«Cari bambini d’Italia,
Ascoltate le parole del Duce! Creando una legge per la protezione degli animali Egli ha detto: ‘Abbiate pietà degli animali! Chi maltratta gli animali non è Italiano’. Ed ascoltate la vecchia amica degli animali, che ve ne presenta qui alcuni, perché a nome di tutti vi domandino aiuto e protezione»1.

1 E. Dentice di Frasso, I migliori amici, Moscheni, Trieste 1935, pp. 10-11.

Con queste parole aveva inizio il volume I migliori amici, raccolta destinata ai fanciulli, edita dal triestino Moscheni nel 1935 e opera di Elisabetta Schlippenbach, contessa Dentice di Frasso.
Una figura meritevole di approfondimento sotto il profilo letterario la castellana di Carovigno. Una storia dolorosa alle spalle, raccontata, sino alla soglia dei ventinove anni, in una preziosa memoria, Ein Menschenleben aus der Vergangenheit (Una vita che giunge dal passato), racchiusa in un dattiloscritto conservato presso l’Archivio Dentice di Frasso di San Vito dei Normanni e pubblicata con introduzione e traduzione di Francesca Pedrocchi per i tipi di Milella edizioni nel 2007.

Austriaca, la Schlippenbach, sulla quale ricordiamo anche il volume monografico di Enzo Filomena2, visse tra il 1872 e il 1938, quando morì tragicamente in un incidente automobilistico.

2 E. Filomena, La Contessa Elisabetta Schlippenbach. La vita. Le opere. Il pensiero,
 Edizioni Pugliesi, Martina Franca 2003.
E. FILOMENA. La Contessa Elisabetta Schlippenbach. La vita, le opere, il pensiero, Edizioni Pugliesi 2003

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Rimasta orfana di padre, aveva assistito alle seconde nozze della madre con un patrigno a cui peraltro sarebbe stata affezionatissima. Il rapporto con la madre, invece, umbratile e concentrata su di sé e sulle sue doti artistiche, risultò difficile sin dall’infanzia, per poi migliorare nell’età matura.

Non ancora quindicenne, fu promessa sposa al conte John Palffy, notizia che apprese dal diretto interessato in una cornice fiabesca e al contempo straniante, quella dell’ungherese festa del raccolto. Nel maggio del 1889, il “maestoso duomo di Bratislava” fu teatro delle sue nozze, luogo della deposizione della “pietra angolare della nostra vita fallita”3.

3 E. Schlippenbach Dentice di Frasso, Una vita che giunge dal passato, trad. di F. Pedrocchi, Milella, Galatina 2007, pp. 30-31.

«Da bambina sono stata scaraventata nel pieno della vita seria e malgrado le mie buone potenzialità dovetti partecipare al grande concerto della vita come principiante stonata»4, scriverà nel suo memoriale, un prosimetro in cui spesso trovano spazio interessanti versi racchiusi in un’altra sua opera, senz’altro meritevole di una nuova edizione, i Gedankenwanderungen (Itinerario dei pensieri), tra aforistica ed espressione lirica.

Il lettore attento coglie subito lo sguardo trasfigurante della Schlippenbach, evidente in passaggi come la splendida descrizione della notte della nascita dell’amatissimo figlio Paul, avvenuta nell’inverno 1890, «in una notte di luna piena serena e tersa. (…) Mio marito e il mio caro papà stavano accanto al letto e mi colmavano di attenzioni e cure, mentre la luna piena mi mostrava il suo viso chiaro riversando una luce argentea sulle coperte»5.

4 Ivi, p. 34.
5 Ibidem

Purtroppo le nozze Schlippenbach-Palffy si rivelarono un connubio mal riuscito. Alla fascinazione superficiale dei primi tempi subentrò la nitida consapevolezza di una profonda incompatibilità caratteriale, una sorta di reazione chimica avversa e irrepugnabile. La scelta del divorzio, inconsueta per l’epoca, in cui più facile sarebbe stato adagiarsi nella comodità di relazioni extraconiugali, fu pagata a caro prezzo con l’allontanamento dal figlio e la difficoltà di mantener vivo un rapporto contro il quale molti remavano contro.

La donna, che si era imbarcata in una relazione inquieta con un giovane ufficiale, cugino del marito, giocatore incallito (legame poi sciolto con grande sofferenza alle soglie delle nozze), avvertì su di sé tutto il peso dello stigma sociale, accanto alla nostalgia bruciante per il figlio e la casa perduta. Questo stato d’animo angosciato trovò espressione in versi come questi: «Perduta e strappata: / Ho perso la mia dimora, non ho più casa e vado e vengo ora da altre persone. / (…) Oh, Dio in Cielo, ascoltami, il mio dolore è grande e puro, / Tu, nostro giudice supremo, dimmi, ma hanno ragione?”6.

6 Ivi, p. 78. Cfr. anche E. Schlippenbach, Gedankenwanderungen (Itinerario dei pensieri), adattamento italiano di C. Perrucci, trad. di U. Hebel, in Filomena, La Contessa Elisabetta Schlippenbach. La vita cit., p. 125.

Nel suo Itinerario dei pensieri si leggono continui inviti alla comprensione dell’animo umano. «Lasciate che ogni essere dischiuda la sua indole (…) Anche se non potete comprendere tutto, lasciate che anche la parte incompresa resti sacra»7. Eppure il destino, come scrisse, le insegnò “la dolce rassegnazione”.

Non credo sia casuale che nel suo Itinerario trovi spazio un elogio del cardo dal sapore leopardiano; se la rosa, scriveva la Schlippenbach è protetta e curata con affetto, «i poveri cardi nello scarso suolo languenti» sono sprezzantemente calpestati dall’uomo. Se però la rosa deve docilmente inchinarsi alle carezze della mano umana, «il selvaggio fiore del cardo tiene duro anche nella morte». La bellezza della rosa risplendeva così “vincente” sul mondo, ma lei considerava ben più degno di meraviglia «il coraggio testardo del cardo»8.

7 Ivi, p. 101.
8 Ivi, p. 97.

Seguiva una sorta di recusatio rosae, che suonava come invito a non cedere alla beltà insidiosa di ciò che appare. Non è casuale come spesso la Schlippenbach vestisse la natura, per lei, insieme alla musica, fonte perenne di consolazione, di immagini di dolore e forza al contempo.

Nei notevoli aforismi di Anima mia discorriamo…, all’icona – già più scontata – degli ulivi “tristi e contorti” come “simbolo del dolore”, l’autrice affiancava quella, più vibrante, del cipresso, assimilato allo spirito non per lugubri fantasie, quanto per la sua monumentalità. «Anima fiera sei come quel cipresso altissimo, che sembra una colonna monumentale destinata a reggere l’arco sconfinato del cielo, e che vidi nella tempesta curvare appena la cima»9.

9 E. Dentice di Frasso, Anima mia discorriamo… della vita... dell’amore della fede, Arti Grafiche Smolars & Nipote, Trieste 1930, p. 98.

Nel dicembre 1905 furono celebrate le nuove nozze con il conte Alfredo Dentice Di Frasso, ammiraglio, destinato a diventare, dopo la prima guerra mondiale, Governatore di Trieste e a ricoprire varie cariche, dedicandosi anche all’attività parlamentare. I due coniugi fecero restaurare – operazione compiuta tra il 1906 e il 1914 – il castello di Carovigno, ricevuto quale dono di nozze al momento del matrimonio, e ne fecero il loro buen retiro, favorendo l’istituzione in esso di un lanificio-scuola, volano per l’attivazione di una “tipica industria pugliese, quella della lana”, e – su espresso desiderio della Contessa – di un orto botanico-sperimentale10.

10 Filomena, La Contessa Elisabetta Schlippenbach. La vita cit., pp. 60 68.

Fu durante il suo matrimonio che la Schlippenbach pubblicò due opere in lingua italiana. Al 1930 risale la stampa triestina, per le Arti Graf. L. Smolars e Nipote, del già citato Anima Mia discorriamo: della vita… dell’amore… della fede, zibaldone di pensieri, in alcuni casi poi incastonati nella partitura di Ein Menschenleben aus der Vergangenheit, l’opera che si pone alla confluenza di tutti gli scritti della Dentice di Frasso, compendiandone le direttrici e presentandone in nuce tutte le tematiche.

Aforistica e memorialistica sembrano rappresentare gli ambiti di eccellenza della Schlippenbach, dalla scrittura elegante e sorvegliata, a tratti lirica, soprattutto nelle rappresentazioni di una Natura possente e maestosa e del potere della musica e del canto, come già accennato suoi grandi amori. L’ironia e il disinganno rappresentano il controcanto continuo delle illusioni che l’indole sensibile e inquieta della donna era stata indotta a concepire.

La raccolta di racconti ispirati dall’intento di diffondere tra le giovanissime generazioni il rispetto per gli animali, I migliori amici, rappresenta invece un unicum nella produzione della Dentice di Frasso, pur fondandosi su precise posizioni di principio evidenti anche negli altri scritti dell’autrice.

Nel memoriale, infatti, la donna narrava come una battuta di caccia di selvaggina grossa avesse rappresentato la cornice dell’innamoramento verso quello che definiva il suo “più caro amico”. «Un giorno sei giunto per cacciare nel cupo bosco autunnale / i fiori dormivano già, l’aria era fresca e tersa / anche nei nostri cuori regnava il silenzio autunnale / ché da molto nessun raggio di sole li aveva più raggiunti». Così si erano disinteressati del resto della brigata «e quando loro si fermavano a sentire la selvaggina / noi sentivamo soltanto i passi silenziosi dell’amore»11.

11 Schlippenbach Dentice di Frasso, Una vita che giunge dal passato cit., p. 45.

Questo momento di intensa comunione spirituale veniva preceduto da una riflessione della contessa sulle “battute di caccia grossa”. La donna dichiarava di aver partecipato ad esse “con speciale piacere” e di essersi impratichita nell’uso del fucile. Evidenziava, però, come gli elementi che più amava di tali circostanze erano più che altro “il contesto” e la forza aggregatrice dell’attività venatoria: “addentrarsi nel bosco profondo”, percepire “il buon umore dei cacciatori”, godere del “movimento all’aria aperta” o della “trepidante attesa nel silenzio assoluto”, seguita poi dall’“emozione quando l’animale si avvicinava”. La contessa proseguiva, però, evidenziando come col tempo tale entusiasmo fosse scemato; ella aveva realizzato che quello che guida l’uomo nella caccia è uno degli istinti più primitivi e brutali che si possano concepire.

Si era resa conto che era crudele infliggere sofferenze e «divertirsi a inseguire, ingannare e uccidere un essere vivente». Non a caso, negli Aforismi di anima mia… discorriamo, avrebbe accostato all’attività venatoria le sferzate dell’umana intolleranza, sostenendo che la società umana «Caccia i suoi condannati con feroci frustate morali e li perseguita con i suoi cani mordaci; ma lo fa sempre ‘in nome della morale e della giustizia’»12.

12 Dentice di Frasso, Anima mia discorriamo… cit., p. 42.

Ovviamente, in tali accenti risuonava l’amarezza legata alla sua esperienza personale. Tornando al passo esaminato del memoriale, la contessa affermava di aver riflettuto sulla natura degli animali e di essere giunta alla conclusione ch’essi fossero dotati di un “certo livello di sviluppo mentale” e che soffrivano per la perenne e selvaggia lotta per la sopravvivenza cui erano quotidianamente sottoposti. Concludeva asserendo che «la sofferenza degli animali è una delle tragedie maggiori del mondo che la maggior parte delle persone non degna né di un pensiero né di un sentimento»13.

13 Schlippenbach Dentice di Frasso, Una vita che giunge dal passato cit., p. 45

È appunto il concetto sviluppato nella raccolta I migliori amici, dedicata, come già scritto, ai “Cari bambini d’Italia” e costituita da nove brevi racconti, per un totale di ottantatré pagine.
Protagonisti delle vicende animali che subiscono atti di rifiuto, abbandono e talvolta anche violenza da parte degli uomini, ma si rendono artefici di gesti di silenzioso eroismo, giungendo non di rado addirittura a salvare delle vite.

L’autrice mostra di dedicare una certa attenzione anche alle simmetrie, pur nell’esigua architettura della raccolta. Non è casuale come il primo racconto, dedicato a Fido, il cane fedele veda l’animale domestico (allontanato dal nucleo familiare, in assenza del pater familias, per la difficoltà in tempo di guerra a sfamarlo insieme al più utile maiale) sventare il furto del suino da parte di una combriccola di ladri ed essere riaccolto trionfalmente in casa. Le minacce provenienti dall’esterno delle mura domestiche, con l’irruzione di ladri violenti nel microcosmo casalingo (qualcosa di affine avveniva, con esito ben più tragico nel deamicisiano Sangue romagnolo), affioravano nuovamente nell’ultimo racconto, Loro, in cui un pappagallo coraggioso conduceva all’identificazione e all’arresto dei furfanti che avevano aggredito e quasi ucciso la sua padrona.

L’opera si concludeva con un vero e proprio trionfo dell’animale, che pure – concludeva la Dentice di Frasso – sarebbe rimasto “buono e docile senza insuperbirsi come avrebbero fatto molti uomini”14.

Simmetricamente, anche il secondo racconto e il penultimo presentano elementi di affinità. L’uno era consacrato a L’asino Ciuffo e l’altro a Bruno, il cane eroico. In entrambi i casi ci troviamo di fronte all’immagine di un animale che rifiuta di eseguire gli ordini impartiti dai suoi padroni. Dinanzi a un passaggio a livello, Ciuffo “si fermò di botto, e non vi era mezzo di farlo muovere”. Il piccolo “Alberto saltò giù dal carrozzino, prese l’asino alla testiera e cercò di tirarlo a tutta forza in avanti, ma inutilmente; Ciuffo era più forte e resistette”15.

14 Dentice di Frasso, I migliori amici cit., p. 83.
15 Ivi, p. 24.

In realtà, l’apparente disobbedienza dell’animale si rivelerà salvifica per i due fanciulli, impedendo loro di essere travolti dall’arrivo del treno, imprevedibile dal momento che il guardiano del casello, per un malore, non aveva potuto “abbassare le aste” del passaggio a livello. In Bruno, il cane eroico quest’immagine ritorna, con una leggera variazione. Questa volta è il cavallo su cui il signor Carlucci si sta dirigendo verso la fabbrica di cui è proprietario a non voler più andare avanti, a causa di una “piaga dolorosissima”.

L’uomo soccorrerà l’animale e, quando tutto apparirà appianato ed egli vorrà proseguire il viaggio, ecco che a disobbedire sarà il fedele cane Bruno. Quest’ultimo, rifiutandosi di riprendere il cammino, comincerà a saltellare insistentemente, come invasato: “poi si diede a tirare i piedi del padrone ed appariva così agitato che questi si spaventò all’idea che fosse diventato rabbioso”. È così che, stizzito, Carlucci, per un’incomprensione riconducibile a superficialità nella valutazione delle circostanze, ferirà col bastone il cane, salvo poi pentirsi di ciò, quando scoprirà che l’amico voleva soltanto segnalargli che stava abbandonando, inavvertitamente, la borsa di cuoio contenente il danaro per pagare gli operai. Tornato indietro, avrebbe trovato l’animale, ferito, intento a coprire con una zampa la borsa del padrone. Ecco quindi affiorare l’idea della Schlippenbach che gli animali siano dotati di “un certo sviluppo mentale” e che gli uomini dovrebbero porsi in ascolto dei loro segnali anziché ignorarli o, peggio, addirittura punire quei comportamenti che non risultino immediatamente spiegabili.

Il terzo racconto e il terzultimo sono accomunati dal fatto che è un animale, il cane Bella nel primo, il gatto Muccio nel secondo, a salvare da morte certa il padroncino in un caso e, nell’altro, a recargli conforto nel momento in cui, a letto a causa di una malattia, è colto dallo sconforto. In ambedue i racconti, un ruolo importante è ricoperto dall’atto di dissetare il prossimo: in Bella, Giorgio, attraversando il deserto libico, rischierebbe di morire se l’animale non lo guidasse verso l’unica oasi nei dintorni rimasta intatta. In Muccio – così chiamata dal gatto “buffo e grazioso” che verrà adottato dal piccolo Antonino – è il fanciullo a stabilire il primo contatto con l’animale macilento, offrendogli una ciotola di latte.
L’animale è inizialmente diffidente; poi, come descrive la Schlippenbach,
dando prova della grazia del suo stile di prosatrice, «tirò fuori la sua piccola lingua, che sembrava una fogliolina di rosa, ed incominciò a leccare la deliziosa bevanda».

Il racconto Bella presenta un ulteriore elemento di interesse, l’ambientazione libica; seppur decisamente stilizzata, essa ammicca a una fase importante della storia d’Italia. Non dimentichiamo che nel 1934 era stato proclamato il Governatorato generale della Libia, che, nell’immaginario della contessa, diveniva un tutt’uno con le dure fatiche legate alla produttività della terra e con la siccità, dannosa all’agricoltura e all’allevamento.

Del resto, l’autrice sceglieva di localizzare – anche valendosi di un’ampia indicazione toponomastica – il racconto tra Tarhuna e Beni Ulid (oggi nel
distretto di Misurata), in quella che definiva «la parte meno abitata e meno
fertile della Tripolitania». Qui – e quella di dare generalmente nome e cognome ai protagonisti, conferendo concretezza e verisimiglianza alle narrazioni, è un’altra caratteristica dei racconti della silloge – si svolgevano le vicende della famiglia Santoro, con l’adozione di fatto (pratica anche questa non poco diffusa) da parte di una coppia di zii senza prole di uno degli otto figli della famiglia, il protagonista Giorgio. Proprio il percorso di raggiungimento della fattoria dei genitori adottivi avrebbe messo a repentaglio la sicurezza del giovinetto. Complice una carta topografica non aggiornata, “sotto il sole ardente dell’estate”, il padroncino e l’animale avrebbero corso il rischio di andare incontro alla morte per disidratazione.

La narrazione si arricchisce di componenti fiabesche: l’ambientazione esotica, l’allontanamento da casa che si trasforma in privazione, il meccanismo della triplicazione, applicato alle oasi, la presenza di un aiutante (non magico), il cane Bella, e anche l’immancabile lieto fine. Più complesse dal punto di vista delle implicazioni le tre fiabe collocate al centro della raccolta.

Forti elementi di contatto, a partire dal titolo, sono ravvisabili in Gli agnellini e Le rondini. In entrambi i casi, il danneggiamento fiabesco è purtroppo concreto e porta alla morte di piccoli animali. Nel caso del primo racconto, l’apertura è idillica. «La piccola Sabina era tutta felice. Saltellava giocando in mezzo a un gruppo di agnellini nati da poco». Non manca la descrizione, all’insegna ancora una volta della grazia, degli animaletti, «con gli occhi grandi, lucidi e puri, come di cristallo».

È, inoltre, sottolineato il rapporto affettivo con le madri. Lo sfondo è quello di una primavera luminosa dai prati in fiore: tutto, insomma, lascerebbe pensare a una simbiotica comunione Uomo-Natura. Subito dopo, però, si verifica la svolta: il padre di Sabina, Francesco Murani (ancora una volta i personaggi, immaginari, sono identificati con nome e cognome), ha venduto gli agnellini, ormai pasciuti, per la macellazione. Quando la bambina assiste al pietoso spettacolo dei piccoli sottratti alle pecore, «coprendosi gli occhi con le manine», disperata, corre verso la stalla e, inciampando su una «grossa stanga di ferro», cade e batte la testa, perdendo coscienza.

La bambina rischierà la vita, in una sorta di drammatico contrapasso che vede Murani rischiare di perdere la figlia esattamente come avvenuto alle madri degli agnelli. L’uomo rivolge una preghiera al Signore, atto cui seguirà un sogno eloquente: gli apparirà “il Salvatore nella veste bianca e luminosa”, con “un agnello nelle braccia”. È evidente l’intenzione edificante della Dentice di Frasso, in un percorso di cristificazione degli agnelli, che trae linfa vitale dal fatto che Cristo stesso, liturgicamente, sia considerato l’agnello sacrificale immolato per redimere l’umanità dal peccato originale. Il movimento compiuto nel racconto accosta dunque la sofferenza umana a quella animale, il dolore del padre di Sabina per la possibile perdita della piccola e quello delle pecore per la morte, reale, dei loro figli. La conclusione cui l’uomo approderà è quella che bisogna «rispettare la legge che proibisce di maltrattare gli animali, per diventare degni di essere uomini».

Tutto è più asciutto nelle Rondini, che si apre con la descrizione gioiosa di una piccola stalla, dove, “sotto l’architrave” che sovrasta le teste delle mucche, hanno nidificato alcune rondini. Gli uccelli offrono il loro contributo al buon andamento della vita comune, tenendo lontane le mosche. A contribuire all’instaurazione di un’atmosfera amorevole e di un’aura pacifica la conduzione della custode Giovanna. Anche qui, però, si determina un allontanamento che spezza l’armonia generale. Per la
morte della madre, la donna deve allontanarsi dalla fattoria ed è sostituita da Teresa, anaffettiva e brutale. Quest’ultima, seccata per la sporcizia, abbatte il nido e, pestandoli con gli zoccoli, riduce “le povere bestiole una massa sanguinante”. Nel microcosmo costituito dalla Schlippenbach, tuttavia, diversamente da quello reale, non c’è spazio per la malvagità impunita. L’antagonista degli animali sarà castigata per effetto di un incidente connesso proprio ai fastidi arrecati da quelle mosche che le rondini tenevano lontane.

Ne riporterà un danno permanente che consentirà il ritorno di Giovanna al lavoro; quest’ultima, rientrata dal viaggio per accudire il padre, col suo canto, darà nel finale nuovamente il benvenuto alle rondini.

La Schlippenbach, in questi brevi racconti, mostra come la giustizia divina sia pronta a dispensare pene e premi quasi fosse una sorta di perfetto ingranaggio. Ogni atto di hybris dell’uomo nei confronti dei “migliori amici” è presto bilanciato da una sciagura, non di rado foriera di nuove consapevolezze. È il caso di Vinco, un “poderoso cavallo grigio, non più giovane, ma fiero di portamento”, appassionato di “esercizi militari” per il suo passato “al servizio della Patria”16.

16 Ivi, p. 47.

Non sfugga come nel narrato della Dentice Di Frasso un ruolo importante abbia proprio il mondo militare, da cui provenivano i suoi più profondi affetti. A determinare il ‘danneggiamento’ sarà questa volta l’entrata in scena del giovanissimo Beppe, teppistello che ‘sprofonderà’ il suo temperino nella spalla dell’animale, ferendolo, per pura crudeltà. L’autrice non mancherà più volte di commentare la gratuita cattiveria all’origine di questo gesto: “È possibile che ci sia un cuore di bambino che non senta pietà e si diverta a tormentare gli animali?”, si chiederà assumendo il punto di vista del padrone del cavallo, il dottor Salvini.

L’ambientazione del racconto è ben costruita; pochi semplici tratti, compresi la presenza di Aurelia, fidata domestica del medico, e il particolare del pollo arrosto servito a tavola il giorno del ferimento, concorrono a pennellare un’atmosfera calda, di genuina e confidente apertura alla vita. Il ragazzaccio, non a caso, si ammalerà subito dopo di difterite e, per paura delle conseguenze di un incontro con Salvini, esorterà il padre a non ricorrere subito al dottore, determinando inevitabilmente un serio aggravamento delle proprie condizioni. Ancora una volta, dunque, la hybris degli uomini a danno delle creature animali finisce con l’innescare una reazione a catena dalle conseguenze imprevedibili e non di rado pericolose.

Una prova fresca e sincera quella della Schlippenbach nell’ambito della letteratura per ragazzi, connotata da uno stile curato, elegante nella sua semplicità. Se le corde più intense e notevoli della contessa restano quelle dell’aforisma in Anima mia discorriamo… o del bel memoriale, quest’opera, ben incastonata nella temperie storica che, pur tra mille contraddizioni, avrebbe poi portato nell’aprile 1938 (anno della morte della Dentice di Frasso) all’istituzione dell’“Ente nazionale fascista per la protezione degli animali”, rappresenta una curiosa operazione, indice della grande sensibilità e della modernità dell’autrice nell’intercettare tematiche oggi di grande attualità.

Gianni Antonio Palumbo