Agim Mato (si pronuncia Aghìm Màto) l’ho conosciuto qualche anno fa, grazie agli scambi interculturali italo-albanesi promossi dalla Vallisa, che hanno un importante momento negli incontri annuali (ora purtroppo sospesi per il covid) a Saranda, dove Agim vive e gestisce, con i figli, la casa editrice Milosao.

Se volessi stilare una sorta di “graduatoria poetica”, potrei mettere al primo posto i “veri poeti”, che sono in grado di scuotere gli animi e che sanno sapientemente maneggiare, in variegati modi, l’arte del verso; poi farei seguire i “poeti”, che hanno l’animo poetico; poi, gli “scrittori di versi”; poi i manipolatori di penna; poi quelli che farebbero meglio a lasciar stare la penna; poi altre varie categorie, a scelta, ma sempre del genere “che Dio ce ne scampi!”. Ebbene, Mato appartiene decisamente alla prima categoria.

I suoi principali temi possono essere riconducibili alla poesia politica (lui e la sua famiglia hanno molto, ma molto patito a causa del vecchio regime), alla poesia epica (sulla scorta di una modalità molto diffusa nella sua area culturale di riferimento), alla poesia che porta dritto al cuore, in grado di scuotere anche gli animi più insensibili, non necessariamente relativa all’amore.

Agim, che conosce alquanto bene la nostra lingua, talvolta mi chiede di dare un’occhiata (Domine, non sum dignus) alle sue poesie, già ottimamente tradotte da Klara Kodra e Albana Alia, per un controllo linguistico e redazionale. Mi capita, quindi, di leggere in anteprima cose formidabili. Esaminando il suo prossimo libro – Le navigazioni… – mi sono più volte bloccato a leggere e rileggere certi suoi passaggi, certe sue immagini semplicemente splendide; ma quando sono arrivato a questa sua poesia, che subito riporto qui di seguito, mi sono profondamente commosso, e ancora adesso, all’ennesima rilettura, ne resto scosso. Ho anche chiesto aiuto ad altri per capire cosa in essa si nasconda e voglio provare, con chi mi legge, ad esaminarla un po’ più accuratamente, per cercare di svelare il segreto della sua forza poetica.

Agim Mato

La ragazza innamorata

Loro due si incontrarono ancora fra i meli,
ancora fra i rami,
appesantiti
dai nidi felici degli uccelli
contarono i battiti dei minuti dolci del loro amore.

E battevano i cuori
e battevano i minuti
e batteva il motore della trattrice accesa all’angolo del campo.

Soffiava un vento e recava l’aroma dei campi mietuti,
soffiava un vento e portava sulle sue ali
tutta quella calda sera che s’attorcigliava
agli alberi
e a coloro che erano sotto gli alberi.
E coloro che erano sotto gli alberi
dicevano “presto, presto” l’uno all’altro,
alcune parole,
alcuni baci
e “presto, presto”
e i cuori battevano
e battevano i minuti
e batteva il motore gridando “presto-presto” sulle sue pesanti catene.

Ma la ragazza, quando tornò a casa,
non poté dormire,
non poté dormire tutta la notte,
cullata dal rumore
della sua trattrice
che scavalcava la finestra.

E sentì che i capelli le odoravano di mela,
il lenzuolo odorava di mela,
tutta la camera con una luce verde notturna
odorava di mela.

Il titolo è di una semplicità disarmante: Non è del tipo – che ne so – “L’altrove del sentire”, che può mettere in moto arcani meccanismi, ma è giusto introduttivo alla linearità dei versi che seguono, armoniosamente schietti.

L’incipit, la cui sonorità si estende fino al secondo verso, è delicatissimo, ed è come la continuazione ovvia di un discorso già iniziato, come ovvio appare che due innamorati continuino ad incontrarsi ancora. La parola ancora, ripetuta due volte, ha due distinti pesi, sottolineati dalla diversa lunghezza dei versi in cui si trova. Il primo è un verso in 6/8 (il valzer impossibile, molto usato nelle danze popolari balcaniche e nostrane di tradizione illirica, in cui le caviglie armoniosamente seguono il tempo).

In questo verso, ancora scorre lieve, con apparente noncuranza, mentre diviene forte e deciso nel secondo, occupandone la metà, e cambiando di intensità (compito del lettore ad alta voce il sottolinearlo). E subito compaiono i meli, e i loro rami d’ombra e di sommese parole intrecciate.

Ad appesantiti è dedicato un intero verso, da leggere calcando sulle toniche e rallentando la voce, che già ha appena finito di esitare nel secondo verso, dopo la rapidità del primo. Con questo terzo verso cambia tutto: i rami non sono adesso lievi di impalpabile ondeggiare di foglie, ma resi pesanti (mi viene in mente il latino pondus) dalla felicità che è nei cinguettii, e nelle parole, e nei baci che tra e sotto i rami sono scambiati; minuti dolci e, ancor più, nidi felici sono due potenti immagini, ancor più incisive perché rese utilizzando termini semplici.

Noto che in questi cinque versi vi sono cinque ritmi diversi: è una festa di poesia e la dannazione di chi deve leggerli in pubblico. Dopo tre virgole e un verso rallentato, appena preceduto da una leggera pausa della voce di chi legge, si allarga il quinto verso, di ben diciotto sillabe, con due lunghe soste sulla quinta e sulla dodicesima, che ne scandiscono il ritmo, con quel bàttiti dei minuti dòlci che disegna una immagine che direttamente scava nell’anima.

Il lessema battiti è poi ripreso all’inizio dei tre versi della successiva strofa, con tre intonazioni diverse, difformi ancora da quella del quinto verso, che precede. Sono distinti valori dati allo stesso concetto, largo e scorrevole al quinto verso; in “battere” (è il caso di dirlo) nel sesto e settimo verso, seguiti dal “levare” (sto proprio utilizzando termini musicali) della seconda metà dei due versi (sesto e settimo) e sfociando poi nel “largo” – come al quinto – dell’ottavo verso, di ben venti sillabe. Questa alternanza di corti e lunghi dona un particolare ritmo alla poesia, che ritengo sia indipendente dalla lingua usata.

AA. VV. Un mare ci unisce. Poeti italiani e albanesi, a cura di Agim Mato e Daniela Giancane, Tabula fati 2017

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Volendo fare ora un paragone con la struttura classica della “sonata”, largamente usata da Beethoven nelle sue sinfonie, possiamo dire di aver fin qui assistito alla esecuzione dei primi due movimenti (mescolati tra loro), con esposizione e sviluppo di due temi principali e con il secondo movimento rappresentato dal “largo” del quinto e dell’ottavo verso.

Farei qui una breve sosta per rendere omaggio alla traduttrice Klara Kodra. Non sono pratico di lingua albanese, ma osservo molteplici figure retoriche e una considerevole varietà di ritmi, che fanno supporre un notevole lavoro di resa cromatica, nonché di conoscenza dei modi della poesia italiana. Immagino pure, pur non avendone certezza, che ci sia anche lo zampino dell’Autore e della sua conoscenza linguistica specifica.

Ad esempio, preferire un vento al più usato “il vento” non è casuale; così come la scelta di utilizzare la trattrice e non “il trattore”, opzioni da me rispettate e apprezzate nell’opera di revisione del testo, consente di evitare uno sgradevole “rumore del trattore” e consente una preziosa allitterazione di “t” che cede a un ravvicinato ripetersi della sillaba “ce” in trattrice accesa. Questa sequenza del lessema “battere” e di “t” ripetute e di “ce” segna un continuum che viene – immaginando la scena – magicamente interrotto, anche spazialmente, passando da un vicino e variato battere a un lontano angolo del campo che vediamo chiaramente imbevuto di vento, dilatato – e non si può sapere quanto – nell’erba, nel sole, nei meli allineati in filari, con i loro rami intrecciati da cui rosseggiano le mele, appesantiti d’aria profumata e di felicità, leggera come lo sguardo di una ragazza innamorata.

Con la terza strofa entra il terzo movimento, uno “scherzo” con un vivace susseguirsi di immagini che si sviluppano in catena. Fellini era maestro in queste sequenze, adeguatamente sottolineate dalla musica del sensibilissimo Nino Rota. Se qualcuno ricorda, ad esempio, la scena delle terme in 8 e ½ (o anche la concitata scena dell’albergo in cui alloggia la troupe), osserverà come il primo piano dell’attore (o attrice) che parla sfuma, incrociandolo, nel piano americano del successivo attore che passerà in inquadratura ravvicinata, che a sua volta sfumerà con un incrocio nel successivo piano americano, e così via. Questo accorgimento impartisce un ritmo particolare, incalzante, generalmente sostenuto dal ritmo della colonna sonora.

Ecco, nei versi 9-21 pare di vedere tutto ciò: vento, un vento, aroma di campi, vento, ali e sera che si attorciglia, alberi, persone sotto gli alberi, e presto-presto, e parole, e baci, e battere, e battere, e battere. Ci si ferma, poi, su quella serie di “s” del ventunesimo verso, con la testa svuotata, affranti, stracchi e sfiniti, come dopo una vorticosa girandola eseguita al ritmo di una musica incalzante, fatta di note veloci e rallentate, forti e lievi, in circolo sull’aia, con gli occhi fissi in quelli della persona amata.

Scendendo in dettaglio, si registrano tre versi (nono, decimo, undicesimo) alquanto lunghi (diciassette, tredici, quattordici sillabe) cui segue un folgorante verso di quattro sillabe soltanto, e poi ancora tre versi di quattordici, tredici, tredici (in cui vanno conservati quattro iati) e poi una serie di versi brevi e incalzanti, che sfociano nel lunghissimo ventunesimo verso, di ben ventitré sillabe (il nono verso è la somma di un endecasillabo a minore e di un senario).

Questa struttura così varia impartisce un ritmo particolare, che va dalla sospensione data dalla ripetizione delle prime parole nei versi nove e dieci, con le tre immagini di vento, aromi, ali; prosegue con il verso undici in battere e in levare (tùtta quèlla càlda sèra) e contorcentesi alla fine (che s’attòrcigliàva), proseguendo poi con un repentino cambio ad opera del brusco agli alberi che irrompe improvviso, stemperandosi nel verso successivo. Dopo il punto, a ripresa di un discorso che sembrava concluso (l’incrocio di immagini), ecco che una improbabile anafora introduce una serie di nuovi quadri, caratterizzati dai ripetuti presto-presto, geniale e commovente invenzione dell’Autore, apparentemente scollegati dalle scene contestuali, ma che in realtà lega in un quadro sonoro impensabile e fantastico.

Le ripetute anafore prendono per mano il lettore e lo coinvolgono in un vorticare di immagini che dilagano, passando per quei tre presto-presto, puntando con decisione verso la ripresa di quel “battere” dei versi sei, sette, otto (si utilizza ancora una volta l’imperfetto per sottolineare il perdurare dell’azione), culminando infine in quel motore di trattrice che grida, vincolato fortemente dalle sue pesanti catene.

Qui il lettore deve fare una sosta, affinché si acquietino quei battiti e quei presto-presto e tutta la concitazione cresciuta nei precedenti versi. Del resto, inizia ora il quarto movimento che, come spesso accade, è nella stessa tonalità del primo: la tonalità della mela, il cui profumo non ha mai smesso di aleggiare fin dal primo verso e che andrà ad esplodere in sommesso sospiro nell’ultimo.

Cambia tutto, qui, nel ritmo. Dalla concitazione dello “scherzo” a un dolce “notturno” che procede non con un movimentato crescendo sonoro dell’orchestra, ma che si smorza, piano, con un lento sospiro sull’ultima parola, come la Patetica si spegne sull’ultimo accordo. Non con intonazione dolorosa, come in Tchaikovsky, ma con dolcezza gravida di speranza, nella visione di un’alba lieta di profumi.

Il Ma posto all’inizio del ventiduesimo verso merita un approfondimento. Premetto che, come molti sostengono, anche secondo me una poesia, per essere gustata appieno, deve essere letta non solo con gli occhi, ma anche con la voce, sia pur mormorando. Quanto deve sostare, il lettore di quel Ma, per rendere palpabile il suo svaporare nelle parole successive? Direi un secondo pieno sulla “a”, sussurrata; sfuma poi un silenzio sospeso di due-tre secondi, che introduce la ragazza, sussurrato con la voce che dolcemente sale di volume, e che subito, in quel non poté dormire si incrina di commozione, la quale perdura nel verso successivo e che diviene dolce come una ninna nanna in quel cullata dal rumore, e poi quasi sorridente in della sua trattrice e vittoriosamente delicata mentre scavalcava la finestra. Attenzione, qui: scavalcava la finestra, non semplicemente “la attraversava”. Non so che verbo albanese abbia usato qui l’Autore, ma di certo un applauso va alla bravura della traduttrice, in grado di rendere una così magistrale immagine.

Restano i quattro versi finali, con la ripresa del motivo della mela, già presente al primo verso della poesia. Sono in alternanza lungo-corto, lungo corto, che individua un ritmo particolare (presto-presto-lento-lentissimo) sfociando, il lentissimo, in un sussurro della voce. L’incalzare dei primi due versi, che si chiudono con le stesse parole, viene come sospeso dal prolungarsi del terzo, la cui cadenza finale richiede una sosta breve prima dell’ultimo verso, che nella sua semplicissima struttura apre le porte del sogno.

Tutta la poesia è ricca di sorprendenti immagini, figure retoriche, variazioni di ritmi, chiaramente indipendenti dai problemi di traduzione. In fondo, si tratta solo di una scena agreste che si svolge in un frutteto e vede una ragazza innamorata che ricorda, di notte, i bei momenti passati nella giornata. Ma che modo di descrivere tutto ciò! Pennellate intense, vive; una sorta di coro di opera greca che contiene e descrive un fatto minimale. Che invenzione, quel presto-presto, che invenzione quel profumo di mela che pervade tutto il testo! Mi sovviene Eduardo De Filippo e la sua commedia De Pretore Vincenzo, allorquando il protagonista, in stato di coma, sogna di trovarsi in una Melizzano fantastica, immerso nell’aria profumata di mele, che assume, per lui, paradisiache fattezze. In fondo, è come un paradiso terreno il frutteto della poesia, con le sue voci e i suoi rumori.

Ho contato solo cinque aggettivi, non spesi a casaccio, ma strategicamente posizionati: nidi felici; minuti dolci; calda sera; pesanti catene; luce verde notturna. Se si esclude il quinto caso, in quanto luce notturna è uno specifico oggetto, i restanti quattro aggettivi – solo quattro in tutta la poesia – hanno valore significante e non sono gratuitamente spesi, come spesso appare nella cattiva poesia dei “gabbiani felici” e delle “dolci carezze”.

Ecco, vorrei dire altro, ma temo di aver esagerato come spazio e tempo occupati in esami di vario genere. Certo è che sono l’insieme del testo e il suo ritmo che mi fanno commuovere ad ogni rilettura. Ancora una volta non è ben chiaro perché un testo poetico sappia rapire in modo così totalizzante, mentre altri non sono in grado di farlo. Ho anche provato a leggerlo ad alta voce, con pause, rallentamenti, accelerazioni, cambi di voce (quanti!) e ogni volta ho capito che potrebbero essere apportate migliorie, per sottolineare questo o quel passaggio, svelandone particolari che sfuggono nella semplice lettura a mente. Alla fine, ci si arrende e basta, davanti alla grande poesia.

Nicola Accettura

NOTA POSTUMA:

Avendo già consegnato questo pezzo per la sua pubblicazione, la mattina del 10 maggio mi giunge, scavalcando il nostro mare, la notizia che Agim ci ha appena lasciato, vinto dal male che lo insidiava da tempo.

Gli volevo bene, e credo che anche lui me ne volesse. Quando ci siamo lasciati, l’ultima volta, a Saranda, ci siamo abbracciati, e ancora riabbracciati, prima che si sciogliesse il primo abbraccio. Fuggono lontano le bugie. Ora ti penso confuso col tuo amato mare, cuore dolce, mite, generoso e grande come tutti i mari dell’Universo. Ave atque vale, Agim.
Il tuo amico Nicola.