26. Donna Amalia (la collezionista)

Donna Amalia.
Ah,donna Amalia del Bosche.
Anni 47.
Di professione collezionista.
Di quadri del 600.
Di mobili fiamminghi.
Di libri antichi.
Donna Amalia invitò la sera del 9 novembre il parroco del paese:
don Anselmo.
Anni 36.
A cena.
A benedire l’ultimo tassello della sua preziosa
collezione di libri antichi.
Trovato su una bancarella di Parigi.
Un “ Chiyote de la Mancha” del 700.
Don Anselmo pregustò la deliziosa cena che l’attendeva.
Era di casa nel palazzo di donna Amalia.
Da quando,6 anni prima,aveva preso il posto di don Michele.
Che aveva lasciato questa faticosa vita terrena proprio in casa
di donna Amalia.
Si era strozzato con una coscia di tacchino.
Al forno.
Il pomo d’adamo.
Non ce l’aveva fatto a deglutire.
Pace all’anima sua.
Voci maligne avevano dato la colpa ad un orgasmo più violento
del solito.
A bocca piena non aveva retto l’impatto.
A bocca piena.
Quella sua e quella di donna Amalia.
Voci maligne.
Fu accolto,don Anselmo,nella maestosa sala da pranzo.
Il maggiordomo in livrea.
Il maggiordomo gli aveva fatto prendere posto.
Il maggiordomo che era,con discrezione,andato via.
Ed eccola,donna Amalia.
Nuda,come sempre.
A lume di candela.
Gli fece assaggiare un capezzolo del suo seno generoso.
Gli sussurrò all’orecchio:”benvenuto,don Anselmo.”
“Benvenuto in casa della tua peccatrice.”
E si sistemò a cavalcioni sul prete.
“Hai fame ,don Anselmo?”
“Da quale parte vuoi cominciare?”
Prese un calice di Brut Magnum Bellavista del 2012
e lo versò nella bocca spalancata del prete.
Cominciò a strofinare il suo bosco di fiordaliso
sulla patta del sottostante don Anselmo.
Fino al rigonfio del contenitore e del contenuto.
“Benedici questa tavola,don Anselmo.”
E gli sfoderò l’arnese.
“Entra in me e placa la mia debole carne”
“Allontanami dal peccato”
E la sua selva ingoiò l’intimità turgida di don Anselmo.
“Nutriti come io mi nutro”
“La mia coscia e le tue cosce”
E ficcò una coscia di tacchino nella bocca spalancata
e ansimante di don Anselmo.
“Ahhhhhhhh……ah!!!!!”
Non è possibile stabilire il momento della trasformazione
in rantolo del gorgheggio di don Anselmo.
Donna Amalia venne.
Don Anselmo venne meno.
La cena si freddò.
Anche il suo corpo.
E le dicerìe di paese si rinverdirono.

Alfredo Vasco

33. La prima messa

Don Eustachio aveva solo 26 anni.
Gli era stato affidato il primo gregge di anime.
923 abitanti.
Il paesello di Ponzio Lupestre.
In pieno appennino.
Con emozione spense il motore della sua Panda.
Che respirò soddisfatto ed esausto.
Dopo essersi inerpicato a fatica e a sbuffi sui pendii che si
erano susseguiti fino ai 1728 metri sul mare di Ponzio Lupestre.
La serata era umida ed abbastanza fredda.
Aveva piovuto fino a mezz’ora prima.
E l’altitudine si faceva sentire.
Don Eustachio aprì la porta che dava alla sacrestia.
Era voluto venire il giorno prima di quello previsto.
Quasi in incognito.
Per evitare clamori.
Acclimatarsi.
Placare il batticuore.
Prepararsi.
Il vecchio sacerdote,sceso a Macerata,gli aveva dato le chiavi.
Della sacrestia e del suo alloggio.
Vi avrebbe dimorato per un po’.
A don Marzio non serviva più.
A 88 anni aveva preferito le cure e le coccole di una casa di riposo.
Don Eustachio aprì la porta.
Entrò nella sacrestia.
Fu invaso da un odore di incenso.
Un celestiale odore di incenso.
La stanza era piccola ma in ordine.
Tre scalini a sinistra.
Come gli aveva descritto don Marzio.
E di lì l’accesso al retro dell’altare.
Salì gli scalini con cautela.
Con sorpresa l’altare era illuminato.
Tutti i ceri accesi.
Che succede?
Fece qualche passo avanti.
E fra i banchi della chiesetta un centinaio di corpi incartapecoriti.
Marcescenti.
Putrefatti.
Cadaveri.
Zombi.
In prima fila uno di questi,con la fascia tricolore,che gli fasciava
il corpo purulento,si alzò in piedi e con voce cavernosa disse:
“Benvenuto,don Eustachio,benvenuto nella nostra comunità.
Siamo il comitato di accoglienza.Siamo i morti degli ultimi 26 anni.
La prima messa,per tradizione,deve celebrarla a noi.”
Il giovane prete fu preso da un terrore ancestrale.
Gli occhi sbarrati non riuscirono più a chiudersi.
Non una parola.
Non un grido.
Non un respiro.
Morì così,ai piedi dell’altare.
Senza essere riuscito a celebrare la sua prima messa.

34. Il miracolo del chupa chupa

Il vecchio prete salì a fatica le scale che lo portavano
alla sua modesta dimora.
Finalmente a casa.
La giornata era stata faticosa.
Officiare tre messe.
Confessare tredici fedeli.
Ascoltare i peccati commessi.
Vibrare di sdegno per colpa delle strategie del demonio.
E poi supervisionare la catechesi.
Correre da Giovanni Macchia che stava morendo.
Somministrargli l’estrema unzione.
Si erano fatte le otto di sera.
All’opera dalle cinque e trenta del mattino.
Solo un breve sonnellino pomeridiano.
A ottantacinque anni non era poco.
Finalmente a casa!
La perpetua lo accolse con il suo sorriso pieno di denti bianchissimi.
E la pelle scura.
Era una nigeriana.
Una brava ragazza.
Un donnone di novanta chili.
Lo riempiva di coccole e attenzioni.
Parlava un italiano tutto suo,ma era sufficiente per capirsi.
Naomi lo sorprese accaldato e affannato.
“Oh,mio prete bianco di vecchiaia,tu non molto lavorare,tu sedere,
tu lasciare tutto fare alla tua Naomi,no rispondere,io te fare guarire
da stanchezza.Io te fare chupa chupa.”
E fece sedere il vecchio prete.
E gli sbottonò la patta dei pantaloni.
E gli tirò fuori il pene avvizzito.
E,dopo averlo preso in bocca,cominciò a praticargli il chupa chupa.
Come faceva da sei mesi.
Da quando era diventata la perpetua del vecchio prete.
Don Mario chiuse gli occhi e si lasciò andare.
Al chupa chupa.
Alle sue delizie.
A quella pratica africana che gli spazzava via ogni affanno.
E si lasciò andare,quella sera più di tutte le altre sere.
Il suo respiro divenne affannato come tutte le altre sere.
Pronto a raggiungere l’acme,antipasto del Paradiso.
Poi tutto si bloccò.
Repentinamente.
La sua propaggine si ritrasse di colpo.
L’affanno cessò.
Anche il respiro.
Anche il battito del cuore.
Suonarono le campane di San Pietro.
Ed il Paradiso spalancò le sue porte.
Don Mario,smarrito e a calzoni abbassati,si ritrovò al cospetto di Dio.

Alfredo Vasco