Rino Bizzarro non è nuovo ai consuntivi poetici ed esistenziali. Penso, in particolare, al florilegio personale Battuta di soggetto (Forum / Quinta Generazione, Forlì 1988), che andrebbe riletto in una prospettiva d’approfondimento di prodromi, temi e motivi della sua intera produzione (anche teatrale).

Con tali presupposti, nell’ultimo quadrimestre del 2020 l’autore è tornato ad offrire ai suoi lettori un nuovo rendiconto di poesia e vita, Confiteor, uscito con Progedit di Bari e introdotto da una sapiente prefazione di Daniele Maria Pegorari. Veicolato dal latino ecclesiastico della nota preghiera penitenziale (Confiteor… quia peccavi nimis), il titolo potrebbe per un attimo far pensare alle Confessiones di Aurelio Agostino, ma, pur con le debite differenze, l’opera più vicina per intenti a quella di Bizzarro è l’autobiografia di Neruda Confieso que ho vivido (Confesso che ho vissuto). Si scopre allora che, per il poeta barese, è l’amore dolente e inatteso il peccato che sconvolge la partita primaria della vita: «Chiedo perdono / per il mio gran peccato […] Ho peccato, di certo, / ma solo per amore; / quello che doloroso, inaspettato / scompagina la vita / mischia tutte le carte / al punto che alla fine / al gioco / non si sa più chi vince / né chi perde» (“Confiteor”).

R. BIZZARRO, Confiteor, Poesie d’amore e altre trasgressioni, Progedit, Bari 2020

Nella consapevolezza della «commedia breve / della vita» (p. 4), tra le confessioni del poeta fondamentale è l’ammissione di essere un eterno ragazzo: «Chiedo perdono a tutti: / sono rimasto / il Peter Pan di sempre / e nemmeno i capelli son riusciti / a diventare bianchi» (“Solo oggi”). Il cantore del resto, assetato d’amore e di bellezza, può solo confessarsi e rivelarsi, facendo incetta di sogni e chimere per una poesia alla portata di tutti: «Sei bella come / un mattino d’autunno, / quando una tristezza lieve / ti segna il volto […] …allora / bisognerebbe parlare / dell’amarezza, / delle disillusioni […] della malinconia del poeta… / che nulla può oltre la confessione / …per questo la poesia / è fuori dai palazzi, / è per strada, / mendicante di utopie, / di sogni e di stelle…» (“Sei bella”).

La confessione di Bizzarro, dunque, con frammenti di bellezza e incantamenti, veicola la potenza insopprimibile dell’eros e si traduce in un pregnante sottotitolo, che recita: Poesie d’amore e altre trasgressioni, dove il termine «trasgressioni» va intenso in senso preminentemente etimologico, come nome d’azione di transgredi, nel senso di “passare oltre”.
La trasgressione del poeta nella sua esistenza è stata quella di procedere nella direzione di un grande sogno, di andare oltre i comportamenti comuni, quelli utilitaristici, amorali ed egoistici: «L’ho spesa / per inseguire un sogno / la vita: / non biasimarmi. / Lo so, / sono rimasto squattrinato / e avrei potuto arricchirmi, / arraffare, gestire, / tramare, tradire, / confabulare, partecipare / a varie spartizioni… / Invece ho preferito / conquistare il mio sogno / solitario» (“La vita”).

Rino Bizzarro

Il sogno è stato ed è quello dell’arte, cioè quello della poesia e del teatro praticati con fede e vissuti eticamente, soprattutto nella città natale, senza nulla aspettarsi, tanto è vero che nella partita doppia dell’esistenza l’esito finale si profila senza ricavi: «Non so se fin qui / ho percorso la vita / nel modo giusto […] Molti con me / sono rimasti in forte debito […] a qualcuno anch’io / ho lasciato debiti / irredimibili. / Ma al gioco del dare / e dell’avere, / frugando nelle tasche, / inutilmente cerco / qualche spicciolo: / me ne andrò nudo / e senza un quattrino / come sono venuto» (“Non so”). Facendo un bilancio retrospettivo, l’esistenza trascorsa appare all’autore come inglobata in una visione onnicomprensiva: «L’arco di tempo / di una vita intera / non è che il salto / dietro una siepe / e posso ancora vederli tutti / gli anni rimasti indietro, / toccarli, sentirne il respiro… / Ricordo ogni attimo / come se tutto fosse / appena un solo oggi, / un solo giorno inquieto / ancora da scommettere, / tutto ancora da vivere…» (“Mi basta”).

Ed ecco che tornano nostalgicamente alla memoria le infatuazioni adolescenziali e giovanili e alcune scene e figure femminili del passato: un amore sfiorito (“Il bocciolo”), i primi turbamenti (“Il primo amore”), una passione spenta (“Il regalo”), una relazione spiritualmente monca (“Calma piatta”), gli incontri al cardiopalmo (“Al giro della scala”), un amore mormorato come eterno (“Fra dieci anni”), un rapporto interrotto da un’incontenibile risata (Eros&humour), un ricordo amoroso da custodire negli ultimi sprazzi di vita (“I giorni rimasti”), l’attimo impalpabile del distacco (“Il momento preciso”), la cenere di una grande fiamma (“Mi accorgo all’improvviso”), il sopraggiungere della dimenticanza (“Non de vogghie cchiù bbene”), l’invecchiamento inesorabile delle forme muliebri (“Cinquant’anni”) e l’acquisizione conclusiva che «nel gioco delle parti» rien ne va plus (“Non c’è più spazio”).

Ma tra i primi indimenticati amori c’è un’eterea figura rimasta inestinguibile nell’immaginario personale del poeta: è quello di Aurora, emigrata in America e già destinataria di una lirica omonima nella silloge Prove
di assenza
(Levante, Bari 2002), la quale in Confiteor torna altre due volte: in “Il primo amore” come «Aurora, / che mi cantava Amado mio / scoprendo le gambe / di donna-bambina» e in “Dove sei?”, ove quel viso, aurorale in ogni senso, genera un’acuta nostalgia della beltà e del tempo svanito: «Aurora, dove sei / oggi, in questo istante in cui ti penso; / ti è possibile / in qualche forma sentire la voce / di un ricordo remoto e distante? / Quando mi torni alla mente / e ricordo il tuo volto di luce, / una lama appuntita / mi affonda nel petto, / struggente nostalgia della bellezza / che da un tempo perduto ho cercato / per sempre, inutilmente, / a tormento dei giorni inseguiti / fra le molte illusioni / e le infinite cupe delusioni. / Potrai da lì avvertire / una voce che chiama, / senza nome / fatta solo di puro pensiero?». “Dove sei?” è una delle poesie più belle della raccolta, per la capacità di conferire a una vicenda personale una portata veramente universale, in grazia di una disposizione sentimentale alimentata da quella che altrove il poeta definisce «malinconia dell’amore / per sé stesso, / la nostalgia bruciante / del pallore, del batticuore, / del rossore, dell’ansia, / dell’ardore» (“Soprassalto”, dove si nota una rima interna, come in altri pochissimi casi).

In questo canzoniere amoroso, dalle pianure della nostalgica mestizia si può salire fino alle vette della più gioiosa solarità: «Mia primavera prendimi / bagnami della tua nuova / rugiada / annegami di vento / e di sole» (“Primavera”). Così la sua compagna di vita può farsi simbiosi di femminilità e poesia, legame indissolubile sino all’attimo finale: «…Mia amata, / mia musa / tu: eterno femminino / tu sola infallibile / sentinella inflessibile / di ogni mio pensiero, / stringi più le catene / inchiodami a te, / fino all’ultimo / doloroso respiro» (“Musa”).

L’amore, tuttavia, è pluridimensionale: si possono amare «in modo onesto e sincero / contemporaneamente / più persone (non è eresia)» (“Non è vero”). D’altra parte esiste anche l’amore paterno. Un primo esempio è dato da “Miopia”, dove campeggia un interrogativo insistente per la vita donata: «la domanda mi assilla: / non so quello che pensi / per essere piovuto / proprio qui, / nelle mie mani nude […] ma il sorriso ottimista / ad ogni costo / mi risparmia il rimorso / e schiarisce la vista…».
Un’altra poesia di pregio è “Lettera a mio figlio dalla periferia del mondo”, già pubblicata con gli altri due testi del trittico “Bari. Tre parole dal Quartiere Libertà” nell’opuscoletto Libertà. Poesie per un quartiere, scritto a quattro mani con l’amico Daniele Giancane (La Vallisa, Bari 2007).

L’epistola lirica è un messaggio di fidente eticità affidato al passaggio del testimone dal padre sessantottino al figlio incamminato su una via diversa: «Ma questo lembo di terra / alla periferia di tutto / dove sei nato e con tua madre e me / hai fatto il primo tratto di strada / tienilo nel tuo cuore / con cura, con indulgente amore […] Io ho fatto quello che potevo, / ho dato quello che avevo […] ho imparato il coraggio quaggiù / dove bisognava inventare tutto / e sono altresì certo / che l’hai appreso anche tu; / molti mi hanno tradito, / non tradirmi tu. / La mia generazione / ha fatto tanti sbagli, / ma sognava l’utopia, / la fantasia al potere, la poesia… / abbiamo perso; / i ladri hanno vinto, / rubando tutto, ma non arrenderti tu […] non mi hai mai visto abbassare gli occhi / per un gesto di cui vergognarsi: / tienila come unica, vera mia eredità». Altrove l’autore si rivolge al figlio rimarcando affettuosamente la diversità dei reciproci destini: «Non chiedermi / di alzare il passo. / Le mie gambe non possono / reggere il tuo ritmo / spedito […] Tu vai da un’altra parte / e lì, con te, / io non posso venire, / per quanto forti / possano essere gli abbracci, / le parole di affetto… […] Io rimango a guardarti / sapendo / di aver già dato tutto / allo scoccare della scintilla / e con la mano alzata / ti mando un cenno breve / di saluto» (“Non chiedermi”).

In altre pagine, e siamo a un’altra dimensione dell’amore, Bizzarro, più pudicamente, cede all’affetto filiale nel ricordo del padre prematuramente scomparso: «Non ti ho mai telefonato: / mi viene in mente che / quando te ne andasti / non c’era ancora / l’apparecchio / in tutte le case. / Pure, / almeno una volta / mi piacerebbe comporre un numero / e sentirti / dall’altra parte… […] Non ti ho mai dimenticato / nonostante il viaggio / così lungo / e solo oggi mi accorgo / di non conoscere di te / nemmeno la voce» (“Almeno una volta”). La figura paterna emerge anche in “Dialogo dal Sud”, dove, al figlio indignato per il clientelismo politico e il disprezzo dell’arte e perciò intenzionato a «scappare» da una città invivibile e da un Mezzogiorno «stramaledetto», il padre replica con calma: «se hai la forza di lottare, / devi restare qui figlio mio, / dove davvero c’è bisogno / della tua forza immensa […] La ricompensa arriverà domani… / e se pure non arrivasse mai, / in te stesso la troverai, negli occhi / di tuo figlio quando ti guarderà / riconoscente / per avergli passato un testimone / migliore di quello che io oggi / affido a te».

Altro aspetto del multiforme amore è l’amicizia, a cui Bizzarro destina la poesia Primo, scritta in memoriam per Primo Leone, sodale del Gruppo La Vallisa, e recuperata dalla plaquette intitolata Per te, Primo (Tip. Cortese, Bitonto 2008), nonché la lirica in idioma barese “U megghie amiche” (Il migliore amico), dedicata a Bruno, amico fidato sin dai tempi della scuola.

L’ultimo amore confessato dal poeta è il forte legame affettivo ed etico col Sud in generale e con Bari in particolare, in vista di un tentato arduo riscatto, il quale legame trova estrinsecazione soprattutto nel già citato polittico “Tre parole dal Quartiere Libertà”. Nella prima parte leggiamo: «Avremmo dovuto scappar via / senza voltarci indietro / forse, / per inseguire successo, soldi […] Pure siamo rimasti in questo limbo / che a noi era tuttavia caro / e sembrava un delicato incanto / di sguardi e di silenzi, di carezze […] Qui abbiamo imparato il coraggio; / abbiamo cominciato dalle cose più piccole, / in questo “Quartiere Libertà” / di cui si parla solo / quando c’è il sangue in terra». Dalla seconda sezione, con l’avvertimento tolstojano che «“Per essere universale / devi parlare del tuo villaggio”», apprendiamo che proprio da quel rione, come dice il poeta, «son venute le risposte / più definitive, / dove posso fissare / senza imbarazzo, senza esitazione / gli occhi innocenti di mio figlio». Ed è a lui che nella terza parte del trittico il genitore dice fiducioso: «da questo piccolo avamposto di sassi […] da questo piccolo-grande / Quartiere Libertà, / aspetto buone nuove».

L’amore per la terra natia ha una matrice per così dire meridionalistica e mostra d’altro canto un volto bifronte, bilinguistico, perché alle settanta liriche in italiano fanno riscontro otto poesie in vernacolo barese, poste in coda alla silloge per esprimere Du’ penzìire remanùte (Due pensieri
rimasti), che raccontano in altre guise il forte radicamento dello scrittore nel territorio. Tra i testi più significativi va menzionato “Me ne vogghe” (Me ne vado), già pubblicato nella raccolta Prove di assenza.

Il discorso su Confiteor non sarebbe completo, se non si accennasse brevemente alla meditazione tanatologica, alla riflessione sulla morte, che, mentre in Prove di assenza è preponderante, qui invece s’insinua solo di quando in quando fra gl’interstizi delle poesie d’amore, un cui ultimo potente sussulto il poeta vorrebbe come «viatico» estremo per l’aldilà (“Ultimo amore”). Mi riferisco a componimenti come “Immanenza”, “L’ho incontrata”, “Sarà così?”, “Rosencrantz”, “L’uscita”, “Porta girevole”, “I due angeli”, “Ad ogni istante” e “La vita è stata bella”, che si distingue per il finale afflato di serenità: «Soltanto il sole / mi tiene in vita / mentre un ottobre sfinito / conduce lento per mano / un presagio di morte. / La fitta nel fianco / dirà che il tempo è scaduto […] Gli ultimi scalini / prima della nebbia / per un pensiero ancora / a quanto / la vita è stata bella». Su questa via, nella consapevolezza che comunque «È la vita che uccide» (“Tempo scaduto”), l’espressione può assumere il tono dell’invocazione e della preghiera, come in “A questo punto” e “Fammi andare contento”.

Mutuando dall’arte teatrale il flusso dei monologhi, degli a parte e dei dialoghi, l’autore non ignora le accensioni di una viva moralità e non disdegna qua e là richiami letterari ben metabolizzati nei versi, per esempio a Goethe («eterno femminino», p. 14), a Carducci («cuore indomito», p. 56), a Leopardi («presente stagione», p. 61) o a Montale («Non domandarmi quindi / di domani o dopo; / solo di questo giorno / posso dirti», p. 88). Come si evince agevolmente dalle molte citazioni fatte, in Confiteor
Rino Bizzarro si avvale di un linguaggio chiaro e confidenziale, scarno e pacato, capace di parlare della vita e della morte alla mente e al cuore di tutti, mentre via via rivela i molteplici volti dell’amore, che, per quanto «anarchico» e inafferrabile, sostanzia sovente gli atti dell’umana esistenza.

Marco Ignazio de Santis