Della poesia africana si sa davvero poco: tolti i due grandi, Senghor e Neto, quasi non sappiamo più chi citare.

Certo – come si evince dagli studi di Pedro Miguel – la causa è stata in gran parte perché la poesia (in genere la cultura) africana è stata sempre orale; ma anche perché l’Africa è stata sempre vista come una sorta di sottoprodotto culturale. Non degna di star a pari della grande poesia universale.

Eppure, nell’ultimo secolo sono emersi dei poeti di grande spessore, come Ruy Knopfli (1932-1997), del Mozambico (in realtà è portoghese di origini mozambicane), che dà vita a una poesia dal ritmo sincopato (Poesia e nient’altro è il titolo di una sua famosa silloge) che ci mostra l’identità africana pur in un poeta (e in un popolo) dominato da potenze straniere per secoli. Il richiamo di elementi ancestrali e la poca consonanza con la cultura europea.

Europeo, mi dicono.
Mi impestano di letteratura e dottrina
europee.
Ed europeo mi chiamano.

Non so se quel che scrivo
ha radici in
qualche filosofia europea.
Ma sono africano.
Il cuore mi batte
al ritmo dolente
di questa luce e questa iettatura.
Nel mio sangue porto un’ampiezza
di coordinate geografiche
e oceano Indiano.
Le rose non mi dicono nulla,
mi sposo meglio all’agro delle micaias
e al silenzio lungo e rosso delle sere
rotto da gridi di strani uccelli.

Mi chiamano europeo?
Vabbè, sto zitto.
Ma dentro di me
ci sono savane aride
E infinite pianure
con lunghi languidi e sinuosi fiumi,
un filo di fumo verticale.
Un nero e una chitarra che risuona.

Daniele Giancane