Mi piace – e credo sia utile, per molti – avvicinarsi concretamente alla poesia di Assunta Finguerra, probabilmente la più grande poetessa lucana di ogni tempo (se togliamo dalla valutazione un mito come Isabella Morra, che però affidò la sua vena lirica a un pugno di poesie e che forse deve la sua fama più alla terribile storia di cui fu vittima che all’originalità dei suoi testi poetici).

È stupefacente notare come in Assunta la poesia sia un percorso di verità e di ‘umoralità’, nel senso che lei sa affrontare, con eguale energia, i toni più diversi, da quello lirico a quello ermetico, da quello sentimentale a quello iroso, sino a quello ‘volgare’ (o presunto tale, perché in poesia – se è vera – non esiste la volgarità, esiste l’autenticità e ciascuno di noi ha certamente -magari raramente – un momento di volgarità o di aggressività.

La poesia è vita (non è, come pensano erroneamente in tanti, solo il ‘bello’ e il romantico o il gioioso della vita) e come la vita prevede qualsiasi sentimento. Il testo Puozze arrabbià (La Vallisa,1999), bilingue italiano e sanfelese, si apre con quattro versi ‘forti’ e amari. Li riporto in italiano:

Spogli e vesti tutta l’umana gente
come gradisci tu, vita puttana,
la metti alle strette e fuori della porta
poi dici: “Non sono io, è malasorte”

Spuoglie e vvieste tutte e crestijane… Quattro versi che sanno di vita vera (diciamo che mi ricordano la poesia di un Salvatore Toma o di Vittoria Pozzi o persino di Villon). Che sono, in apertura di libro, un pugno nello stomaco (altro che i patetici innumerevoli: ho vinto il premio tot, sono stato pubblicato in Pakistan, i gabbiani volano liberi nei cieli azzurri…).

Questa – di Assunta Finiguerra – si presenta subito con una sua ‘poetica’. E la sua poetica è far diventare verità la scrittura, non pura e sola costruzione letteraria. È sorprendere, magari irritare, inveire (ma ovviamente non tutta la sua poesia è così e lo vedremo).

A. FINIGUERRA, Tatemije, Mursia 2010

Acquista il libro al miglior prezzo disponibile

San Fele è il luogo di nascita di Assunta Finiguerra, senza dubbio la più grande poetessa dialettale lucana di tutti i tempi e forse la più grande in assoluto. Da quel pomeriggio d’estate in cui mi lesse due suoi testi dialettali -a casa sua – ne rimasi folgorato. Le dissi: devi scrivere in dialetto, al diavolo l’italiano! E così fece, diventando in pochi anni di una esistenza sfortunata un punto di riferimento obbligato per chi si interessa di poesia lucana e meridionale.

T’accorgi subito quando hai a che fare col demone della poesia (era un’autodidatta e viveva in uno sperduto paese del potentino), ma era l’apparizione della poesia: originalità assoluta del verso, lingua reinterpretata, immagini folli e visionarie, stranianti o irate, al di fuori di ogni itinerario letterario.

Leggete l’epitaffio che lei stessa – morente in un letto d’ospedale – volle che si scolpisse sulla sua lapide; ‘Mi regalarono/un mazzetto di gigli/e i miei occhi/prosciugarono i campi’.

Straordinario: ‘I miei occhi prosciugarono i campi’. Li videro quasi da un’altra dimensione ,come solo i veri poeti sanno vedere. Li esaurirono nella loro verità. Posso aver fatto poco o nulla nel mio iter letterario, ma poco m’importa: ho incrociato tre o quattro volte la poesia-divinità e qualche volta le ho agevolato il percorso.

Assunta Finiguerra (da Puozze arrabbià in poi) è stata – nella sua semplicità e quasi nell’inconsapevolezza – una grande poetessa. Una visita al cimitero, per incontrarla, la faccio sempre quando vado (spesso) nella mia (anche) amata San Fele.

Poesia inquietante

S’è già detto che possiamo catalogare la produzione letteraria di Assunta Finiguerra da San Fele (PZ), luogo di cascate e di boschi, di silenzi sovrumani e di sciami di lucciole che tornano ogni anno all’inizio dell’estate e nevi che a volte arrivano alla cima dei portoni di casa – come grande poesia, del genere (a larghe maglie) della poesia ‘confessionale’ americana, quella di Sylvia Plath e di Anne Sexton.

La poesia della Finiguerra pare non filtrata dalla ‘letterarietà’, ma non bisogna esagerare: mostra invece una ‘sapienza’ letteraria raffinata. Come s’è ripetutamente affermato, l’arte è lì dove non sembra più arte, ma vita. Anzi: dove arte e vita si identificano.

La poesia di Assunta si slarga – e sempre con originalità davvero rara – a tanti sentimenti. Uno, fondamentale, è l’amore-odio verso la propria terra ed anche verso il proprio paese. Il poeta vero – come in questo caso – non esalta indiscriminatamente (come fanno Arminio e suoi seguaci) il suo luogo di nascita, il paese. Non ne fa un mito (o lo fa in modo alternativo), ne avverte la luminosità e i segreti, le cattiverie e i pettegolezzi, l’aria dei boschi e a volte la ristrettezza nei pensieri. Dentro un paese ci sono mille segreti inconfessabili e mille bellezze, grande è colui (colei) che sa tenere in piedi questa visione copmplessiva. Eppure, nonostante il sentirsi racchiusa in un luogo isolato, la Finiguerra grida la sua appartenenza, le sue radici. Radici povere, ma che hanno dato vita a lei, al suo carattere indomito:

Sono cafona e figlia di cafoni
m’inorgoglisce il sangue che mi campa
fiume di ira, vespro e terra santa
tenero baccello di pensiero

Stupefacente brevissimo testo in cui la poetessa fa in quattro versi un ritratto di se stessa, senza indulgere a sciocchezze o autoesaltazioni (tanti poeti ‘in progress’ che leggono questa pagina dovrebbero prendere lezioni da lei).

Assunta Finiguerra

Io sono orgogliosa di essere cafona e figlia di cafoni. Sono fiera della mia misera identità. «Il sangue che mi campa» è un’immagine straordinaria: il sangue che mi fa vivere sarebbe stato banale, ma «il sangue che mi campa» è musicale, ritmico e dà del sangue l’immagine di una sorta di ‘padrone’ del nostro corpo. E io sono (dice di sé) «fiume di ira, vespro e terra santa»: sono aspra, ma anche tramonto (tenerezza) e c’è anche qualcosa di sacro, in me. E in tutto questo, riconosco in me la forza del pensiero.

Tenera come un baccello (e come si fa a ideare una metafora del genere? Ci vuole genio). E tutto questo, racchiuso in quattro versi di una poetessa montanara della Basilicata, brava a cucire vestiti (era una sarta) e a cucinare fusilli, anche a dipingere (ho un suo quadro in casa) e a seguire con amore il marito non vedente.

A. FINIGUERRA, U vizzje a morte, a cura di R. Pagan e R.Zoppi, Edizioni Cofine 2016

Acquista il testo al miglior prezzo disponibile

Una donna senza formazione letteraria ‘regolare’ (avrà studiato per conto suo), ma con dentro il ‘miracolo’ della parola poetica. Sì, la poesia di Assunta Finiguerra è un miracolo.

Una grande poesia

Abbiamo già rilevato come la produzione poetica di Assunta Finiguerra spazi da un tono all’altro, con eguale intensità: colpisce maggiormente – forse -laddove la sua parola ci giunge come un pugno nello stomaco, violenta e diretta, come nelle invettive («Ti possa venir la cacarella…»), ma ci affascina anche nelle aperture liriche, come nel seguente testo:

E’ una finezza l’aria che respiriamo
nel paese quando la luna è gialla,
spettinata e ancora col pigiama
disputa una partita con le stelle.

Poi si ordina ed io le porto il conto
di tutti gli specchi che si tiene in mano,
quando s’accorge che la fisso troppo in fronte
tra le nubi si nasconde piano piano

Qui il ritmo – quasi da filastrocca e le continue assonanze (gialla/stelle,) e rime (mano-piano) – si incontrano con un attacco quasi fiabesco (l’aria fina, la luna in pigiama), ma poi entriamo in un’altra dimensione: la luna ha in mano tanti specchi (le nostre vite?), io la guardo ‘troppo in fronte’ (indago i suoi progetti, a volte malefici per tanti di noi umani) e lei se ne accorge, vistasi scoperta si nasconde. Quindi apparentemente la luna è una visione romantica, in realtà nasconde mille (e spesso dolorosi) progetti (interpreto: forse allude alle persone che quel giorno in cui si alza la luna, tanti moriranno, soffriranno, malediranno di essere nati). Chi ha mai pensato alla luna – regno pseudopoetico di tanti poeti da spiaggia, in questo modo?Questa è la genialità: un pensiero ‘diverso’, una nuova interpretazione del reale.

Se da una parte la poesia di Assunta Finiguerra da San Fele si risolve nell’invettiva, nella maledizione, nel rapporto contrastato con Dio, nella malasorte, nell’inquietudine del vivere, dall’altra il suo sguardo sulla natura è spesso tenero.

Così è per gli animali, che soffrono – proprio come noi umani. La poesia che segue è dedicata alla sofferenza di un asino: l’asino sente su di sé il peso del mondo e sogna la morte. Eppure, finché vita avrà, darà fastidio al sole. Non si fa fatica a paragonare i sentimenti dell’asino con quelli della poetessa. Qui non c’è la dolcezza di Platero y yo di Juan Ramon Jimenez, ma sempre una drammatica inaderenza alla vita.

Piange, e come piange il ciuccio!
Pure se ci sono le margherite
e sbocciano il mese della Signora
Il mese delle rose,
sono sempre fiori di ciuccio.
Per questo nessuno conosce il suo dolore
quando sogna la morte
e la vede bella come una stella,
come una cometa.
Ma la paura lo fiacca
“Facesse presto giorno – dice –
per respirare ancora
e dar fastidio al sole”.

La poesia come maledizione

La poesia può mai essere definita volgare? Intendo la poesia di grande spessore, ovviamente, non le carabattole di tanti autorucoli. La mia risposta è: no. In poesia la volgarità non esiste.

Quella che nel linguaggio quotidiano è (o potrebbe essere) una volgarità, in poesia assume sempre un carattere metaforico, simbolico o è comunque legata a una forte esperienza di vita (Ricordiamo le parole di Richards: la poesia è l’espressione di una forte esperienza di vita, reale o mentale).

Insomma, la poesia (vera) è sempre un viaggio, fatto di tanti momenti e sentimenti. Quando Assunta scrive – scandalizzando molti -: «Piscerò sulla tua tomba, amore mio», a me pare un verso di grande intensità, perché impostato su due opposti: ’piscerò sulla tua tomba’ è certamente un’immagine di disprezzo verso qualcuno che le ha procurato del male. Ma subito dopo c’è ‘amore mio’. È ironico? È una storia iniziata con l’amore e finita nel disprezzo? Non lo sapremo mai, ma non importa: è il cozzo dei sentimenti che ci intriga. È l’istintualità irrefrenabile della Finiguerra, che non ha confini (così come avviene nei grandi poeti, che se ne impippano dei lettori benpensanti). Così in un altro testo scrive:

Ti possa venir la cacarella
T’abortisse la pancia a vermicelli,
ti crepasse il cuore e pure il culo
come una pignatta di fagioli…
i cacciatori con lo schioppo in mano
dovrebbero spararti sotto un pero

Anche questa poesia-invettiva è straordinaria: è una maledizione aspra, un rigurgito di odio che ci scuote, perché scrive in un altro testo : «Io non sono Cristo che perdona / settanta volte sette io maledico».

È poesia che ci destabilizza? Che ci fa star male? Che contraddice alla nostra idea di poesia come raffinato lirismo che ci deve elevare? Questa poesia invece ci fustiga e intristisce. Ci scaraventa nelle viscere della terra, quasi a contatto col demonico. Ci offre amaro e formule di maledizione, una sorta di anti-Vangelo. Gesù dice di perdonare settanta volte sette, Assunta scrive il contrario. Forse la sua è una strenua lotta contro la malasorte, contro Dio stesso. Ma certo è che è una poesia che ci fa sobbalzare dalla sedia.

La poesia nasce dalla sofferenza?

Potrei continuare a lungo a postare versi di Assunta Finiguerra (trovate alcuni libri su Amazon), ma credo che abbiamo centrato – al di là della straordinaria sagacia linguistica e la potenza delle metafore – un punto fondamentale: è una poesia che nasce – in gran parte – dalla sofferenza.

C’è in lei un inestinguibile male di vivere e un rifiuto di un Dio ‘buono’. Con lei Dio è stato cattivo e le ha assegnato la ‘malasorte’. Ora, andare ad indagare nei dati biografici è anche possibile; per esempio il suo pessimo rapporto con gli uomini: «Gli uomini per me sono stati chiodi…» (L’uommene pe mme so state chiouve…) e principalmente col padre (ho un’ipotesi molto concreta, ma mi pare evidente: lei odiava il padre), ma è certo che sta in vita ‘per condanna’.

E allora chiediamoci (è un’antica domanda, lo so): la grande, autentica poesia, nasce dalla sofferenza? Chi non prova davvero la sofferenza (di vario genere, naturalmente) non può scrivere davvero con grande intensità?Perlomeno nella poesia moderna credo che sia così: tranne pochi casi, la grande poesia spesso nasce dal dolore di vivere – da Leopardi a Foscolo, dalla Plath alla Sexton, dalla Rosselli alla Pozzi. E d’altra parte, direi che è ovvio: provare la sofferenza vuol dire comprendere più a fondo la vita, scendere negli abissi del male. Se no, restiamo in una dimensione edulcorata: la vita è bella, eccetera.

Certo che è bella, ma è anche orrenda. Esiste il piacere, ma esiste anche il dolore. I grandi poeti sanno approfondire anche questa parte ‘in ombra’ – che non vogliamo analizzare, a cui preferiamo non pensare. Meglio scrivere solo di cose belle e gioiose. Ma la vita è ben altro e a volte è davvero ‘malasorte’. Inferno.

Il tocco magico del genio

La domanda di fondo – e concludiamo in questo modo il nostro breve excursus sulla poetessa Assunta Finiguerra – resta però inevasa, perché la risposta è assai difficile. Forse impossibile. Come fa una persona nata e vissuta in un paese quasi sperduto (e all’epoca della gioventù di Assunta era davvero un borgo isolato e quasi irraggiungibile se non attraverso una strada sconnessa di quasi cento tornanti), un luogo che è stato la tana del brigantaggio lucano dell’0ttocento, rinchiuso nelle sue irremovibili tradizioni, nella sua visione etica e schematica, piena di pregiudizi e di mentalità magica… come fa una persona nata in povertà, preclusa ad ogni formazione scolastica e culturale, che già considerava un salto di qualità fare la sarta e sposare un professore (non vedente)… come fa una persona così a dar luogo ad una poesia tanto potente? Una poesia che scardina usi, costumi, morale del luogo in cui vive? Come fa a dar vita a metafore impressionanti, ad un linguaggio così originale, al desiderio di ‘mettere in piazza’ se stessa, con tutta la forza strafottente («al mio funerale diranno: oggi è morta una donna anormale… nelle pupille aveva l’inferno / vi si vedeva l’anima dannata») della sua personalità?

E chi le ha fatto balenare l’idea che tutto questo poteva farlo con la poesia?Siamo davanti a un mistero. Giuseppe Ungaretti dice che ogni vera poesia nasconde un segreto, ma qui il segreto è la stessa poetessa: un Dio o un demone deve averla toccata in fronte.

Daniele Giancane