Dopo innumerevoli laboratori, scuole di avviamento alla poesia, ideazione di comunità letterarie, posso dire che poeti sostanzialmente si nasce; compiutamente si diventa.

Voglio dire: si nasce con la disposizione alla poesia (all’arte, in genere: pittori o attori o musicisti), ma si mette a frutto questa disposizione dell’anima solo col lavoro di lima, lo studio, la riflessione, la ricerca sul linguaggio (o sui colori, se si è pittore).

Solo usufruendo delle indicazioni di maestri, officine, botteghe: Leonardo non sarebbe mai diventato un pittore fenomenale se non avesse frequentato la bottega del Verrocchio.

Solo con l’ispirazione (o la disposizione nativa) si fa ben poco, si rischia di restare poeti o pittori ‘della domenica’. Musicista per gruppi di amici, cantanti sotto la doccia. Ma – torniamo all’inizio – poeti si deve anzitutto nascere.

Waldo Emerson (1803 – 1882), straordinaria figura di critico letterario, poeta, traduttore, pastore del movimento trascendentalista americano, lo scrive chiaramente: l’universo ha tre figli: il Conoscitore, il Fattore, il Dicitore (rispettivamente stanno per: amore della verità, del bene, della bellezza). Questi tre sono pari. Ciascuno è quello che è ed ha in sé il ‘potere’ fondamentale, mentre gli altri due li ha pure, ma in latenza.

Il poeta nasce come ‘nominatore’, il dicitore e rappresenta la Bellezza. Il Fattore si esprime con l’azione, il Conoscitore è il pensatore, il filosofo. Il poeta scrive ciò che deve essere o che sarà detto e considera gli altri (il Fattore, il Conoscitore) come materiali di studio per erigere un mondo di parole. Lo fa in maniera istintiva, originaria, perché è stato inviato sulla Terra con quel compito: estendere il regno della Bellezza.

E’ vero – forse Emerson esagera e diventa quasi mistico – ma che si nasca con una disposizione dell’anima (verso l’arte o verso altro) credo sia vero. Ma bisogna essere coscienti che ciascuno ha un compito e perfino essere responsabili di questo (il senso del mio stare al mondo è realizzare ciò che si è originariamente, sin dall’atto del concepimento).

Ralph Waldo Emerson

Il filosofo americano scrive che c’è un segreto che ogni uomo d’intelletto fa presto ad imparare: che al di là dell’energia del suo intelletto consapevole e padrone di sé, egli è capace di una nuova energia (come un intelletto raddoppiato su di sé) quando si abbandona alla natura delle cose. Che, accanto al suo ‘privato’, c’è un’altra potenza straordinaria che egli può attrarre a sé, spalancando, a qualunque rischio, le sue porte umane e lasciando che vi si riversino le maree, le contraddizioni, i sogni, le visioni. Ovvero la vita dell’universo.

Così la sua parola – se è davvero poeta – diventa tuono e le sue parole sono sempre intelligibili (anche se a prima vista appaiono incomprensibili). Sono intelligibili come le piante e gli animali. Il poeta è tale se ha imparato a parlare con impeto selvaggio. Non con l’intelletto usato come organo, ma con l’intelletto lasciato libero da ogni sua funzione di servizio.

Questa di Emerson è una grande verità: tantissima scrittura poetica non raggiunge nessun degno vertice perché (a parte, sovente, la scarsa competenza tecnica, linguistica) è troppo raziocinante.

In poesia bisogna ‘spogliarsi’, gettare a mare la quotidiana razionalità, la ragione del soggetto/verbo/complemento oggetto, la voglia di ‘dire’ in ogni caso qualcosa. Bisogna lasciarsi andare allo ‘spirito animale’. A situarsi nel flusso vitale della mente, a lasciare da parte i nessi, a sfidare il linguaggio stesso.

Così egli (il poeta) scioglie le sue catene (le catene di senso che lo imprigionano) e si fa emblema di libertà. Egli è il liberatore, di se stesso e degli altri.

Daniele Giancane