Prima di addentrarci nel mondo visionario trasgressivo di Allen Ginsberg, sarà bene far qualche preliminare considerazione: la poesia (come tutta l’arte) è il regno della libertà assoluta. Ciascun poeta è libero di affrontare qualsiasi argomento e di esprimersi nella forma linguistica a lui più consona. Non c’è un itinerario privilegiato. Né – come si è sovente affermato – la ‘bellezza’ e l’intensità di una poesia può essere valutata dal tema messo in campo dal suo autore.

Sul piano estetico, che il poeta si interessi della pace nel mondo o delle prostitute di New Orleans è del tutto indifferente. La poesia non è ‘necessariamente’ un messaggio educativo (o lo è in senso lato). L’importante è che egli costruisca un’architettura poetica interessante ed emotivamente coinvolgente. Abbiamo ripetuto più volte che le poesie di Pablo Neruda sul carciofo o sul limone valgono assai di più di tante poesie che scrivono dell’al di là o di amore universale.

C’è poesia e poesia, per fortuna: c’è la poesia ‘dolce’ di Gibran e quella sperimentale di Cummings, la poesia politica di Darwish e quella sensuale di De Andrade, quella ‘contadina’ di Esenin e quella disperata di Celan.
Il compito di noi lettori e appassionati di poesia è di ‘educarci’ sempre più ad apprezzare e ad amare ogni genere di poesia. Ogni poeta è una sfida che noi dobbiamo accettare e comprendere.
Tutto questo per dire che grande è Gibran, ma altrettanto grande è Allen Ginsberg, anche se sono diversissimi e – direi – opposti. Ma io amo ambedue.

Col profeta della generazione beat (fenomeno che nacque negli Usa e che va dal dopoguerra agli anni Sessanta: generazione di contestazione ai sistemi di vita occidentali e del consumismo; di protesta contro la guerra in Vietnam; di rifiuto dei vetusti modelli educativi e gerarchici; di accettazione delle droghe e di modalità sessuali diverse; di avvicinamento alle religioni orientali; di apertura a percorsi musicali e artistici nuovi) entriamo dritti dritti in una poesia di contestazione totale, che si avvale del verso lungo, quasi prosastico (ma non è prosa, perché Ginsberg carica il ‘parlato’ di una densità emotiva inaudita), come si avverte in tutta la sua produzione, a cominciare da La caduta dell’America, in cui il poeta ci mette davanti ad una serie di immagini, personaggi, ambienti di degrado e di caos:

ATTRAVERSO IL VORTICE DALLA WEST COAST VERSO EST

Smog camions chilometri e chilometri di piloni
A alta tensione tralicciati verso New York

Nera autostrada molte corsie inondata di azzurre
Lampade ad arco,
Bagliore della città all’orizzonte
Megalopoli di fabbriche in fiamme
Raffinerie dietro luce inferno di Newark
Treni di camions oltre oleodotti trans-continentali
Lampeggianti insegne di sicurezza STATE SVEGLI
Trasformatori giganti giganti,
Fumo luminoso di Ciminiere di elettricità
Più fuochi di Comignoli…
Ruggine di ferrovia, fumi-spazzatura di palude profonda
Sono nato qui a Newark
Notte grigia su campi elettrici
Parata di luce ovunque
Motel hotel
Lincoln hotel
Pittsburgh hotel
Grande parcheggio Macdaniels,
Camion rettili sulle strade del Jersey
Portieri col cappello verde svegli la notte
In androni gialli con nicchie statuarie
…Parcheggia vicino al librario illuminato
Dove troverò la mia posta
& Armonium, nuovo da Calcutta
In attesa che ritorni a New York e cominci a cantare

Come si vede, è un susseguirsi di immagini a cascata, con un ritmo frenetico, cantilenante. S’avverte subito come la poesia di Ginsberg (come sarà quella dei sodali della beat generation, da Gregory Corso a Lawrence Ferlinghetti) è dominata da un ritmo jazz. Questa è poesia che va recitata assieme alla tromba di Miles Davies o al sax di Charlie Parker. E d’altra parte Ginsberg accompagnava le sue numerose lettura pubbliche con il suono dell’armonium (appunto citata alla fine del testo precedente).

Ginsberg era un trasgressivo a tutto tondo: omosessuale (visse per tanti anni, sino alla morte, con Peter Orlowsky); frequentatore di luoghi malfamati, come il Pony Stable, primo bar apertamente lesbico e lì conobbe Gregory Corso, altro grande poeta che era appena uscito dal carcere; faceva normalmente uso di droghe. Alla Columbia University aveva conosciuto i suoi ‘fratelli beat’, tra cui il mitico Jack Kerouac e William S.Burroughs.

C’è però – credo – da fare un discorsetto, se no cadiamo in schemi moralistici che nulla hanno a che vedere con la poesia: io credo che i poeti (i grandi, s’intende) siano degli ‘angeli’. Persone dalla sensibilità acuminata che non riescono ad adattarsi alla vita sociale (che richiede anche qualche dose di astuzia, di mediazione, di camuffamento; pure Gesù ha detto: siate furbi come serpenti…) e, quindi, cercano delle alternative (spesso autodistruttive) al loro male di vivere.

In più, i poeti della beat generation, rifacendosi certamente a Rimbaud (oltre che a Whitman) fanno della poesia un itinerario di ricerca.
È una strada verso l’oltre. Verso altre dimensioni della coscienza. È – direi -una via iniziatica, non diversa (se non negli ‘strumenti’ usati) da quella del monaco che cerca Dio.

Ginsberg, una sera del 1948, durante un reading in un appartamento, sentì ‘la voce di Dio’. «Non è stata la droga – dichiarò – tant’è vero che ho cercato di ripetere quella esperienza assumendo droghe, ma non è più capitata».
Ora, comunque consideriamo questa esperienza, dimostra proprio che Ginsberg cercava qualcosa che va al di là della percezione comune. D’altra parte, io dico che la più bella definizione di poesia l’ha data Ginsberg. Quando gli fu chiesto: A che serve la poesia? Rispose: «La poesia serve a dilatare i confini della coscienza». Ecco: la poesia è un itinerario che allarga l’area della coscienza.

Ma non si può scrivere di Ginsberg senza soffermarsi sulla sua opera principale: l’ Urlo.
Dunque, una galleria d’arte di San Francisco organizza una lettura pubblica di poesia. Vengono invitati sei poeti, tra i quali Allen Ginsberg.
È il 13 ottobre del 1955 e oggidì quell’evento resta memorabile perché Ginsberg lesse per la prima volta il suo Urlo.
C’erano circa centocinquanta persone, che letteralmente furono trascinate e ipnotizzate da Ginsberg. Successe un pandemonio, Tutti capirono che si trovavano davanti ad un poema che sarebbe stato ricordato come tra i più importanti del Novecento.

E così è stato: Urlo è ormai un classico, che deve stare accanto ad altri testi ‘sacri’ della poesia novecentesca come The Wast Land o Dopo
la Russia
. Il suo incipit è famosissimo:

Ho visto le menti miglior della mia
Generazione
Distrutte dalla pazzia, affamate, nude,
isteriche
trascinarsi per strade di negri all’alba in cerca di droga
hipster dal capo d’angelo ardenti per l’antico contatto celeste
con la dinamo stellata nel macchinario della notte,
che in miseria e stracci e occhi infossati
stavano su partiti a fumare nel buio
soprannaturale di soffitte ed acqua
fredda fluttuando nelle cime delle città,
contemplando jazz…

Ho visto le migliori menti della mia generazione
Che mangiavano fuoco in hotel
ridipinti
O bevevano trementina
Che trombavano in limousine col cinese di
Oklahoma…

È uno scenario infernale, un grido di ribellione contro la società materialistica che disumanizza l’individuo. Alle persone ancora ‘incontaminate’ dai falsi miti della società omologata e piena di pregiudizi, non resta che la fuga, nella pazzia o nell’anarchia.

Succede una baraonda. Urlo viene messo all’indice. Il suo autore, appunto Allen Ginsberg e Lawrence Ferlinghetti (che pubblicò il poema con la sua piccola casa editrice di Los Angeles) vengono processati per ‘oscenità’. Devono difendersi e reclamare il loro diritto a scrivere letteratura in quel modo rivoluzionario. Il giudice dà loro ragione.

Ginsberg intraprende nuove strade: diventa buddhista, si avvicina al Krishnaismo, dona parecchio denaro per costruire i templi. In una trasmissione televisiva, chiede all’intervistatore di cantare una canzone in
lode di Krishna. E così fa.
Muore il 5 aprile del 1997. Con lui si chiude un’epoca memorabile.

Daniele Giancane