Solitamente, in questo rapido viaggio nella migliore poesia italiana di questo ultimo cinquantennio, cerco di non discostarmi troppo dalla ‘collocazione critica’ degli Autori. Dalla loro ‘visibilità’ da parte della critica letteraria. Dal loro essere presenti nelle più importanti antologie della poesia italiana, da quella di Sanguineti a quella di Mengaldo, da quella di Belardinelli a quella di Vitiello (eccetera).

In un ‘ventaglio didattico’ sulla poesia del Novecento sino ad oggi (tralasciando le antologie che vogliono rappresentare il momento presente e indicare degli Autori ‘in fieri’), presenze come Raboni e De Angelis, Cucchi e Zeichen, Viviani e Valduga, Merini e Insana sono – ad esempio – impossibili da evitare o non citare. Sarebbe un errore (poi è chiaro che ciascuno abbia i suoi gusti e le sue preferenze). Epperò, non tutto ci dicono gli studi e le antologie, ci sono Autori assai validi ma che sinora la critica ha tenuto ai margini, non ha individuato come grandi poeti. Per la Puglia, questa dimenticanza riguarda senz’altro Biagia Marniti (sulla quale ho scritto un saggio, anni fa) e Salvatore Toma.

Direi ancor più quest’ultimo è stato sinora trascurato dalla comunità letteraria (se non quella salentina). Se andiamo a vedere gli studi e gli interventi critici sulla sua opera, si nota che si tratta di studiosi salentini (Valli, De Donno). Così per i più giovani studiosi (Ala, Antonazzo, Cudazzo, Giorgio) accade l’identica cosa. Come se la produzione letteraria di Toma non riuscisse a varcare i confini del Salento. Eppure Salvatore Toma (Maglie,1951 – 1987) è stato un grande Autore, che io conobbi molti anni fa in alcune riunioni del Sindacato Scrittori (per la verità era sempre in preda ai fumi dell’alcool, sempre ‘laterale’, rispetto a ciò che avveniva, sempre auto emarginato, come per una ferita o una profonda inaderenza al reale. Eppure Salvatore Toma ha perlomeno avuto (post mortem) una fortuna: che la grande Maria Corti si sia interessata a lui e abbia ottenuto di far stampare da Einaudi il Canzoniere della morte, 1999). E che le edizioni Musicaos abbiano stampato di recente (2020) le Poesie 1970 – 1983, a cura di Luciano Pagano e con interventi di fini studiosi come i già citati Ala, Antonazzo, Cudazzo, Giorgio.

V’è da dire che Canzoniere della morte certamente ha permesso una maggiore conoscenza del poeta in Italia, ma ha costruito l’immagine di un poeta ossessionato dalla morte. Il che è anche vero: se leggiamo il testo einaudiano, ci si accorge che è proprio così: «l’idea della morte è qui / a un passo da me, / posso coglierla, / come sollevare un bambino», oppure «Spesso penso alla morte / al modo in cui dirò addio alla vita / e come avrò la bocca in quell’istante» o anche «Io e la morte / ci conosciamo bene», ma la poesia di Toma non è tutta riconducibile a questo tema. Oppure: questo tema va visto all’interno della rappresentazione di sé, quale personaggio della sua poesia. Salvatore si mette al centro della scena. Ci vuole stare e al contempo vuol mandare al diavolo il mondo, usando un linguaggio spesso duro, forte, diretto:

A questo punto
cercate di non rompermi i coglioni,
anche da morto.
E’ un innato modo di fare
questo mio non accettare
di esistere.
Non state a riesumarmi dunque
con la forza delle vostre incertezze
o piuttosto a giustificarvi
che chi si ammazza è un vigliacco:
a creare progettare e approvare
la propria morte ci vuole coraggio!
Ci vuole il tempo
che a voi fa paura.
Farsi fuori è un modo di vivere
finalmente a modo proprio
a modo vero.
Perciò non state a inventarvi
fandonie psicologiche sul mio conto
o crisi esistenziali

***

Addio bastardi maledetti
vermi immondi
addio noiosi assassini

È come se qui andasse in onda una lotta tra Salvatore e il mondo. Tra lui, incompreso ( ma forse neppure lui comprende se stesso) e gli altri umani, ma con una forza di verità che fa spavento. Maria Corti scrive della «voce più profonda di un poeta maledetto e il vivere ‘tra svagato e anarchico’». Di una sorta di «primitivismo linguistico». Di spirito di rivolta persino verso se stesso:

Spremiti Toma
spremiti come
un limone
O spezzati come
si spezza un ramo
d’alloro per
respirare dal vivo, dal profondo.
Questo ordinarsi
di vivere non
ti fa bene non
ti rappresenta più.
Arditi Toma
datti fuoco acqua terra
datti luce
datti palpita schiuditi
battiti

Formidabile testo, di un uomo che è giunto alla sconfitta di sé, al rifiuto dell’esistente. Che è pronto ad ‘ardersi’, che non avverto tanto o solo come voglia di autodistruzione quanto di ascesa ad altre dimensioni (‘schiuditi’), in una continua allitterazione delle ‘t’ (quattordici negli ultimi cinque versi) che finiscono per dare al finale un andamento quasi da filastrocca. Quasi una ‘t’ da battito di denti. Di tremore o di febbre o di angoscia. Eppure Salvatore Toma non è solo il rimbaudiano maledetto sempre in dialogo con la morte e l’aurodistruzione. È anche il poeta di tenerissime immagini, di un lirismo secco e incisivo:

Se si potesse imbottigliare
l’odore dei nidi,
se si potesse imbottigliare
l’aria tenue e rapida
di primavera
se si potesse imbottigliare l’odore selvaggio delle piume
di una cincia catturata
e la sua contentezza, una volta liberata

o poesie d’amore (o di desiderio d’amore) come:

La mia
è una donna favolosa…
Pur di non perderla
rinuncerei ai miei versi

C’è sempre un mèlange di angoscia e di tenerezza, in Toma, che certo vorrebbe “una grande esplosione”, ma sente una profonda angoscia soprattutto per il passato: «Questo essere stati/senza possibilità di ripetersi». E’ stato un grande poeta, per la sincerità di accenti (ma non si pensi solo ad un ‘primitivo della poesia’, ché anzi si nota come conoscesse bene tecniche e figure retoriche, le modalità d’uso della parola) che ci parlano ancor oggi. Le sue parole ci giungono pregne di angoscia e di stilettate: per il modello di società che abbiamo costruito, per le maschere sociali che indossiamo, per la sua inaderenza al mondo.

Non so se il ‘personaggio’ che si era creato gli prese la mano sino – pirandellianamente – a non essere più capace di uscirne (lui era il diverso, l’etilista, il contestatore, il fustigatore, con l’impossibilità di essere ‘normale’) o se dentro covasse una sorta di ‘odio/amore’ verso la vita e gli umani (Qualche tenerezza la si coglie quando cita gli animali. Evidentemente esempio per lui di ‘pura e santa autenticità’, verità dell’essere) . Ma penso che, alla fine, conti poco: Salvatore Toma è stato un poeta intenso e coinvolgente, di quelli che non puoi dimenticare.

In sostanza, che cosa ricaviamo – sul piano della riflessione estetica – dall’esperienza letteraria e umana del poeta Salvatore Toma?

Salvatore Toma (1951-1987)

1.Che la poesia è tale se si avverte in essa il tono della ‘veridicità’.
Noi amiamo una poesia o un poeta perché sentiamo che è vero. E’ talmente vero che ci pare che ci parli adesso, non trenta e più anni fa (come nel caso di Toma). Emerson ha perfettamente ragione. Anche quando afferma – di conseguenza – che moltissima poesia circolante non piace perché non è vera.

2.Ora,è chiaro che ogni poeta parli di sè e,in un certo senso,ogni poesia è vera. Ma c’è la poesia che – per dire la verità -si ammanta di molti veli letterari e c’è la poesia che – pur assai consapevole e competente degli strumenti letterari necessari – rappresenta sé e il mondo senza questi veli (o senza che questi veli appaiano). Insomma, la poesia è davvero tale quando – paradossalmente – non sembra poesia, ma verità (ma che a un’analisi approfondita mostra che è poesia). Quella di Toma è poesia/verità, perciò ci piace e ci coinvolge. Ci sta parlando un uomo, a cuore aperto, più che (o solo) un poeta.

«Il Poeta è il quadrato della Verità» (Giorgio Caproni)

3. La poesia di Toma ci conferma che tra poesia e discipline varie (psicologia, etica, pedagogia, sociologia) non c’è relazione, se non esteriore. La poesia non ha nulla a che fare con questi ‘saperi’. La poesia di Toma a prima vista – parlando di morte, voglia di suicidio, ribellione, insulti, parolacce – non ha nulla di ‘educativo’, ma a noi non deve interessare: ciò che conta è che è poesia. E che poesia! Che poi sia davvero però antieducativa non ci giurerei: ai giovani piacerebbe tantissimo (come piacerebbero i poeti della beat generation). Avrebbero una sferzata di ‘veridicità’, non avrebbero a che fare con tante poesie che si insegnano a scuola che sono pura ‘letteratura’, anche bella e di elevati valori, ma poco ‘vere’, quindi poco emozionanti. Quindi, inutili. In realtà, credo che abbiamo paura a rappresentare la verità ai giovani. Quindi (è il mio parere) non è che i testi di Toma potrebbero essere antieducativi: siamo noi che pensiamo che solo l’edulcorazione della realtà sia pedagogicamente ed eticamente fondata.

Daniele Giancane