Il desiderio, la curiosità di conoscere da vicino la scrittura di chi, “per mestiere”, segna il cammino a chi si inoltra in questo mondo, oltre al titolo suggestivo, La guerra di Lia, mi hanno invogliato alla lettura di questo testo.

Il mio vuole essere una specie di omaggio o meglio di cortese attenzione verso siffatta “arte”. Complici gli Stati generali Tabula Fati e le lezioni di Silva che ho avuto il piacere e l’onore di seguire per ben due volte.

Volevo dunque vedere fino a che punto osasse osare chi, appunto, per lavoro, fa l’editor (e mi chiedo anche chi le abbia fatto da apripista: Quis custodet ipsos custodes?).

Mi aspettavo, dal titolo, una sorta di diario di guerra e ho proceduto a piccoli passi seguendo l’incedere lento del racconto, scandito da una Natura (onnipresente scenario) che assiste immobile e silenziosa. E invece mi sono trovata di fronte a tante microstorie inserite nella Grande Storia.

Le piccole storie di un popolo di colline, di borghi, di boschi, di valli, di piccoli fiumi, di monti; un popolo che si lascia, suo malgrado, trasportare dai e nei grandi eventi. Tante le atmosfere di piccole realtà quotidiane, di usanze, tradizioni, abitudini che ci immergono sempre più nei fatti, rendendoci compartecipi: è come se chi scrive volesse a poco a poco attaccarcele, farcele sentire addosso, parte di noi, farci essere assieme a chi soffre, assieme a chi subisce il volere altrui: la guerra!

C’è un alternarsi tra il racconto in prima persona (Lia che narra) e quello in terza, quasi come se chi scrive sentisse l’esigenza di raccontare i fatti attraverso la coralità, come nell’antica tragedia greca.

Alla base della scrittura di Silva c’è una ricerca e una cura capillare e meticolosa del particolare, un gusto del dettaglio come se fosse una ripresa cinematografica al rallentatore che non voglia tralasciare nulla.

C’è sempre, anche nelle scene più crude e crudeli di guerra, una voglia di pace e di oblio, un desiderio di cancellare i momenti più amari, quelle barbarie che da sempre accompagnano la guerra: «Avevano sentito gli zoccoli dei cavalli. /Un galoppo forsennato, cattivo […] Non c’era tempo per piangere. Meno ancora per piangersi addosso». (cap. XIV).

Silva Ganzitti

È come se la scrittrice ci prendesse per mano e ci conducesse in un
mondo per noi remoto e sconosciuto: il mondo contadino di un estremo
lembo Nord Est d’Italia, ai tempi dell’ultima Guerra.

Tante piccole storie, raccolte come i sassolini di Pollicino, storie da tenere in “scarsella” per comporre un mosaico completo. E poi quel gusto del linguaggio locale con i suoi termini preziosi e i modi di dire antichi usati quasi fossero un tesoro da custodire e tramandare. Un mosaico di piccole, grandi, eroiche, storie di gente comune.

Quanto di vero e quanto di inventato ci sia non conta. Conta l’interesse e il pathos che il libro suscita con quello scenario naturale delle prime pagine («Il Cuarnan si ergeva corrugato a destra, accanto alla mole più imponente del Cjampon») che man mano si apre e ci presenta le vicende in un alternarsi dai vaghi contorni, tra sogno e realtà, tra realtà e sogno, mentre lontano campeggia l’ombra immensa e oscura della GUERRA che finirà per tra/volgere e coin/volgere i pacifici lavoratori dei campi : «Nei campi faticavano, scambiando chiacchiere e canzoni, stringendo amicizie e sorrisi, gli adulti fingendo di dimenticare che oltre le colline a nord e a sud saltavano ponti e caserme, si preparavano imboscate e la terra si tingeva di rosso.[…]Lavoravano perché quella era la loro vita e non sapevano fare altro e lo facevano con la passione di chi sulla terra ci è nato e la conosce e la capisce» (cap.3).

Quadri di vita contadina e un sentire che appare distante ma autentico. Emergono i piccoli protagonisti di questa storia corale di una guerra in cui, volere o nolere, ci si è trovati coinvolti. Tanti i piccoli grandi atti di eroismo e di temerarietà che non possono non lasciare stupito chi legge: quelli di Nereo (il cantastorie), di Vigjute (la levatrice), di Diego (il bambino), di Primo (il partigiano), di Adelchi, di Bortolo (il papà di Lia), di Lia stessa che appare e scompare per dare spazio e vita agli altri protagonisti del “coro”.

Nei racconti e nelle atmosfere echi verghiani e moraviani, persino deandreiani (penso a La guerra di Piero nell’episodio della sigaretta offerta da un partigiano al giovane tedesco). E con loro le atrocità di una guerra fatta anche di razzie, di soprusi, di violenze quotidiane, di ritorsioni, ma anche di atti di generosità. E quello spauracchio dei Cosacchi (una reincarnazione dell’uomo nero, usato dai genitori per la nostra generazione post-guerra, per farci stare buoni) che spadroneggiavano accanto ai Tedeschi tra le colline e per i borghi.

Ciò che conta è come queste figure, come quelle dei personaggi cartonati dei libri per l’infanzia di un tempo, salgano alla ribalta mostrandoci il vero volto dei piccoli, degli umili, dei dimenticati della Grande Storia che reclamano il diritto di non cadere nell’oblio.

E la sedicenne Lia, tra sogni, veglia e racconti, acquista, attraverso l’amore per Adelchi, la consapevolezza di ciò che la circonda uscendo di colpo dall’adolescenza.

La mano di chi scrive spesso pare seguire le scene di un film. Si addentra a tal punto in ciò che narra, passando con disinvoltura dalla prima alla terza persona e viceversa, da far rimanere il lettore col fiato sospeso, tanta e tale è l’espressività della parola “cartacea”.

Nella seconda parte del libro si moltiplicano gli episodi partigiani del 1945. Si assiste ad una progressiva presa di coscienza di Bartolo con le sue “bugie bianche” contagiate da un piccolo prete-partigiano.

Nell’episodio Villici sembra di assistere a un film in bianco e nero del Neorealismo. È una testimonianza di come, anche nei cuori più semplici, possa nascere e svilupparsi, quello spirito di spicciola saggezza e quell’istinto di sopravvivenza che porta l’essere umano a misurare gesti e parole.

Lettura ardua, ricca di asperità e di drammaticità ma anche di gioie quotidiane. È una lettura che alla fine risulta appagante. Il fascino è in un mondo in apparente torpore che si sveglia «convertito a una bandiera che ha il colore della libertà». Un esempio significativo è Bortolo, il padre di Lia, assieme alla stessa fanciulla.

E poi quei racconti attorno al fuoco (cap.52-53) che mi hanno riportato alla mia infanzia molfettese a casa del nonno Corrado. In somma un pulviscolo di fatti quotidiani sullo sfondo di grandi eventi, tante figure indimenticabili per un diario non diario tra sogno e realtà.

S. GANZITTI, La guerra di Lia, Solfanelli 2019

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«Buja, 1940-1945. È il racconto di Lia, figlia sedicenne di Bartolo e Tina. La collina del Belvedere è il punto privilegiato delle sue riflessioni, nell’intrico di cespugli e nel fitto degli alberi – testimoni privilegiati dei passaggi notturni – e nelle sue visioni del Nord, dove le montagne sono le fortezze della Resistenza. Dell’arrivo della guerra non ci si accorge subito. È un lento srotolarsi di cambiamenti in peggio, con la miseria che sale e abbruttisce musi e animi. La campagna inaridita fatica a restituire frutti in cambio di sudore e il paese sembra sprofondare in un silenzio vischioso, cupo, dove poche voci impartiscono ordini in una lingua straniera. Bartolo non sa cosa pensare, di chi fidarsi. Difendere la famiglia e la terra è il suo primo pensiero, eppure comprende che sotto quel vuoto di parole c’è qualcosa che brulica. Dapprima incerte, le sue domande lo aiutano a raccapezzarsi su quello che gli sta accadendo intorno: è uno scenario inquietante, nel quale Buja è solo uno dei tanti luoghi attraversati da cavalli cosacchi e dai loro carriaggi».