«Un tempo, se ricordo bene, la mia vita era un festino in cui tutti i cuori si aprivano, tutti i vini scorrevano»

“Io è un altro”.
Chi può aver scritto una frase del genere? In questa frase c’è un abisso di significati. Un Oceano di profondità.
Già dire “Io sono un altro” ci inquieterebbe. In che senso “Io sono un
altro?”. Io non ho identità? Io sono schizofrenico e quindi mi sdoppio in un’altra persona? Come faccio ‘io’ ad essere un ‘altro’?’
Ma qui si va più in là ancora: “Io è un altro”. Cioè la mia identità (‘io’) va osservata come terza persona. Uso, per indicare me stesso, la terza persona del presente indicativo. Ma allora esiste l’Io?
A questo punto: che significa ‘è’? Esserci. Vivere. L’Essere è una convenzione?

Uno pensa: questa frase deve averla scritta un sapiente. Uno che ha trascorso la vita a pensare. Freud, per esempio, che ha sondato gli abissi umani. O Jung. O, meglio ancora, Dostoevsky.
E invece no: la scrisse un ragazzo di diciassette anni, Arthur Rimbaud di Charleville (1854 – 1891). La scrisse all’interno della ‘Lettera del veggente’ (a Paul Demeny a Doual).
Era il 15 maggio del 1971 e Rimbaud aveva diciassette anni. Anzi, sedici anni (era nato a ottobre del 1954 ) e sette mesi.
La madre proviene da una famiglia di agricoltori, il padre abbandona
ben presto la famiglia, ma lui già nel 1868 (dodici anni) scrive esametri latini.

I suoi insegnanti sono stupefatti: come diavolo è che quel ragazzino è bravissimo a scrivere versi in latino? Non è mai accaduto prima. Poi decide di mettersi a scrivere in francese. Nel 1870 compone le 22 poesie della raccolta Demeny (così chiamata). Intanto c’è un professore che ha capito che quel ragazzo è fuori del comune. Gli fa leggere Hugo e Rabelais.

Scoppia la guerra franco-prussiana e Rimbaud che fa? Parte per Parigi, per assistere alla caduta del governo di Napoleone III. Ma è un ragazzo, e per viaggiare non paga il biglietto del treno (e chi non l’ha fatto, da ragazzo?); però la polizia lo arresta e lo traduce in carcere.
Poco dopo viene liberato e se ne torna a Charleville. Ma ormai gli è presa la fregola: dopo dieci giorni parte per il Belgio. Ci va a piedi, lui vuol fare il giornalista (ricordiamoci che ha sempre sedici anni). La polizia-dietro richiesta della madre (che Arthur sentì sempre come dura e quasi anaffettiva) – lo acchiappa e lo riporta a casa. E allora diventa un frequentatore assiduo della biblioteca: legge montagne di libri: romanzi, saggi socialisti, opere d’occultismo.

Arthur Rimbaud, Charleville (1854 – 1891)

La mamma pensa: ha messo la testa a posto. Pensiero errato. Il 25 febbraio del 1871 scappa ancora una volta per Parigi. Stavolta vuol assistere alla nascita della ‘Comune’.
Vaga nella città per una quindicina di giorni, poi torna a piedi a Charleville perché è preso dall’urgenza di scrivere.
Che cosa scrive? La Lettera del veggente.

1. La Lettera del Veggente

Un capolavoro assoluto. Un punto di riferimento per tutta la poesia che verrà dopo di lui ed ancora oggi un documento dal fascino immutato.
Questa lettera è poesia, filosofia, estetica, poetica.
Nessun poeta può eluderla.

La Lettera del Veggente

Perché Rimbaud scrive che «il primo studio dell’ uomo che voglia dirsi poeta è la sua propria conoscenza. Egli cerca la sua anima, l’indaga, la scruta, l’impara. Appena la sa, deve coltivarla; la cosa sembra semplice, ma si deve essere capaci di rendere l’anima ‘mostruosa’».
E qui siamo all’originalità dei termini di Rimbaud. Che significa «rendere l’anima mostruosa»?

Nulla a che fare con l’horror, ovviamente. Lui intende che l’anima deve slargarsi, sino alle estreme conseguenze. Sino ad apparire strana, confusa, o sovrumana.
Ed eccoci all’altra grande frase di Rimbaud che è un cult della poesia a venire: «Io dico che bisogna essere veggente, farsi veggente».
E come si fa veggente?
«Mediante un lungo, immenso e ragionato regolamento di tutti i sensi.
Tutte le forme d’amore, di sofferenza, di pazzia; cerca egli stesso, esaurisce in sé tutti i veleni, per non conservarne che la quintessenza. Ineffabile tortura nella quale ha bisogno di tutta la fede, di tutta la forza sovraumana, nella quale diventa fra tutti il grande infermo, il grande criminale, il grande maledetto – e il Sommo Sapiente! Egli infatti giunge all’Ignoto e quand’anche, sbigottito, finisse col perdere l’intelligenza delle proprie visioni, le avrebbe pur viste!».

La poesia (Direi l’arte in generale) è una forma di inesausta ricerca, in cui bisogna bypassare formalismi, schematismi, convenzioni. Cercate tutte le strade possibili per giungere al ‘Sé’. Al nucleo vero dell’anima, senza incrostazioni sociali o etiche o d’altro tipo. Finirà, nel corso di questa sua ricerca, per essere considerato un tipo strano o folle o perverso o asociale.

E può essere anche che, al termine di questa sua ricerca, trovi il caos e l’indistinto. Più buio che luce. Ma non importa, perlomeno avrà pur visto
le sue ‘visioni’. Ha compiuto un cammino che andava intrapreso. Ho commentato la Lettera del veggente con parole mie, ma Arthur Rimbaud, 16 anni e sette mesi, le ha scritte con una intensità, una ispirazione, un tono ‘profetico’ e trascinante davvero inimitabile.

Ed ora fermiamoci, già la Lettera del veggente è dura da leggere (o rileggere) e digerire, per una giornata può bastare, riprenderemo domani lo scandaglio della poesia di Rimbaud.

2. Arthur Rimbaud: Le Bateau ivre

Fughe, ritorni, biblioteca. Alla biblioteca pubblica beve caffè e fuma la pipa. Si fa offrire birra in cambio delle sue poesie. Qualcuno gli parla di Verlaine e gli consiglia di scrivergli, magari il grande poeta parnassiano gli darà un parere.
E così fa. Ai primi di settembre del 1871 manda a Paul Verlane alcuni suoi testi. E Verlaine ne rimane entusiasta ed anzi gli offre la sua ospitalità, inviandogli un biglietto ferroviario per Parigi.

Paul Verlaine e Arthur Rimbaud

E ti pare che Arthur non colga al volo l’occasione? Parte immediatamente, con in tasca Le Bateau ivre. Arriva a casa di Verlaine e lì si sistema.
Verlaine è uno che vive di trasgressioni: è alcolista. Ha avuto esperienze omosessuali. Vive con la moglie che è in attesa del loro primo figlio.
Verlaine legge Il Battello ebbro e ne rimane sconvolto. Decide di presentare quel ragazzino ai Vilains Bonshommes, un circolo di poeti. E quando Rimbaud viene invitato a leggere le sue poesie, anche quei poeti restano basiti. Leon Valade parla di Arthur come di un poeta «terrificante» dalla faccia di un bambino. E’ selvaggio, più che timido. Spaventava e affascinava al tempo stesso con «i suoi stupefacenti poteri e la sua depravazione». Per un altro Rimbaud è «Gesù tra i dottori». Un altro ancora lo definisce «un diavolo».

Il noto fotografo Carjat gli fa due ritratti. Come a dire che Arthur ha perlomeno due personalità. In un ritratto lo rappresenta come un adulto, nell’altro ha un aspetto infantile.
Ma che aveva di tanto “terrificante” Il Battello ebbro?

Appena presi a scendere lungo i fiumi
Impassibili,
Mi accorsi che i bardotti non mi guardavano più:
Ignudi ed inchiodati ai pali variopinti,
I Pellirosse striduli li avevan bersagliati.
Non mi curavo più di avere un equipaggio,
Col mio grano fiammingo, col mio cotone inglese.
Quando assieme ai bardotti si spensero i clamori
I Fiumi mi lasciarono scendere liberamente.
Dietro lo sciabordare aspro delle maree,
L’altro inverno, più sordo di una mente infantile,
io corsi! E le penisole strappate dagli ormeggi
non subirono mai sconquasso più trionfante.
La tempesta ha sorriso ai miei risvegli in mare.
Più lieve di un turacciolo ho danzato tra i flutti

Da allora sono immerso nel poema del mare
Che, lattescente e invaso dalla luce degli astri,
morde l’acqua turchese…

Arthur Rimbaud

È difficile accostarsi al Battello ebbro con gli strumenti abituali. Se cerchiamo la limpidezza di Saffo o il discorrere sapienziale della Dickinson, la trasparenza di Catullo o il lirismo di Lorca, qui siamo mille miglia lontani.
Se vogliamo comprendere sino in fondo, non ci siamo.

Perché superficialmente questo poemetto si risolve nel monologo di un battello che vaga nelle acque, lasciandosi trasportare eppure vivendo innumerevoli esperienze. Arthur parla metaforicamente di sé e rappresenta la propria vicenda esistenziale in balia delle correnti. Siamo al di fuori di qualsiasi nozione di tempo e di spazio, al di là di ogni limite di verosimiglianza.

È una eccitazione ‘visionaria’. Un mondo ricreato. Una fantasia straripante che contesta le ragioni del reale. Fiori delicati e mostri biblici che sorgono e svaniscono. Sogni, fantasie notturne. Non è un vero viaggio. O, perlomeno, è un viaggio interiore. Un tentativo di evasione dalla civiltà, dai limiti della razionalità verso la scoperta dell’ignoto:

Io so i cieli che scoppiano in lampi, e so le trombe,
Le correnti e i riflussi: io so la sera, e l’Alba
Che si esalta nel cielo come colombe a stormo;
E qualche volta ho visto quel che l’uomo ha sognato!

Ho visto il sole basso, fosco di orrori mistici…

Arthur Rimbaud

Ora, immaginate che impressione doveva fare, a quei famosi poeti parnassiani, abituati a versi come i seguenti:

Le Principesse, specchio dei
cieli ridenti, tesoro dei tempi;
risplendono le chiome sulle
fronti lucenti, s’animano i loro seni
di neve…

Theodore de Banville

Sono dei begli occhi dietro i veli,
è la luce tremolante del mezzogiorno,
è, in mezzo al cielo tiepido d’autunno,
l’azzurro brulichio di chiare stelle!

Paul Verlaine

Qui sembra che le poesie di Verlaine e di Banville (o di Gautier) le abbia scritte un diciassettenne e Il battello ebbro sia il prodotto di autori navigati.
Rimasero sconvolti. Basiti. Al limite di esclamare: ‘basta, non scriviamo più poesie’.
Quel ragazzotto diciassettenne di paese aveva dentro un fuoco ed una
‘sapienza’ poetica che loro manco se l’immaginavano!

3. Arthur Rimbaud e Paul Verlaine: storia di sangue e assenzio

Allora, Arthur si stabilisce a casa di Paul Verlaine, allora poeta acclamato, maestro dei ‘parnassiani’. Noi ora pensiamo: che grande intuizione ebbe Verlaine! E che onore dev’essere stato e che avventura avere in casa, a pranzo e a cena, il genio Rimbaud.

Ma non andò proprio così. Arthur era un selvaggio. Un maleducato cronico. Parla a bocca piena, disgustando la famiglia della moglie di Verlaine, Mathilde. Il cognato di Verlaine definisce il ragazzo «vile, vizioso, pieno di difetti». E’ anche sporco e fa scherzi orribili: per esempio aggiunge sostanze tossiche nei bicchieri dei commensali. Di più: usa con disinvoltura coltelli e temperini, ferendo chi gli capita a tiro.

Eppure accade che Verlaine si innamora perdutamente di quel ragazzo
di campagna. Probabilmente Arthur non è omosessuale, ma come ha già scritto nelle sue prime opere, il poeta dev’essere disposto a provare tutte le emozioni, a percorrere tutti i sentieri, a perdersi e a raggiungere l’Ignoto.
E perciò si getta tra le braccia di Verlaine.

Nel frattempo si associa divertito ai maltrattamenti che Verlaine infligge alla povera Mathilde, che ha compreso bene quello che sta avvenendo. Verlaine è sempre ubriaco e picchia la moglie, finchè la donna non ne può più e chiede il divorzio.

Mathilde, Paul e Arthur dal film Total Eclipse (in Italiano Poeti dall’inferno)
con Leonardo DI CAPRIO, David TEWLIS e Romane BOHRINGER
Regia di Agnieszka HOLLAND, 1995.

Bene, pensano i due e partono per Bruxelles. Poi si trasferiscono a Londra, che gli pareva la città più trasgressiva possibile. Parigi è troppo ‘incipriata’, Londra è apparentemente pudica, ma in realtà è piena di vizi. E così via tra droghe, alcool a volontà, vita scioperata e vagabonda, gin e birra a più non posso.

Ma la cosa non può durare. Verlaine ha sensi di colpa, in fondo lui è molto più grande di Arthur che ha appena diciotto anni e Arthur è quel che si dice una testa calda. Litigano di brutto, volano coltelli. Si azzuffano, poi terminata la zuffa, vanno a ubriacarsi insieme nei pub.
Si sa che Rimbaud ferì alla coscia e al braccio Verlaine.

Poi, la colpa fu del pesce fresco.
Verlaine porta a casa del pesce fresco e una bottiglia d’olio per cucinarlo.
Rimbaud irride l’amico. Verlaine schiaffeggia il ragazzo e poi fugge a Bruxelles. Rimbaud lo insegue, lo rintraccia in un albergo. Litigano furiosamente. Verlaine tira fuori la pistola e spara al polso di Arthur. Arriva la polizia e Verlaine viene arrestato e condannato a due anni di prigione.

Intanto, la fantasia di Rimbaud è straripante.
Ha già scritto Vocali, un testo anch’esso rivoluzionario, perché per la prima volta un poeta dà un’anima alle vocali, le fa straripare in immagini surreali e immaginarie:

A nera, E bianca, I rossa, U verde, O blu: vocali!
Un giorno ne dirò le nascite latenti:
A, nero vello al corpo delle mosche lucenti
Che ronzano intorno a crudeli fetori,

Golfi d’ombra: E, candori di vapori e tende,
Lance di ghiaccio, brividi di umbelle, bianchi re:
I, porpore, rigurgito di sangue, labbra belle
Che ridono di collera, di ebbrezze penitenti;

U, cicli, vibramenti sacri dei mari viridi,
Quiete di bestie al pascolo, quiete dell’ampie rughe
Che alle fronti studiose imprime l’alchimia.

O, la suprema Tuba piena di stridi strani,
Silenzi attraversati dagli Angeli dai Mondi:
O, l’Omega, raggio violetto dei Suoi Occhi!

Arthur Rimbaud

Ancora una volta, Rimbaud è staccato dalla realtà.
Se cerchiamo il senso profondo del perché la A è «il nero vello al corpo
delle mosche lucenti», difficilmente riusciamo a venirne fuori. Lui è sempre oltre il buon senso e oltre il desiderio di voler essere compreso. A Rimbaud del lettore (almeno del lettore usuale) non interessa nulla. Vuole essere capito da un lettore speciale. Oppure è meglio che non lo capiscano!

4. Arthur Rimbaud: un poeta maledetto

«Alto, ben piantato e persino atletico, con il volto perfettamente ovale
da angelo in esilio, capelli color castano chiaro sempre in disordine e occhi d’un blu pallido inquietante». Così Paul Verlaine descrive il suo amico del cuore Arthur Rimbaud all’interno del volume Poeti maledetti pubblicato nel 1884 e certamente la definizione di ‘poeta maledetto’ ben si attaglia a Rimbaud: vita disordinata, avversione per il perbenismo, contestazione di ogni istituzione, dalla religione alla famiglia alla patria – fantasia slargata ad immagini sempre rutilanti, devastanti: stridore di denti, il sibilo del fuoco, la distruzione e la visionarietà. La follia, il cinismo, il caos, le allucinazioni, la
droga. Arthur non si è fatto mancare nulla. La discesa agli inferi è stata
totale, incondizionata. Non si trattava solo di una rivoluzione letteraria,
ma di un atteggiamento dell’anima che a un certo punto smarrisce i confini tra sé e il mondo, e tra il mondo e le proprie visioni. L’allucinazione
diventa la realtà. Per Rimbaud libertà significa abbandonare tutto: la famiglia, gli amici, qualsiasi occupazione. E alla fine, in questo percorso di
autodistruzione, abbandonerà anche la poesia.
Intanto, torniamo alle Illuminazioni, che inizia così:

Non appena l’idea del Diluvio si fu placata,
Una lepre si fermò tra le lupinelle e le mobili campanule
E disse la sua preghiera all’arcobaleno attraverso la tela del ragno…

Arthur Rimbaud

E subito capiamo di essere ripiombati nel linguaggio immaginifico e fascinoso di Rimbaud. Che significherà? Forse che lui scrive dopo una tempesta interiore (il Diluvio)? Attenzione: non scrive ‘Dopo il Diluvio’,
ma dopo ‘l’idea del Diluvio’. La realtà è ciò che accade nella sua anima. E quella lepre sembra cogliere un momento quasi mistico (‘la preghiera
all’arcobaleno’).

Tutta la scrittura delle Illuminazioni è di questo genere: fantasia sbrigliata, immagini bizzarre e surreali o, al contrario, tenere e delicate.
E sempre la sua ‘missione’ di poeta/veggente:

Io sono il santo, in preghiera sulla terrazza – come le
bestie pacifiche pascolano fino al mare di Palestina.

Io sono il dotto dalla poltrona scura. I rami e la pioggia
si gettano contro la finestra della biblioteca.

Io sono il viandante della strada maestra che attraversa
i boschi nani: il frastuono delle chiuse copre i miei passi.

Osservo lungamente il malinconico bucato d’oro del tramonto…

Arthur Rimbaud

Io sono il santo, il dotto, il viandante della strada maestra… uno che scrive così è un gigante o un pazzo. Un profeta, forse. È uno che sa di trovarsi tra ‘boschi nani’, ovvero – interpreto – tra poeti e persone mediocri.
E tutto ciò quando aveva intorno ai vent’anni!
Il fatto è – scrive meravigliosamente – che:

In un solaio dove fui rinchiuso a dodici anni ho conosciuto il mondo, ho illustrato la commedia umana. In una cantina ho imparato la storia…

Ora, magari non è vero nulla. Non è mai stato rinchiuso in un solaio, ma l’immagine che lui ne crea è potente. L’immagine diventa realtà. Anzi, è più potente della realtà.
Spesso scrive sulle città:

Io sono un effimero e non troppo scontento cittadino d’una metropoli ritenuta moderna perché ogni gusto noto vi è stato eluso… dalla mia finestra vedo degli spettri nuovi che rotolano attraverso il fumo denso ed eterno del carbone…
Delitto che piagnucola nel fango della strada.

Oppure:

Dal deserto di bitume scappano via in disordine assieme ai banchi di brume scaglionati in strisce orribili nel cielo che s’incurva, indietreggia…

Nessuno è più bravo di Rimbaud negli incipit. Subito un suo verso squarcia le convenzioni letterarie, sorprende il lettore: «Ho abbracciato l’alba d’estate», o anche:

Oh! I viali enormi del paese santo, le terrazze del tempio!
Che ne è del bramino che mi spiegò i Proverbi?

Oppure:

Fanciullo, certi cieli hanno affinato la mia ottica:
tutti i caratteri sfumarono la mia fisionomia.

E poi anche le chiusure. Dopo averci condotti lungo sentieri impervi e messo alla prova la nostra capacità di lettori, conclude con: «È semplice come una frase musicale» (da Guerra).

Di poesie d’amore i poeti ne hanno scritte sempre a bizzeffe, ma come ne scrive lui, il poeta/veggente, nessuno:

Lasciami mordere a lungo le tue trecce pesanti e nere.
Quando mordicchio i tuoi capelli elastici e ribelli, mi sembra di mangiare dei ricordi.

E che possiamo dire? Nulla. Siamo davanti a un ragazzo che ha vistocose che noi non vediamo. E ce ne fa dono.

5. Arthur Rimbaud: una stagione all’inferno

(Cattedra di poesia. La grande poesia universale, XI)
Continuiamo ad abbeverarci alla straordinaria poesia di Arthur Rimbaud, il
ragazzo delle Ardenne (era nato a Charleville, che oggi è una località di cinquantamila abitanti ma a metà dell’Ottocento aveva qualche migliaio di anime, molte sparse nelle campagne) che rivoluzionò la poesia del mondo intero.

Come scrisse Mallarmè «Splendore, lui, di una meteora, accesa senz’altro motivo che la sua propria presenza, nata sola e poi estinta. Tutto, di certo, sarebbe poi esistito, senza questo considerevole passante, così come nessuna circostanza letteraria veramente lo preparò: il caso personale resta, con forza… un’avventura unica nella storia dell’arte».

E Paul Claudel: «Rimbaud fu quel ragazzo raro che sfugge al maestro e all’insegnamento: la misteriosa qualità natale sussiste in lui inalterata; netto, intatto, verginale, emerge da se stesso parlando la sua lingua personale».
E ancora: «Nulla è mancato a Rimbaud, probabilmente nulla. Fino all’ultima goccia di sangue urlato e fino al sale dello splendore» (Renè Char).
Insomma, tutti i critici mettono in risalto il suo genio e il mistero che gli ha dato origine: come è possibile che un ragazzo di campagna, di poche letture e di vaga formazione letteraria, sia divenuto il ‘grattacielo’ su cui si è edificata tanta poesia che ne è seguita? Che sia stato già un ‘maestro’ quando aveva diciassette anni?

Fatto sta che – dopo la Lettera al veggente, le Illuminazioni, i bagordi londinesi, le fughe e i ritorni, è come se Arthur a vent’anni o poco più
avesse vissuto mille vite. Con Una stagione all’inferno prepara il colpo di scena finale: l’addio alla poesia.
Una stagione all’inferno è l’acme della sua poetica visionaria, il punto definitivo di rottura. Quello al di là del quale non si può andare. O si tace o si fa tutt’altro.
Riporto integralmente dalla sezione I deliri, Alchimia del verbo,
perché ridurla sarebbe orrendo:

A me. La storia d’una delle mie follie.
Da molto tempo mi vantavo di possedere tutti paesaggi possibili e trovavo burlevoli le celebrità della pittura e della poesia moderna.
Mi piacevano le pitture idiote ,sovrapposte, addobbi, tele di saltimbanchi, insegne, immagini popolari; letteratura fuori moda, latino di chiesa, libri erotici senza ortografia, romanzi delle bisavole, racconti di fate, libretti per bambini, vecchie opere, ritornelli sempliciotti, ritmi ingenui.

Sognavo crociate, viaggi di scoperte di cui non esistono relazioni, repubbliche senza storia, guerre di religione represse, rivoluzioni del costume, migrazioni di razze e continenti: credevo a tutti gli incantamenti.

Inventai il colore delle vocali! A nera, E bianca, I rossa, U verde, O blu.
Disciplinai la forma e il movimento di ogni consonante e, con ritmi istintivi, mi lusingai d’inventare un verbo poetico accessibile, un giorno o l’altro , a tutti i sensi. Riservavo la traduzione.

Fu all’inizio uno studio. Scrivevo silenzi, notti, segnavo l’inesprimibile.
Fissavo vertigini.

Arthur RimBAud

Commentare un testo del genere è un’impresa. Qui ci sono, in una paginetta, mille temi. Arthur è di una spaventosa ‘lucidità visionaria’. E’ un ossimoro, d’accordo, ma rende l’idea: Rimbaud sa di essere al limite della follia, ma al contempo rivela i suoi gusti estetici, che vogliono dire contrapposizione, rifiuto, contestazione dell’arte dei suoi tempi.

I punti di riferimento della poesia e della pittura dei suoi anni (magari si riferisce anche a Verlaine) sono ‘burlevoli’. Da prendere in giro, tanto sono delle nullità. E allora, di fronte a questa arte mediocre e supponente, meglio ‘le pitture idiote’, i ‘romanzi delle bisavole’, persino le ‘insegne’ dei negozi.

È difficile esprimere più totalmente il suo disprezzo.
La cultura del suo tempo è mediocre. Il gusto estetico è balordo. E invece lui, Arthur, inventa il colore delle vocali, disciplina «la forma e il movimento di ogni consonante» (dà un senso nuovo alle consonanti).
Vuole dar vita a un ‘verbo poetico’ che possa essere accessibile ‘un
giorno o l’altro’, a tutti i sensi.
Cosa intende? Una poesia non solo da leggere, ma anche da udire,
toccare, odorare. Una utopia? Un sogno ad occhi aperti? Rimbaud ci fa credere che però la cosa è possibile. Che magari lui sarebbe riuscito a inventare questo nuovo percorso (un po’, a dire il vero, tutta l’arte performativa – o arte ‘totale’- si muove in questa direzione, ma non al livello del genio di Rimbaud).
E poi, quel verso finale che è un paradiso degli amanti della poesia. Un
vertice della poesia di ogni tempo:
«Scrivevo silenzi, notti, segnavo l’inesprimibile. Fissavo vertigini».
E noi, pure colti dalla sua vertigine, ci fermiamo qui.

Daniele Giancane