Miguel Angel Asturias (1899-1974), premio Nobel 1967, è senza dubbio il più grande scrittore guatemalteco di tutti i tempi.

Certamente, è assai più noto come narratore che come poeta – eppure è un grande anche come poeta. Il fatto è che come narratore ha scritto opere straordinarie, indimenticabili: lessi molti anni fa Uomini di mais e ne rimasi impressionato per quella immersione nella cultura popolare del Guatemala, ovvero la cultura maya: gli uomini le donne – si narra nel libro sacro Popol Vuh,- furono creati dagli antenati divini, assieme alle pannocchie di mais giallo e le pannocchie di mais bianco ed essi furono pieni di gioia.

Il mais, nella coscienza dell’indio, ha quindi un carattere sacro. È nutrimento e collegamento con gli antenati. Ma scoppia il conflitto fra gli indios (appunto: gli uomini di mais) e i coltivatori di mais, che tagliano e bruciano gli alberi per ottenere spazi per coltivare il mais e sfruttare gli indigeni.

Uomini di mais inizia il filone del ‘realismo magico’ del Sudamerica (quello che poi sarà il filone di Marquez), perché è denso di una straripante fantasia e coi personaggi che parlano come parla il popolo guatemalteco, in una sorta di atmosfera di sogno.

Quando chiesero ad Asturias: tu sei surrealista? Forse – rispose – ma in verità è il popolo guatemalteco ad essere surrealista.

Anche gli altri romanzi sono fenomenali: da Vienti fuerte a El papa verde a Mulatta senza nome e il notissimo Signor Presidente che ci riporta alle sue battaglie politiche ed alla sua vita travagliata.

È il ‘ciclo bananero’ che critica la presenza imperialista e sfruttatrice degli americani, che distruggono la cultura e il territorio del Guatemala. Asturias viene nominato consigliere d’ambasciata a Parigi, poi è ambasciatore a El Salvador, rappresenta il difensore degli indios e dei diseredati, critica i dittatori del Sud America, fantocci nelle mani del capitalismo.

Ma le cose cambiano, gli Stati Uniti rovesciano il governo di Albenz, Asturias emigra in Argentina, poi a Cuba. Asturias, ormai notissimo, viene imprigionato, poi rilasciato. Viene in Italia, dove tiene conferenze. In Francia – dove pure sosta per un periodo – Valery gli dice: vattene da qui, torna in Guatamala, perché se resti perderai il rapporto con la tua cultura. Diventa amico per la pelle di Pablo Neruda. Muore a Madrid il 9 giugno del 1974.

La tomba è sormontata da una piccola stele maya, vicino alla tomba di Chopin. Eppure è anche un meraviglioso poeta, in cui senti quasi il rullare dei tamburi maya, la visione del mondo e i sogni di quel popolo mitico, come nella ineguagliabile Tecun-Umàn:

Tecun-Uman, tu dalle torre verdi,
tu dalle alte torri verdi, verdi
e in fila indiana indios, indios, indios
incontabili come centomila formiche nere:
diecimila con frecce in pie di tube, mille
con fionde in pie di pioppo, settemila
con cerbottane e mille fili d’ascia
in ogni vetta ala di farfalla
caduta in un formicaio di guerrieri.
Tecun-Uman, tu dalle penne verdi,
tu dalle lunghe penne verdi, verdi,
tu dalle lunghe penne verdi, verdi, verdi,
verdi, verdi. “Quetzal” dalle diverse fronti
e ali mobili nella battaglia,
nella battitura delle pannocchie
d’uomini di mais che si sgranano
beccuzati da uccelli di fuoco,
in rete di morte tra le pietre scagliate.
Tecun-Uman, quello dei tamburi,
pelle di tamburi bob bon, buròn, bon,
bon bon boròn, bon bon, bon, boròn, bon
bon boròn, bon, bon, bon, boròn, bon, bon,
crepitare di tuono che colpisce
teponpòn, teponpòn, tamburone,
teponpòn, teponpòn
(…)

Non la riporto tutta, ma invito ad andarla a leggere, è una goduria per chi ama la poesia: suoni, fiumi che scorrono, paesaggi. Asturias è il poeta dei Maya d’oggi, il cantore dell ‘indianità’, con il continuo uso della reiterazione, della metafora, dell’immagine simbolica, di un ritmo travolgente e ipnotico. Attraverso il poeta parla ‘il Gran Lengua’, ovvero la voce epica di un popolo intero che è legato al passato ma deve ribellarsi al presente :

Libero e prigioniero nella gabbia della brezza,
ti alimenti di riso,
di pannocchie di riso!
Un ragno ti schiva,
la tua beccata ferisce,
e ti seguono la formica,
la ‘taltuza’, il coniglio, lo scoiattolo
(…)

E poi il grido di ribellione di Salve, Guatemala:

Salve, Guatemala dell’anelito e della li bionde,
due volte ricreata dall’amore!
…Non guardare! La schiena dell’uomo incatenato
la visione delle carceri piene di muri
fucilati, le strade in fuga, spaventate…
Non guardare, ciò che fu ameno tra campi di fiori,
oggi trasformato in giogo e berlina!
…È giunta l’ora del focolare senza carnefici,
della vita senza paura, della terra senza padroni…

Ma gli indios scenderanno da Mixco: “Si ode solo l’ansimare, / sibilo, a volte sulle loro labbra, / come un serpente d’argento”.
Per noi lettori è l’ora di restare senza parole.

Daniele Giancane