Bisogna sempre tornare ai maestri. A coloro che ci hanno insegnato a meravigliarci davanti alla poesia, a restare basiti per la sua profondità. Del resto, anche Federico Garcia Lorca chiamava ‘maestro’ Juan Ramon Jiménez (1881 – 1958), premio Nobel 1956.

Di Jimenez sorprende come sempre – in tutti i suoi testi – che ci sia una sorta di illuminazione, di splendore. Jimenez è il poeta che ha scritto il più bel distico del Novecento e forse di tutta la poesia moderna (è un mio parere, ovviamente): «Tu non toccarla più! Perché così è la rosa», che si presta a mille interpretazioni. Il poeta del «Non correre, vai adagio, perché tanto è da te stesso che devi andare».
Sfoglio a caso Pietra e cielo:

Quanto mi rallegro, dopo,
d’esser rimasto con me!
Doveva essere un minuto,
cuore, ed è stato l’infinito!

oppure:

Come non siamo unici!
Come ci confondiamo, l’uno nell’altro, sempre,
col sangue che si mescola,
del sentimento! Come si piange, si ride
con gli altri!

Juan Ramon Jiménez (1881 – 1958)

C’è materiale per dare un senso a queste giornate di fine dicembre. E voglio concludere l’anno con le poesie di Juan Ramon Jimenez, che alla Casa degli studenti, a Madrid, tutti chiamavano ‘maestro’, sia perché aveva qualche anno in più di Lorca e Alberti, sia per la sua infinita sapienza letteraria e la profondità assoluta dei suoi versi, che stanno tra il linguaggio poetico, la filosofia, la teologia laica, in uno splendore linguistico fascinoso. Come quando scrive dei ricordi:

Questo istante
prossimo già al ricordo, cosa è?
Musica pazza,
reca colori che non sono stati
– che hanno brillato
in quel meriggio d’oro, amore e gloria,
questa musica
cos’è, che viene meno?

* * *

Resisti, istante, sii ricordo
– ricordo, tu sei più, tu che trapassi
senza fine la morte col tuo dardo,
sii ricordo, mentr’ io sono già lontano!
… Oh sì, passare, non essere istante,
essere perennità nel ricordo!

* * *

Memoria immensa mia,
d’istanti che sono passati da secoli,
eternità del cuore della morte!
… Istante, passa, tu che sei me stesso!
L’istante, questo tu
che morendo si afferma, cos’è?

* * *

Simili a dune d’oro
che vanno e vengono, sono i ricordi.

Li porta con sé il vento e stanno dove sono,
sono dove sono stati,
dove dovranno stare… Dune d’oro

Colmano tutto, intero
mare d’oro ineffabile,
che il vento anima… Sono i ricordi

* * *

Non dileguare, ricordo, rimani!
Volto, non ti disfare così,
come la morte!
Seguitate a guardarmi, grandi occhi,
come m’avete guardato un momento!
Sorridetemi, labbra,
come un istante m’avete sorriso!

… Sii me stesso, ricordo!
Sii eterno e che io mi cancelli!

* * *

La fiumana passa sotto
la mia anima e mi scalza.
Mi sostengo a fatica
in me stesso. Non mi regge
il firmamento. Le stelle
m’ingannano…

Sono? Sarò!
Ma fatto onda
del fiume del ricordo.

Sì, vengo, acqua che scorri!

Ed anche oggi possiamo riflettere ed emozionarci, davanti a questi gioielli di poesia. Versi di un poeta meraviglioso dalla vita intensa e tragica. Il suo amore ininterrotto per Zenobia è una sorta di archetipo, ma la tragicità della sua fine è terribile.

Dunque, Jimenez vince a sorpresa (non ci pensava affatto) il Nobel nel 1956. Gli dà la notizia la sua adorata Zenobia. Ma la vita sa essere crudele: pochi giorni dopo Zenobia muore. A Moguer, in Andalusia, c’è un piccolo museo: è la casa Jimenez-Zenobia. Forse è l’unico dedicato ad una coppia, quasi a volerli pensare insieme, uniti per sempre.

Riporto di Jimenez tre versi, semplici ma illuminanti (potrebbero essere l’intestazione di una biblioteca o di una libreria):

LIBRO

Libro, che ansia
di stare in ogni luogo,
in solitudine!

Daniele Giancane