «densità estetica», della militanza recenziore e della nascita e residenza regionale, Giancane ha ristretto la campionatura a undici poetesse di diverse generazioni. Si va dalle “veterane” Ada de Judicibus, Elena Diomede e Grazia Stella Elia ad autrici di percorsi più o meno estesi, come Rosalba Fantastico di Kastron, Giulia Poli Disanto, Marta Mizzi e Giulia Notarangelo. Seguono Monica Messa, della generazione intermedia, e le più giovani Teodora Mastrototaro e Mara Venuto, alle quali si affianca l’autrice “emergente” Maria Pia Latorre.

Le poesie scelte sono introdotte da una scheda autoriale corredata da cenni biografici e da una bibliografia critica essenziale. Esulano dall’inclusione sia poetesse pugliesi trapiantate in altre regioni, sia autrici trasferitesi in Puglia, ma originarie della Basilicata, come Anna Santoliquido e Loredana Pietrafesa, da destinare possibilmente a una futura antologia della poesia lucana.

Per il panorama poetico pugliese, affollatissimo e intricato come in altre regioni italiane, il curatore ha dunque preferito proporre un florilegio a maglie strette, ovviamente non nascondendosi i rischi di un’operazione molto selettiva, destinata a creare «inimicizie e contrasti», «dibattito e polemiche», critiche e distinguo, contestazioni teoriche e indicazioni integrative per le assenze più clamorose. Per questo bene ha fatto Giancane, a beneficio degli studiosi e dei curiosi, a riportare nominativamente nella presentazione quattro folti manipoli di valide poetesse viventi, di notevoli autrici scomparse (come Biagia Marniti, per cui ha scritto un’eccellente monografia), di pregevoli scrittrici allontanatesi dalla poesia (come Angela Giannelli) e infine di promettenti esordienti.

AA. VV. La poesia delle donne in Puglia, a cura di Daniele Giancane, Tabula fati 2022

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Non resta ora che indagare rapsodicamente fra i testi della rassegna alfabetica delle undici poetesse antologizzate.

Ada de Judicibus, autrice postmontaliana, si pone non in rottura ma in continuità con la lirica moderna e nei suoi versi, pur vivificati da un’intensa partecipazione morale e civile, emerge luminosamente la poetica degli «istanti puri» della contemplazione.

Di Elena Diomede intriga l’ostinazione di vivere «nella rarefatta attesa / di non so cosa / di non so chi».

Rosalba Fantastico di Kastron scrive sia nel dialetto salicese (di Sàlice Salentino), sia in lingua, abbandonandosi a slanci fortemente sensuali e ribadendo la feconda inutilità dei poeti.

Maria Pia Latorre, se talvolta metabolizza le «sudate carte» leopardiane in «un tesoro di usate cartacce», talatra dispoglia il suo essere, sotto gl’impeti della sofferenza, per aprirsi a più vasti orizzonti: «se mi assale il dolore / mi tolgo di dosso la vita / e sono prato e cielo».

Teodora Mastrototaro, rinunciando all’egocentrismo o suicentrismo della lirica tradizionale, porta in scena la tragica mattanza degli animali da macello: «Esposti i corpi nel banco frigo: / Bollo sanitario, Peso Netto, Specie, Taglio, Lotto. // Nessun animale che sia degno di lutto».

Monica Messa contrappone provocatoriamente agli Ossi di seppia montaliani le sue Seppie ripiene, cogliendo fra l’altro la dimensione urbana anonima della casualità di destini incrociati: «Con le mie forbici / ritaglio cartamodelli di carne / disegnati ripassando / la vita di altra gente. […] Indosso quegli abiti su misura / e sfilo invisibile fra la gente. / Si viaggia comodi / vestiti di anonimato».

Marta Mizzi, auscultando tra i ricordi perduti «il silenzio / del cuore» che si pietrifica, si consegna alla fine a una smemoratezza estraniante e musicale: «Qui un vento fresco è la vita / che ancora si presta, che / ancora è dimentica di / chi va e chi resta». Giulia Notarangelo trapassa dall’inversione di sintagmi leopardiani («Aspettavamo / quell’avvenire / vago / che non c’è stato») a un lapidario frammentismo: «Raccolgo / i pezzi / del mio / girovagare / tra un libro / e l’altro // tra folle / di / parole».

Giulia Poli Disanto descrive con grande efficacia il travaglio della scrittura poetica, «in attesa di quella parola che tutto dice / e tutto inganna // fino a quando si brucia il segreto / e non resta che un flebile respiro // quel rantolo di vita / che alla fine nasce / che alla fine muore».

Grazia Stella Elia è poetessa in lingua e in dialetto, ma nell’antologia in esame è presente solamente con testi in vernacolo trinitapolese. Da diversi lustri conduce un diuturno scavo nel lessico avito “casalino”, pervenendo non solo al monumentale Dizionario del dialetto di Trinitapoli, ma anche al recupero poetico delle parole perdute (Paràule pèrse) e al riscatto della loquela degli antenati (I paràule di tatarànne), nella cui visuale agreste spesso campeggia la musicale vitalità dell’ulivo: «Mòuve i rràdeche de nötte / e caméne mméźźe mméźźe è témbere; / sòune u viuléne d’amòure / ca töne jìnde o trünghe / e cchiöme i cumbàgne / a candè e a rréte (Muove le radici di notte / e cammina in mezzo alle zolle; / suona il violino d’amore / che ha nel suo tronco / e chiama i compagni / a cantare e a ridere)».

In Mara Venuto, infine, si coglie il disagio esistenziale di fronte a una città che parla un idioma ostico e conturbante, dove l’orizzonte si rabbuia, annidando in sé l’innocenza perduta dei fanciulli e discoprendo la polvere arenosa del vivere quotidiano: «La città non mi ha insegnato la sua lingua, / non ho voluto impararla, fa paura / ascoltare il suono dell’abisso, / il buio nella gola che inghiotte. / Quella è la voce della città quando chiama, / la notte è come il giorno, la luce si chiude / alle palpebre, e i bambini tra le mani / chiedono la luna e bevono la vita, / mentre noi siamo sabbia che vorremmo sommersa».

Marco Ignazio de Santis