Se, utilizzando un linguaggio decisamente poco ortodosso quale quello degli slangs giovanili, dicessi che la poesia di Ada de Judibus Lisena è una poesia “carica a pallettoni” probabilmente mi dareste del pazzo.
E probabilmente con ragione. Eppure l’idea – propugnata e sottolineata a più riprese da parte della critica – di una poetica aristocratica, posata, dal forte senso della misura e del pudore, in merito alla produzione della poetessa molfettese, non credo e non pare soddisfi a pieno la definizione di un atteggiamento umano, di una riflessione e anche di un dissidio interiore che non si esauriscono in se stessi ma che mi paiono parte integrante e addirittura fondante della poesia di Ada de Judicibus.

Per carità: tutto verissimo! Soprattutto se ci si sofferma sull’approfondimento stilistico e formale di quella poetica e sulla vocazione alla ricerca della “parola perfetta” per l’espressione di quel preciso sentimento o stato d’animo. Probabilmente però mancava il passo successivo, il piedistallo valoriale e umano (nel senso più “cosmico” del termine) su cui tutto quell’impianto si costruisce e si erge; la chiusa del cerchio necessaria ad avere di quella poetica una visione d’insieme quanto più vicina possibile alla reale percezione della spinta emotiva e filosofica della poetessa.

Propongo di partire dalla visualizzazione mentale di una delle immagini più note della Storia dell’Arte universale, il Discobolo di Mirone – ormai patrimonio culturale collettivo ai più diversi livelli – e disegnare attorno a quella figura il cerchio che accompagna l’atto in fieri da parte dell’atleta.

Il Discobolo di Mirone

Senza scomodare la critica dell’Arte, basterà concentrarsi su uno degli aspetti più profondi che rendono quell’opera straordinaria in forma e in modo oggettivo e che non è la sola resa estetica, la perfezione fattuale, l’abilità “artigiana” dell’esecuzione, l’ineccepibilità formale quanto forse e soprattutto il contenuto: è il momento esatto, quello, in cui Mirone realizza un vero e proprio fermo-immagine, un momento anzi, quel momento in cui l’atleta esplode della massima carica muscolare, agonistica e prestazionale nell’esercizio della performance atletica, immediatamente prima che quella prestazione trovi il proprio compimento nel lancio vero e proprio.

Un momento fermo e fermato lì in cui tutto è già compiuto da una parte e nulla è ancora compiuto dall’altra. Un istante «equidistante» tanto dall’inizio della prestazione (la preparazione atletica e fisica) quanto dalla sua fine, dal suo compimento, dalla sua realizzazione (il lancio vero e proprio). Un istante puro!

Osservando quel marmo è quasi impossibile stabilire se sia il momento in cui ha appena terminato di “caricare” o quello in cui ha già cominciato a lanciare: esattamente quel momento preciso in cui le due cose coesistono e non esistono allo stesso tempo. Quel tempo. Quell’istante. Seguendo quel cerchio immaginificamente disegnato attorno al Discobolo, l’istante puro che esso rappresenta si pone esattamente alla metà fra due estremi, appunto, carichi di contenuto compiuto e realizzato di cui esso non è nessuno dei due e ne è parimenti carico del significato di entrambi.

Cosa succederebbe se prendessimo quel cerchio immaginario e lo “stendessimo” in modo da leggerne il significato in senso lineare?

Ada de Judicibus Lisena

Ada de Judicibus Lisena ha il merito e il privilegio di godere di un impianto critico notevole sia quantitativamente sia per lo spessore dei nomi che, nel corso dei decenni, si sono cimentati con la sua produzione poetica. Non farò qui il lungo elenco dei suddetti: devo però inevitabilmente sottolinearne almeno due: il prof. Vincenzo La forgia, con i suoi due volumi dedicati (V. La Forgia, La Lirica di Ada de Judicibus Lisena, Edizioni Mezzina, Molfetta 1998 e La seconda stagione di Ada de Judicibus Lisena, Edizioni Mezzina, Molfetta 2006), nei quali ripercorre tutta la produzione della poetessa identificando i punti fermi della sua poetica con indiscusso acume critico e uno stile straordinariamente elegante ed efficace e – mi sia consentito – soprattutto Marco Ignazio de Santis che nel volumetto La poesia degli «Istanti Puri» di Ada de Judicibus Lisena (Solfanelli, 2019), mettendo insieme anni di letture critiche elaborate attorno a ciascun volume edito dalla poetessa molfettese, intesse ed intreccia i fili di ogni singolo verso in un tessuto che finalmente riesce a svelare l’immagine complessiva lì contenuta direi in filigrana.

Mi pare colpisca nel segno ed è a lui che si deve l’identificazione – così chiara
– del nucleo fondamentale della poesia di Ada: l’istante puro, appunto.
Già anni prima il critico molfettese aveva sfiorato il nocciolo puntando l’indice verso un “attimo fuggente” che meglio “scontorna” e identifica nel volume del 2019 anche grazie al minuzioso e attento scandaglio degli stessi versi della poetessa ( «gli istanti puri sembrano poesia», da Le ore della poesia, 1984; «Istanti puri / nelle tue ore che le cifre assediano» da Nelle tue ore che le cifre assediano, 1986; «gli istanti puri della solitudine» da Non porti corona, 1986; «gli istanti puri […] sembrano necessità» da Necessità, 1986); tutte citazioni opportunamente collocate ad apertura del volume.
Ma cos’è un «Istante Puro»?

M. I. DE SANTIS, La poesia degli istanti puri di Ada de Judicibus Lisena, Solfanelli 2019

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In una delle più belle letture critiche di Ada ad opera di Marco Ignazio de Santis, contenuta nel volume Periferia centrale. Percorsi della poesia italiana nella Puglia degli anni ’80 (Levante Editore, Bari 1990), l’esegeta molfettese identifica ed isola un insieme di versi che egli stesso definisce già come «il nucleo centrale dell’ispirazione che ha dato nome e voce alla raccolta di Ada de Judicibus Lisena». Questi i versi sui quali è opportuno soffermarsi con estrema attenzione:

Ti richiama l’antica sirena
ormai afona normalità
altra sabbia d’altre clessidre altri occhi altre dimensioni.
Mia bambina
che torni alla tua casa di donna
[…]
Annoti sgomenta
l’inquieto fluire degli anni
Vieni cerchiamo la magica chiave
che aeree dighe rinserri
alla sorda fiumana del tempo.

Il titolo della raccolta (L’inquieto fluire del tempo) e questi versi alla quale appartengono e fanno eco, racchiudono e sintetizzano uno degli elementi fondamentali nella comprensione dell’essenza dell’Istante Puro: il senso del tempo e la sua percezione. Si veda l’utilizzo di espressioni come altra sabbia di altre clessidre / altri occhi altre dimensioni nella ripetizione quasi ossessiva del termine altro; oppure bambina che torni alla tua casa di donna o ancora annoti sgomenta l’inquieto fluire degli anni così come la sorda fiumana del tempo.

Non solo, tuttavia, senso del tempo; non una semplice constatazione nata dalla percezione del dolore, di quello su se stessi (annoti sgomenta): in questi pochi versi si addensano le sfumature essenziali della poetica di Ada sempre costantemente celate e nascoste dietro la singola parola perfetta, ricercata, collocata, limata, così come meglio proposta all’interno di un discorso lirico estremamente concentrato e perciò denso di molteplici significanti.

Senza anticipare i successivi passi di questo cammino articolato e mantenendo presente tanto questi versi quanto l’immagine iniziale, possiamo sottolineare come l’inquieto fluire del tempo e la percezione di esso non è solo – come ci si potrebbe banalmente aspettare – rivolta al passato.
Non si tratta della semplice e struggente osservazione dei segni che il tempo, trascorrendo, lascia sulle persone, sulle cose e, soprattutto, su se stessi. Investe anche – sorprendentemente – il futuro rendendo pertanto il concetto iniziale più “ecumenico”, più oggettivo, più totalizzante: «perfino gli anni a venire diventano “marea dell’inquieto futuro”» (M.I. de Santis, La poesia degli Istanti Puri cit., pag.18).

Anche il futuro sottostà alla stessa inquietudine del passato. Di più: se il passato offre compiute consapevolezze nella osservabile caducità delle cose umane, il futuro alimenta quell’inquietudine nella consapevolezza che ciò che è di là da venire pagherà dazio al medesimo destino di ciò che è già stato perché inevitabilmente destinato agli stessi percorsi e agli stessi esiti: il futuro inevitabilmente prima o poi diventerà passato nel suo inquieto fluire.

Se, pertanto, come si è detto in precedenza questa consapevolezza ormai matura non può limitarsi ad essere rassegnata osservazione, allora da
qualche parte deve esserci una qualche forma di reazione: Vieni, cerchiamo la magica chiave, ecco la reazione! Non è solo questione di “presente” come alternativa residua allo scontro fra passato e futuro. A dirla tutta,
nell’ottica dell’istante puro, il presente è talmente labile e provvisorio da
non poter essere neppure misurato che è già altro (altra sabbia d’altre
clessidre
).

Si tratta di una vera e propria risposta, non di contemplazione su contemplazione fine a se stessa. Un invito alla “battaglia” che nella poesia di Ada non è mai battaglia nel senso stretto del termine, né guerra a denti stretti e pugni serrati; piuttosto una risposta, un’indagine, una ricerca, anche una fuga: cerchiamo la magica chiave per evocare e provare serrature, concetti che rimandano all’apertura a spazi diversi, ad altre dimensioni. Provare una via d’uscita per vedere se ci si riesce ad aprire un varco pur sapendo di non riuscirsi completamente e nella consapevolezza di non sapere né potere sottrarvisi.

Ecco allora che l’Istante Puro diventa la vera risposta all’inquieto fluire del tempo: il tentativo velleitario di fermarlo tradotto nel bisogno possibile di identificarlo e isolarlo nel momento più vicino a una “beata eternità” completamente spoglia dai segni e dai connotati che la condannino a una contesto e a una gabbia temporale, per lo più tutt’altro che immobile. Sapendo che la sua inquieta mobilità ha, da ambo i lati il senso della
“non vita”.

Se tornassimo per un attimo a tradurre in modo lineare quel cerchio immaginario attorno all’Istante Puro rappresentato dal Discobolo, quell’istante (puro!) si rappresenterebbe esattamente al centro di un segmento, una timeline, che, stando da un lato (l’origine) e dall’altro (la fine), si pone esattamente nel punto più distante da entrambi senza poter tendere né verso l’uno né verso l’altro perché altrimenti sarebbe troppo l’uno o troppo l’altro.

E invece è un momento a sé, perfetto nella sua compiutezza e rotondo nella sua perfezione che si staglia immobile nella sua “beata eternità” perché distante parimenti dal non essere ancora e dal non essere più. Ecco, pertanto, come l’Istante Puro sia la stessa essenza della vita contro, da ogni altra parte, l’assenza della vita.

Se proseguissimo nel solco dei topoi letterari che spesso vengono chiamati in causa a proposito della produzione poetica di Ada de Judicibus, oltre al sentimento del tempo non potremmo non citare due macrocategorie proprie della riflessione letteraria, scientifica, antropologica e filosofica dell’uomo.
È innegabile che forte sia la presenza della contemplazione della natura nella poesia di Ada ma accanto a questa, e al tempo, profondo senso risolutivo assume anche il concetto di spazio come risposta nello stesso tempo “fisica” e concettuale a quanto elaborato finora.

A. DE JUDICIBUS LISENA, Poesie 1980-1996, Edizioni Mezzina, Molfetta 1996

Intanto la contemplazione della natura, che da Petrarca in poi – passando per Leopardi – è facile connotare secondo i criteri che tutti abbiamo imparato un po’ riduttivamente sui banchi di scuola, qui assume una dimensione diversa e più specifica se inserita all’interno del contesto appena descritto circa la logica degli Istanti Puri. Anch’essa non è risparmiata dall’abbraccio totalizzante di quella semantica.

Intanto non è mai fine a se stessa e questo lo sostengo con un certo malcontento di fronte a letture di questa poetica che troppo spesso la “riducono” tutta a senso della misura, contemplazione della natura e perfezione formale.

Qui la contemplazione della natura è innanzitutto un’azione, un tentativo di oggettivizzazione dell’osservazione della stessa, necessario a compiere, a realizzare, quella reazione intesa come unica risposta possibile (nel senso più latino del termine) all’ineluttabile. Oggettivizzazione vuol dire – anche – porsi al di fuori dell’oggetto osservato, non come presa di distanza ma per favorire una distanza che consenta allo “spettro visivo” del pensiero di raccogliere la meditazione filosofica nella sua dimensione (anche quantitativa) più ampia possibile. E in quel porsi al di fuori, in quell’osservare da lontano, si compie e si esalta la consapevolezza dell’inquieto fluire del tempo che sulla natura sembra più benevolmente cedere il passo all’Istante Puro. È allontanamento dal dolore. È come se nella natura l’Istante Puro trovasse la sua migliore realizzazione senza lo sforzo di doverlo cercare, costruire, fermare. È già lì. Godibile nella sua realizzazione perché il percorso sofferto che lì ha portato ci è stato risparmiato considerando l’economia del tempo che sulla natura ha parametri e cifre ben diverse dal percorso umano.

Mi si obietterà che l’identificazione con gli elementi della natura che spesso nella poesia di Ada si ritrova declinata in molteplici slanci e colori, smentirebbe quest’ultima osservazione.

È sicuramente vera e documentabile la presenza di tali processi identificativi ma è pur vero che si ritrovano sempre – mi sia concessa l’espressione – a Istante Puro compiuto.
Mai in qualcosa di diverso. Mai vicino a uno di quei due estremi di “non vita” né nei percorsi – in un senso o nell’altro – che tendono a quelli e che, come detto sopra, non sarebbero già più Istanti puri ma itinera di dolore viste le mete a cui tenderebbero.

E qui potrebbe aprirsi un livello di discussione ancora più ampio giacché, impostato e identificato in questo modo, l’Istante Puro può non essere affatto altro dal dolore o, meglio, può esistere anche un’Istante Puro di dolore se si accetta che mai il primo segue l’altro: tutt’al più lo contiene, lo soffoca o lo abbraccia e – anche in questo caso – lo ferma.

Se quindi l’Istante Puro è la vita stessa è facile comprendere come la contemplazione della natura sia l’osservazione proprio della vita nel suo momento più alto e sublime. E, parlando di azione, quella attraverso cui si compie è visiva, non passiva se si considera la restituzione che in un riflesso può generare l’azione dello sguardo.

Non a caso Daniele Giancane sintetizza quest’operazione e questa poetica con l’immagine di «specchio dell’esistenza» dove accanto alla maestosità della parola “esistenza” non meno potente risulta la funzione dello specchio. Anzi, probabilmente ne è il vero protagonista identitario.
Specchio dell’esistenza che, di riflesso, deve tradursi in qualcos’altro per non dover rassegnarsi ad una stasi improduttiva e deleteria fra la sterilità della contemplazione e l’ineluttabilità del tempo.

Se dunque al tempo non c’è rimedio, ecco chiamata in causa l’altra categoria caratterizzante la dimensione umana che non può che essere lo spazio. Che qui diventa ansia di spazio.

Si leggano questi versi, tratti da Non porti corona, a proposito di quanto detto finora:

Ami forse come me
sedere sulle panche di pietra
e, senza tempo,
salire alle cime più alte dei cedri

E se i cedri paiono ancora poca cosa, che dire dell’inevitabile richiamo dell’ultimo verso all’agostiniano «e vanno gli uomini alle cime più alte dei monti»?
Si leggano ancora questi altri versi tratti da una lirica il cui titolo è particolarmente indicativo, Il vostro momento di spazio:

Talvolta sorrido
e conto anni e rughe
Ma è bugiarda la mia ironia:
vi guardo con occhi d’esclusa

E ancora questi splendidi versi, da Come fumo di frasche, così chiari, esplicativi, potenti nel loro pervicace svilupparsi verso il cielo:

Come fumo di frasche […]
lasciare grovigli di arsura […]
Farsi voluta di danza […]
salire a un destino di spazio […]
E senza schermi confini,
dove l’aria diventa luce
fluire
svanire
facendosi cielo.

Appare chiaro, così, che nel tentativo di imprimere una direzione “terapeutica” a questa ansia, la stessa non può essere che verso l’alto. Se all’improvviso dicessi la parola spazio, dove è più probabile che si guarderebbe?
Ecco, quell’azione dello sguardo si fa espressione di una tensione ascensionale così evidente nello stralcio dei versi da Come fumo di frasche e probabilmente ancor più elaborata e sviluppata nella più recente Il Grattacielo, (edita nel n.115, p.149 della nostra rivista) dove forse sono i versi stessi a supplire egregiamente e chiaramente a una qualunque possibile lettura critica e filosofica della poetica in questione. Sono talmente chiari e così ben intersecati concettualmente da ritrovarvi sintetizzati tutti i temi affrontati in questa lettura.
Ne riporto qui alcuni versi scelti:

Quanto cielo, quanto cielo per me!
Io sono una casa che colloquia con le nuvole
al puro spazio apro mille finestre
[…]

Quanta gloria di cielo intorno a me!
Io tendo all’assoluto.
Aspiro agli astri
[…]

sul viale sui tetti che sovrasto,
come un diamante solitario
dono agli astri lo specchio delle mie vetrate
e li rifletto
[…]

Sono un inno ascensionale
il mio giardino pensile è un sospiro di verticalità.

Allora sì, è vero: probabilmente non che sia facile ma è sicuramente possibile incorrere nel rischio di fermarsi ad un livello di superficie che paia mettere di fronte ad una poesia che ad una prima lettura potrebbe svelare un atteggiamento contemplativo tutto osservazione inerte e struggimento.

In realtà c’é di più, molto di più: ben articolato e celato come grovigli d’arsura sotto cumuli di frasche, ceneri che restano ardenti nel loro ambire a farsi volute di danza per salire a un destino di spazio. È una poesia carica di un sottobosco di inquietudini, di volontà di reazione e di senso di impotenza, di tensione e ansia e di consapevolezza feroce.

In questo senso, sperando di non apparire completamente folle, si tratta di una poesia «carica a pallettoni», lì per esplodere sapendo che non esploderà mai; lì per reagire in modo scomposto e drammatico sapendo di non perdere mai il controllo, affidato – adesso sì – a un senso della misura e del pudore (anche come cifra stilistica) al quale non si rinuncerà mai; lì pronta a lanciare sapendo di non volere riuscire a concludere mai quell’azione. Insomma, lì ferma nei suoi Istanti Puri, ricercati, costruiti, voluti, realizzati, contemplati perché prima o dopo sarebbe stato altro.

La Poesia di Ada de Judicibus diventa così – entro margini più ampi della sola osservazione/meditazione/reazione – essa stessa l’Istante Puro della propria esistenza. Tanto concettualmente (per quanto detto fin qui) quanto concretamente, nell’atto stesso di mettere una penna su una pagina bianca nel tentativo di fermare un’ immagine, un pensiero, un momento diversamente condannato a percorrere la timeline che in un senso o nell’altro porterebbe a un estremo di “non vita”; a pietrificare e cristallizzare la ricerca di quella chiave che nella compiutezza di un Istante Puro può vedere e mostrare, contemplare e reagire, contenere e negare tutto ciò che al di fuori di esso è destinato ineluttabilmente a compiersi.
Come il Discobolo.

Vito Davoli

Intervento tenuto in occasione del tè letterario in onore di Ada de Judicibus Lisena presso il chiostro della Basilica Madonna dei Martiri a Molfetta organizzato dall’ Associazione di Promozione Sociale “L’Ora Blu”.
Domenica, 18 luglio 2021