È stato osservato diverse volte nell’ambito della critica dickensiana come l’intera produzione dell’autore possa considerarsi come la massima espressione delle critiche che, attraverso le forme dell’ironia e della satira, l’autore muoveva nei confronti della nuova società capitalistica e delle sue corrotte istituzioni politiche.

Esse prendono voce attraverso gli innumerevoli e svariati personaggi dell’universo dickensiano che assumono un ruolo ben preciso all’interno del contesto narrativo. Come osserva Franco Marucci1, l’opera dickensiana può essere definita come una “satira della pretensione”, in cui i personaggi tendono a voler apparire in modo diverso dalla realtà, indossando una vera e propria maschera2.

Il desiderio di vestire un ruolo diverso da quello reale è sempre sintomo nei personaggi dickensiani di una frustrazione interiore, che li spinge talvolta ad assumere nomi diversi a seconda delle occasioni3.

Tale espediente è lo stesso utilizzato da Luigi Pirandello nella sua opera Uno, Nessuno, Centomila (1926), nonché nell’opera precedente Il fu Mattia Pascal (1904); in entrambi i romanzi, infatti, il protagonista, frustrato dal grigiore della sua esistenza, decide di costruirsi una nuova identità4, per poi soccombere alla consapevolezza dell’impossibilità di sfuggire a quelle convenzioni e a quegli schemi sociali all’infuori dei quali non è possibile sopravvivere.

L’unione di intenti dei due autori, dunque, chiarisce le motivazioni per le quali molti critici definirono Charles Dickens un autore “proto-pirandelliano”; tuttavia, per comprendere appieno il fil rouge che lega i due autori è necessario innanzitutto illustrare brevemente la teorizzazione che Pirandello propone del termine “umorismo” nell’omonimo saggio in cui l’autore siciliano giunge a delle considerazioni circa lo humour inglese.

L’Umorismo, pubblicato nel 1908, fu scritto non già per motivi di poetica, quanto più come risposta agli stimoli intellettuali derivanti dal XIX secolo, che aveva registrato da un lato il crollo delle antiche certezze, dall’altro l’inaugurazione di una nuova condizione psicologica dell’io frammentato e precario. Partendo dall’analisi etimologica della parola latina umor-is (“fluido”, “liquido”), Pirandello propone un’approfondita disamina dalla letteratura classica a quella moderna; nello specifico, l’autore si sofferma sugli esponenti della letteratura comica, differenziandoli da quegli autori e pensatori che nel tempo hanno dato voce alla vena umoristica.

Mentre nella Commedia di Dante non c’è traccia di umorismo, in quanto essa è permeata più che altro di ironia, figura retorica che implica una contraddizione, Manzoni è esempio emblematico dello scrittore umoristico, dove con “umorismo” Pirandello indica un sentimento autentico, diverso quindi dall’ironia. Tuttavia, Pirandello mette in evidenza come già nell’antichità classica fosse presente in nuce il concetto di umorismo: non in autori come Aristofane, la cui prerogativa era per lo più quella di far ridere attraverso burle e facezie di vario genere, ma in autori come Socrate che, nell’ottica pirandelliana, possedeva il sentimento del contrario.

Per Pirandello, l’umorismo si pone in antitesi rispetto alla composizione retorica che aveva condizionato la tradizione letteraria italiana; infatti, mentre la formazione classica promuove un sostanziale equilibrio tra forma e contenuto, l’umorismo scompone, lacera, spezza l’ordine, al fine di mettere in evidenza una realtà altra. Il quinto capitolo del saggio è dedicato all’analisi dell’epica cavalleresca, identificata come poesia comica, perché portata avanti sotto la luce dell’ironia, per quanto quest’ultima non ne costituisse l’intento primario.

Luigi Pirandello

Per Pirandello, l’ironia cavalleresca deriva dal fatto che i valori trattati all’interno delle opere, come l’amor cortese, la prodigalità, sono stati dimenticati dall’epoca storica in cui esse appaiono, un’epoca appunto in declino; pertanto, questa mancanza di aderenza alla realtà presente provoca il riso ironico, che è a sua volta elemento di distanza dalla realtà, distanza che invece l’umorismo non mantiene. A questo punto, l’autore propone un parallelismo tra Ariosto e Cervantes: il primo non nutre un sentimento nei confronti della follia di Orlando, il che porta il lettore a non ridere, a causa della tragicità che il suo furor implica; il secondo, invece, si immedesima nella follia di Don Quijote, che, diversamente da Orlando, si maschera da cavaliere, andando incontro a ridicole avventure con estrema serietà e sicurezza.

Dunque, secondo Pirandello, sia la nudità che la mascheratura sono segni di follia, ma alla fine si ride solo del mascherato, per poi commiserarlo:
«Allorché Orlando urta anche lui contro la realtà e smarrisce del tutto il senno, getta via le armi, si smaschera, si spoglia d’ogni apparato leggendario, e precipita, uomo nudo, nella realtà. Scoppia la tragedia.
Nessuno può ridere del suo aspetto e de’ suoi atti; quanto vi può esser di comico in essi è superato dal tragico del suo furore. Don Quijote è matto anche lui; ma è un matto che non si spoglia; è un matto anzi che si veste, si maschera di quell’apparato leggendario e, così mascherato, muove con la massima serietà verso le sue ridicole avventure. Quella nudità e questa mascheratura sono i segni più manifesti della loro follia. Quella, nella sua tragicità, ha del comico; questa ha del tragico nella sua comicità. Noi però non ridiamo dei fuori di quel furor; ridiamo delle prodezze di questo mascherato, ma pur sentiamo che quanto vi è di tragico in lui non è del tutto annientato dal comico della sua mascheratura, così come il comico di quella nudità è annientato dal tragico della furibonda passione. Sentiamo insomma che qui il comico è anche superato, non però dal tragico, ma attraverso il comico stesso. Noi commiseriamo ridendo, o ridiamo commiserando»5.

5 L. Pirandello, L’Umorismo, edizione Oscar Mondadori, Milano, 2014, pp. 90-91

Sul finale dell’opera, dopo aver analizzato la tradizione, Pirandello enuncia la sua personale definizione di umorismo, differenziandola da quella di comico: quest’ultimo, infatti, è avvertimento del contrario, nella misura in cui attraverso di esso il lettore avverte in maniera immediata una contraddizione nella realtà oggettiva (come un uomo che cade, ma tenta di restare in piedi). L’umorismo invece è sentimento del contrario, perché oggetto di una riflessione amara, posteriore all’esperienza; messo in moto dall’azione fisiologica del riso, l’umorismo è un processo di conoscenza autentica, che imprime all’attività del ridere una direzione contraria, tanto da modificare la sensibilità di chi ride e stimolarne la ragione: «Vediamo adesso se, per la natural disposizione d’animo di quegli scrittori che si chiamano umoristi e per il particolar modo che essi hanno di intuire e di considerar gli uomini e la vita, questo stesso procedimento avviene nella concezione delle opere; se cioè la riflessione vi tenga la parte che abbiamo or ora descritto, o non vi assuma piuttosto una speciale attività. Ebbene, nella concezione di ogni opera umoristica, la riflessione non si nasconde, non resta invisibile, non resta cioè quasi una forma del sentimento, quasi uno specchio in cui il sentimento si rimira; ma gli si pone innanzi, da giudice; lo analizza, spassionandosene; ne scompone l’immagine; da questa analisi però, da questa scomposizione, un altro sentimento sorge o spira: quello che potrebbe chiamarsi, e che io difatti chiamo il sentimento del contrario. […]

Noi vorremmo ridere di tutto quanto c’è di comico nella rappresentazione di questo comico alienato che maschera della sua follia se stesso e gli altri e tutte le cose; vorremmo ridere, ma il riso non ci viene alle labbra schietto e facile; sentiamo che qualcosa ce lo turba e ce lo ostacola: è un senso di commiserazione, di pena e anche d’ammirazione, sì, perché se le eroiche avventure di questo povero hidalgo sono ridicolissime, pur non v’ha dubbio che egli nella sua ridicolaggine è veramente eroico. Noi abbiamo una rappresentazione comica, ma spira da questa un sentimento che ci impedisce di ridere o ci turba il riso della comicità rappresentata; ce lo rende amaro. Attraverso il comico stesso, abbiamo anche qui il sentimento del contrario. L’autore l’ha destato in noi perché s’è destato in lui, e noi ne abbiamo già veduto le ragioni»6.

In apertura del terzo capitolo del saggio, in cui l’autore propone un rapido excursus sulla tradizione umoristica internazionale, in particolar modo europea, Pirandello riporta le considerazioni di Taine riguardo alla differenza tra lo humour inglese e l’ésprit francese, definendo il primo come «la facezia di chi, scherzando, serba un’aria grave»7; egli annovera all’interno di tale genere letterario dal carattere sarcastico e caricaturale autori come Swift, Fielding, Thackeray e lo stesso Dickens. Tuttavia, Pirandello asserisce che troppo spesso gli studiosi dell’umorismo sono incorsi in un errore di valutazione, ritenendo che, poiché il termine humour è nato in Inghilterra, tutti gli autori comici e satirici possano essere a buon diritto definiti “umoristici”; nell’ottica pirandelliana invece è necessario distinguere tra il comico, inteso come un sentimento unilaterale che genera il riso, e l’umorismo vero e proprio, caratterizzato invece da un sentimento più profondo, costituito da un’amara riflessione sull’oggetto del riso. Tuttavia, Pirandello non esita a riconoscere le caratteristiche dell’umorismo, come lui stesso lo intende, nella produzione degli autori citati da Taine, e quindi dello stesso Dickens: «Quel che di comune possono aver tra loro questi scrittori non deriva dalla qualità dell’umore nazionale inglese, ma dal solo fatto ch’essi sono umoristi, ciascuno sì a suo modo, ma umoristi tutti veramente, scrittori cioè nei quali avviene quello speciale processo intimo e caratteristico da cui risulta l’espressione umoristica»8.

6 Ivi, p. 122.
7 Ivi, p. 29.
8 Ivi, p. 30.

Alla luce di quanto detto finora, prendendo in considerazione la caratterizzazione dei suoi personaggi, Dickens si serve del procedimento descritto da Pirandello nel suo saggio, procedimento che di certo l’autore inglese non poteva conoscere nei termini esposti dall’autore siciliano, per evidenti questioni di carattere cronologico, ma che evidentemente anche lui era giunto a considerare, pur senza averlo teorizzato.

Taine riteneva che l’umorismo di Charles Dickens consistesse nella sua capacità di ritrarre personaggi e situazioni caratterizzati molto spesso da una comicità spicciola attraverso un registro linguistico altisonante; in effetti, è proprio mediante la voce esterna del narratore che spesso un personaggio viene messo alla berlina (è quello che accade frequentemente in The Pickwick Papers).

Dickens dunque prende le distanze dal personaggio che intende ridicolizzare, al fine di far suscitare il riso nel lettore, rendendo i suoi personaggi estremamente grotteschi e dunque comici. La più evidente dimostrazione dell’utilizzo del procedimento umoristico da parte di Dickens è costituita dai personaggi di The Pickwick Papers; esso può essere considerato il romanzo umoristico per antonomasia di Charles Dickens, proprio per la quantità di personaggi e situazioni afferenti al genere teorizzato da Pirandello. Tra questi, bisogna considerare innanzitutto il protagonista, Mr. Pickwick e i suoi due compari, Mr. Tupman e Mr. Winkle.

Prima di essere protagonista di un’evoluzione di tipo umano e morale, che comincia a prendere forma in lui a partire dalla traumatica esperienza del carcere, Mr. Pickwick è il bersaglio principale della sferzante critica dickensiana alla borghesia. L’autore infatti non perde occasione di presentare il protagonista con fare spiccatamente ironico, descrivendolo come un personaggio impacciato, sempliciotto ma che al tempo stesso fa di tutto per apparire benevolo, filantropo, un uomo di un certo calibro, indossando appunto una maschera.

La falsa identità di Mr. Pickwick tuttavia riesce sempre a manifestarsi nelle situazioni più sconvenienti, in cui egli manda all’aria le apparenze e non esita ad auto commiserarsi, a causa dell’imbarazzante circostanza in cui si trova. Un altro episodio umoristico che vede protagonista ancora una volta Mr. Pickwick è quello delle elezioni di Eatanswill in cui, pur non conoscendo nessuno dei candidati, egli si unisce alla folla urlante applaudendo il candidato acclamato dalla maggioranza dei cittadini; alla legittima domanda di Tupman, che gli chiede se conoscesse il candidato in questione, Pickwick risponde candidamente di no e afferma che in questi casi la cosa migliore da fare è adeguarsi a ciò che fa la folla.

Charles Dickens

L’atteggiamento omologato di Mr. Pickwick, seppur divertente in un primo momento, fa riflettere il lettore sulla mancanza di spirito critico che caratterizza il personaggio e che lo porta ad acclamare un candidato che neanche conosce.

Allo stesso modo, Mr. Tupman, uno dei componenti del Circolo, si presenta al lettore sin dall’inizio del romanzo come uno dei personaggi più vivaci e piacevoli, destinato, almeno apparentemente, ad un memorabile lieto fine che, però, non si realizzerà. Tuttavia, la sua smania nei confronti delle rappresentanti del gentil sesso, che lo spinge alla disperata ricerca di un possibile contesto in cui poter mettere in atto le sue doti di corteggiatore, porta il lettore a riflettere sull’insoddisfazione interiore e sulla carenza di affetto che pervadono l’animo di Tupman.

Altro personaggio umoristico è rappresentato da Rachael Wardle, sorella del facoltoso Mr. Wardle, che Dickens etichetta quasi sempre come the spinster aunt (“la zia zitellona”); la ridondanza di questo epiteto a primo impatto desta sicuramente il riso nel lettore, ma successivamente questi ha la possibilità di riflettere sulla frustrazione della donna, che si vede scavalcata dalle graziose e giovani figlie del fratello, ormai prossime al matrimonio.

Infine Mr. Winkle è un altro emblema della borghesia inglese, denunciata da Dickens; anche lui, come Pickwick e Tupman, si veste di una identità fasulla, fingendo di possedere qualità e caratteristiche che in realtà non gli appartengono. Ciò appare evidente nell’episodio della battuta di caccia, quando Winkle, dopo aver millantato di essere un ottimo tiratore, finisce col ferirsi un braccio; tale episodio, se in un primo momento desta il riso nel lettore, determinato dalla situazione ridicola in cui Winkle si viene a trovare e all’imbarazzo che ne consegue, subito dopo genera una riflessione e quindi una commiserazione nei confronti del personaggio e della sua ridicola mascherata. Tuttavia, The Pikwick Papers non è l’unica opera dickensiana ammantata di un procedimento umoristico; seppur in maniera completamente diversa, anche il romanzo di Oliver Twist è caratterizzato dal cosiddetto black humour.

L’opera infatti è continuamente attraversata da un perverso e amaro sarcasmo, che si rivela ad esempio nelle parole di alcuni personaggi, come Mrs. Thingummy, quando parla della morte della madre di Oliver.

Diversamente da quanto accade in The Pickwick Papers, qui Dickens inserisce elementi umoristici che in un primo momento destano il riso di alcuni lettori, ma subito dopo finiscono con l’essere travolti dagli effetti più oscuri dell’opera; dunque, l’autore probabilmente inserisce la retorica del riso al solo scopo di enfatizzare ancora più drammaticamente la riflessione del lettore sul perpetuo isolamento del giovane eroe protagonista.

Se in The Pickwick Papers la retorica del riso consente al lettore di conoscere e apprezzare i personaggi e di considerarli come eroi di una nuova società, che smaschera l’impostura delle istituzioni civili, al contrario in Oliver Twist non c’è possibilità di realizzare una società epurata dalla presenza del malvagio. Anzi, il riso viene utilizzato da Dickens come una sottile arma che suggerisce che è lo stesso lettore ad essere un potenziale villain, nel momento in cui la riflessione amara, posteriore all’esperienza del riso, lo induce a comprendere che tale malvagità, tali iniquità sono tipiche della sua stessa persona, e non solo di un personaggio completamente inventato.

Se è vero che in quest’ottica la retorica del riso dickensiana è un espediente utilizzato dall’autore per rafforzare il coinvolgimento del lettore nei confronti del disgraziato orfano, è anche vero che nella trama di Oliver Twist esiste uno spiraglio di luce: infatti a metà della narrazione, Oliver viene liberato dal suo giogo e posto sotto la protezione della famiglia Maylie e da questo momento in avanti la vicenda narrata non farà altro che rafforzare la posizione sociale ormai certa del protagonista, eliminando o convertendo al bene quei personaggi che avevano minato la salvezza di Oliver. Salvezza che si realizzerà appieno solo nel momento in cui il giovane viene riscattato e il suo valore di essere umano riconosciuto, come appare evidente nelle parole di Charley Bates indirizzate a Oliver, quando nel capitolo XVIII afferma con candore «What a pity he is!».

Dunque, è importante notare che, mentre il carattere grottesco di personaggi dickensiani come Thomas Gradgrind, l’ebreo Fagin, o Scrooge, personaggi che perdono di aderenza alla realtà e da cui, pertanto, l’autore in primis, ma poi anche il lettore, prende le distanze, non destano il riso, ma esclusivamente un’amara riflessione, al contrario i componenti del Circolo Pickwick e di conseguenza gli altri tipi umani che essi incontrano durante i loro tumultuosi viaggi, in un primo momento non possono non provocare il riso nello spettatore, a causa dell’assurdità dei loro modi e delle loro avventure, ma in un secondo momento, proprio a causa del forte realismo che li permea, il lettore si immedesima a tal punto in quei personaggi, che viene portato dapprima alla commiserazione del personaggio stesso e successivamente all’amara riflessione di quanto tale assurdità sia ravvisabile nella sua stessa vita e nella società contingente. A conclusione di questa breve disamina, è necessario constatare che Dickens non lasciò alcuna testimonianza esplicita circa la sua pratica da umorista: tuttavia, egli riteneva che lo scopo fondamentale di un’opera letteraria fosse quello di instaurare un certo rapporto con il pubblico.

Asserendo pubblicamente «you write to be read», Dickens rendeva noto che i suoi romanzi non erano altro che incontri periodici coi suoi lettori: essi dovevano partecipare all’esperienza dell’opera tanto quanto l’autore che l’aveva scritta, e l’espediente del riso era uno dei mezzi, forse quello più importante, funzionali a rendere questo possibile.

Aurora Gaia Di Cosmo
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