Aristotele (384 a.C.-322 a.C.); Paul Verlaine (1844-1896); Edgar Allan Poe (1809.1849)

Tanti, sin da Aristotele e Orazio, si sono interessati all’arte poetica, cercando di individuare le finalità dell’arte, le sue metodologie, le sue tecniche. In sostanza cercando di cogliere il ‘segreto’ dell’arte della poesia: perché una poesia (o un poema) piace immensamente e diventa addirittura il fondamento di una civiltà (Omero, per esempio, o Dante Alighieri), e tante altre finiscono in breve nel dimenticatoio? E’ una domanda che attraversa la storia umana, senza ricevere una risposta definitiva.

Nei tempi moderni è Baumgarten che ha dato inizio all’estetica la sua ‘Aesthetica’ in due volumi (1750 – 1758) è il riferimento assoluto del pensiero estetico moderno. Dopo di lui tanti, da Crousaz a Dubos, da Diderot a Lessing, da Schiller ad Hegel, da Nietsche a Croce e a Pareyson, Heidegger, Adorno, Marcuse, Gadamer (che abbiamo già brevemente trattato). Ma veniamo a noi e restringiamo all’ennesima potenza l’oggetto dell’analisi, che ci porta dritti a Paul Verlaine.

Verlaine scrive un testo dal titolo ‘Nevermore’, che ci rimanda subito ad Edgar Allan Poe. Dunque: si sa che fu Baudelaire a scoprire Edgar Allan Poe (il quale in America non se lo filava nessuno), E Poe non é solo il formidabile scrittore dei ‘Racconti del terrore’, de ‘Il pozzo e il pendolo’, ma anche un raffinato poeta. Magari non tra i più importanti, ma diviene importante per la sua famosa poesia ‘Il corvo’, dove narra poeticamente della disperazione di una persona che ha perso l’innamorata. Questa persona si chiede: quando potrò rivederti? Quando riprenderemo a chiacchierare? E un corvo insistentemente risponde ‘Nevermore’. Mai. Perché Verlaine sente il bisogno di intitolare una sua poesia ‘Nevermore?’ (è francese, avrebbe potuto chiamarla Jamais). Perché ha voluto dare un segnale di riferimento al ‘corvo’ di Edgar Allan Poe. Di consonanza con la sua poetica, espressa in ‘La composizione del verso’ (1946).Riporto qui ‘Il corvo’ di Poe.

IL CORVO

Una volta, a mezzanotte, mentre stanco e affaticato
meditavo sovra un raro, strano codice obliato,
e la testa grave e assorta — non reggevami piú su,
fui destato all’improvviso da un romore alla mia porta.
«Un viatore, un pellegrino, bussa — dissi — alla mia porta, solo questo e nulla più!»

Oh, ricordo, era il dicembre e il riflesso sonnolento
dei tizzoni in agonia ricamava il pavimento.
Triste avevo invan l’aurora — chiesto e invano una virtù
a’ miei libri, per scordare la perduta mia Lenora,
la raggiante, santa vergine che in ciel chiamano Lenora
e qui nome or non ha più!

E il severo, vago, morbido, ondeggiare dei velluti
mi riempiva, penetrava di terrori sconosciuti!
tanto infine che, a far corta — quell’angoscia, m’alzai su
mormorando: «È un pellegrino che ha battuto alla mia porta,
un viatore o un pellegrino che ha battuto alla mia porta,
questo, e nulla, nulla più!».

Calmo allor, cacciate alfine quelle immagini confuse,
mossi un passo, e: «Signor — dissi — o signora, mille scuse!
ma vi giuro, tanto assorta — m’era l’anima e quassù
tanto piano, tanto lieve voi bussaste alla mia porta,
ch’io non sono ancor ben certo d’esser desto». Aprii la porta:
un gran buio, e nulla più!

Impietrito in quella tenebra, dubitoso, tutta un’ora
stetti, fosco, immerso in sogni che mortal non sognò ancora!
ma la notte non dié un segno — il silenzio pur non fu
rotto, e solo, solo un nome s’udì gemere: «Lenora!»
Io lo dissi, ed a sua volta rimandò l’eco: «Lenora!»
Solo questo e nulla più!

E rientrai! ma come pallido, triste in cor fino alla morte
esitavo, un nuovo strepito mi riscosse, e or fu sì forte
che davver, pensai, davvero — qualche arcano avvien quaggiù,
qualche arcan che mi conviene penetrar, qualche mistero!
Lasciam l’anima calmarsi, poi scrutiam questo mistero!
Sarà il vento e nulla più!

Qui dischiusi i vetri e torvo, — con gran strepito di penne,
grave, altero, irruppe un corvo — dell’età la più solenne:
ei non fece inchin di sorta — non fe’ cenno alcun, ma giù,
come un lord od una lady si diresse alla mia porta,
ad un busto di Minerva, proprio sopra alla mia porta,
scese, stette e nulla più.

Quell’augel d’ebano, allora, così tronfio e pettoruto
tentò fino ad un sorriso il mio spirito abbattuto:
e, «Sebben spiumato e torvo, — dissi, — un vile non sei tu
certo, o vecchio spettral corvo della tenebra di Pluto?
Quale nome a te gli araldi dànno a corte di Re Pluto?»
Disse il corvo allor: «Mai più!».

Mi stupii che quell’infausto disgraziato augello avesse
la parola, e benché quelle fosser sillabe sconnesse,
trasalii, ché, in niuna sorta — di paese fin qui fu
dato ad uom di contemplare un augel sovra una porta,
un augello od una bestia aggrappata ad una porta
con un nome tal: «Mai più!».

Ma severo e grave il corvo più non disse e stette come
s’egli avesse messo tutta quanta l’anima in quel nome:
sovra il busto, appollaiato — non parlò, non mosse più
finché triste ebbi ripreso: «Altri amici m’han lasciato!
il mattin non sarà giunto ch’egli pur m’avrà lasciato!». Disse allor: «Mai più! mai più!».

Scosso al motto ch’or sì bene s’era apposto al mio pensiere,
«Certo, — dissi, — queste sillabe sono tutto il suo sapere!
e chi a tale ritornello — l’addestrò, forse quaggiù
sarà stato sì infelice ch’ogni canto suo più bello
come un requiem, non aveva ogni canto suo più bello
a finir che in un mai più!»

Ma un pensier folle ancor voltomi a un sorriso il labbro torvo:
scivolai su un seggiolone fino in faccia al busto e al corvo,
e qui, steso nel velluto — presi intento a studiar su
cosa mai volesse dire quel ferale augel di Pluto,
quel feral, sinistro, magro, triste, infausto augel di Pluto
col suo lugubre: «Mai più!».

Così assorto in fantasie stetti a lungo, e sempre intento
all’augello i di cui sguardi mi riempivan di spavento,
non osai più aprire labro — sprofondato sempre giù
fra i cuscini accarezzati dal chiaror di un candelabro
fra i cuscini rossi ov’ella, al chiaror di un candelabro,
non verrà a posar mai più!

Allor parvemi che a un tratto si svolgesse in aria, denso
e arcan, come dal turibolo d’un angelo, un incenso.
«O infelice, dissi, è l’ora! — e infin ecco la virtù
e il nepente che imploravi per scordar la tua Lenora!
Bevi, bevi il filtro e scorda! scorda alfin questa Lenora!»
Mormorò l’augel: «Mai più!».

«O profeta — urlai — profeta, spettro o augel, profeta ognora!
O l’Averno t’abbia inviato — o una raffica di bora
t’abbia, naufrago, sbalzato — a cercar asil quaggiù,
in quest’antro di sventure, di’ al meschino che t’implora,
se qui c’è un incenso, un balsamo divino! egli t’implora!» Mormorò l’augel: «Mai più!».

«O profeta — urlai — profeta, spettro o augel, profeta ognora!
per il ciel sovra noi teso, per l’Iddio che noi s’adora
di’ a quest’anima se ancora — nel lontano Eden, lassù,
potrà unirsi a un’ombra cara che chiamavasi Lenora!
a una vergine che gli angeli ora chiamano Lenora!» Mormorò l’augel: «Mai più!».

«Questo detto sia l’estremo, spettro o augello — urlai sperduto.
Ti precipita nel nembo! torna ai baratri di Pluto!
non lasciar piuma di sorta — qui a svelar chi fosti tu!
lascia puro il mio dolore, lascia il busto e la mia porta!
strappa il becco dal mio cuore! t’alza alfin da quella porta!»
Disse il corvo: «Mai, mai più!»

E la bestia ognor proterva — tetra ognora, è sempre assorta
sulla pallida Minerva — proprio sopra alla mia porta!
Il suo sguardo sembra il guardo — d’un dimon che sogni, e giù
sui tappeti il suo riflesso tesse un circolo maliardo,
e il mio spirto, stretto all’ombra di quel circolo maliardo
non potrà surger mai più! (continua)

Edgar Allan Poe

Comprendiamo – credo – che ‘Arte poetica‘ – la cui gestazione è stata suggerita al poeta francese da Edgar Allan Poe – di Verlaine è estremamente importante perché è una specie di ‘prima volta’(come leggerete) e spiega perché tanta poesia decade subito: perché non tiene presenti i ‘comandamenti’ di Verlaine. Leggete e apriamo il dibattito: i problemi che mette in campo sono essenziali per chi scrive poesia.

Si è fatto riferimento a ‘Il corvo’ di Edgar Allan Poe, come testo esemplificativo della sua concezione della poesia. Un testo rivoluzionario, perché parte da un’idea innovativa (per i suoi tempi e forse ancor oggi): che la poesia non è ispirazione, ma composizione. ’Il corvo’ è una poesia di diciotto sestine risolte con ottametri trocaici, ovvero versi di otto trochei, cioè gruppi di tre sillabe di cui la prima è lunga e le due seguenti brevi. Tutta la lunga poesia è così, non cambia mai ritmo, il che crea una sorta di nenia cadenzata che contrasta fortemente con la tensione che ad ogni verso aumenta, perché ci conduce in un universo che non riusciamo più a controllare. Stabilità del verso, ansia della vicenda sono una miscela che crea l’effetto di questa poesia. Ma il fatto che più ci interessa è il seguente: che Poe ci mostra questa sua poesia come il risultato di una composizione, nient’affatto di una ispirazione. L’aver usato quel metro e quelle iterazioni rimandano ad una capacità ‘tecnica’, più che al lampo di genio. Nella sua ‘Filosofia della composizione’ (1846), il poeta e narratore americano Poe critica i poeti che «danno a intendere che essi compongono in uno stato di splendida frenesia». I poeti vogliono sempre e solo parlare della loro ‘estatica intuizione’, senza mai parlare (a suo tempo, ma molto anche oggi) del ‘lavoro’ che avviene nella loro mente nel comporre il testo. Scrivere una poesia è (come diciamo noi da un pezzo nei laboratori di poesia) non solo un fatto di ispirazione, ma è, molto, un lavoro compositivo. Riguardo a ‘Il corvo’ Poe spiega come «nessuna parte di questa poesia è da riferire al caso o all’intuizione», ma il testo è strutturato con la consequenzialità di un problema matematico. E torniamo a Verlaine e alla sua nota poesia ‘Arte poetica’, che qui riporto per intero:

ARTE POETICA

La musica prima di ogni altra cosa,
E perciò preferisci il verso impari
Più vago e più solubile nell’aria,
Senza nulla in esso che pesi o posi…
È anche necessario che tu non scelga
le tue parole senza qualche errore:
nulla è più caro della canzone grigia
in cui l’Incerto al Preciso si unisce.
Sono dei begli occhi dietro i veli,
è la forte luce tremolante del mezzogiorno,
è, in mezzo al cielo tiepido d’autunno,
l’azzurro brulichio di chiare stelle!
Perché noi vogliamo la Sfumatura ancora,
non il Colore ma soltanto sfumatura!
Oh! la sfumatura solamente accoppia
il sogno al sogno e il flauto al corno.
Fuggi lontano dall’Arguzia assassina,
dallo Spirito crudele e dal Riso impuro,
che fanno piangere gli occhi dell’Azzurro,
e tutto quest’aglio di bassa cucina.
Prendi l’eloquenza e torcile il collo!
E farai bene, in vena d’energia,
a moderare un poco la Rima.
Fin dove andrà, se non la sorvegli?
Oh, chi dirà i torti della Rima?
Quale fanciullo sordo o negro folle
ci ha forgiato questo gioiello da un soldo
che suona vuoto e falso sotto la lima?
Musica e sempre musica ancora!
Sia il tuo verso la cosa che dilegua
che si sente che fugge da un’anima che va
verso altri cieli ad altri amori.
Che il tuo verso sia la buona avventura
Sparsa al vento increspato del mattino
Che porta odori di menta e di timo…
E tutto il resto è letteratura.

Paul Verlaine

Perché è importante questa poesia di Verlaine? Perché è stato tra i primissimi ad aprire ‘l’officina della sua poesia’. A riflettere su come deve essere scritta una poesia. Su cosa va evitato.Vediamo:

  1. Per prima cosa bisogna convincersi che la musicalità è il fondamento di ogni poesia vera. Perciò ‘preferisci il verso dispari’, che è più vago e più solubile dell’aria (quindi versi dispari: di sette o nove o undici sillabe).
  2. Devi scegliere le parole con ambiguità. La parola deve dire e non dire (equivoco).
  3. Importante è la sfumatura: non il colore, ’solo l’alone!’
  4. Fuggi l’arguzia, che ‘assassina’ il testo, ovvero rifuggi dalla ‘sottigliezza’ nell’espressione e il motto troppo vivace o spiritoso, che è ‘aglio di bassa cucina’
  5. Strangola l’eloquenza’: fai tacere il gusto di eccedere nella forza espressiva, mantieniti ‘basso’. Tieni lontana la retorica.
  6. Attenti a non eccedere con la rima: la rima è pericolosa, spesso è ‘vacua e falsa’. «Il tuo verso – scrive Verlaine splendidamente – è la buona avventura sparsa al vento frizzante del mattino che porta odori di menta e di timo».

Il tuo verso dev’essere qualcosa di fragrante o odoroso… e tutto il testo è letteratura (cioè materiale di serie B, qualcosa di magari andante, gradevole, ma nulla di più). C’è, nella penultima strofa, la ripetizione. ’Musica e sempre musica ancora!’. Il verso dev’essere qualcosa che dilegua e mentre lo pronunci la tua anima è già altrove. Questa poesia di Verlaine è un trattato di arte poetica, che anticipa straordinariamente i tempi: dà una serie di consigli (anzi: di comandamenti) a cui ancor oggi molti ‘poetastri’ sono sordi.

Ora, non voglio dire che la poetica di Verlaine è quella da seguire in assoluto: lui seguiva una sua idea di poesia, noi ne seguiamo altre, ma i suoi ‘comandamenti’ di fondo sono sempre eternamente validi: niente arguzia o facilità di rima, meglio la parola ambigua, un po’ polisemantica, niente retorica (eloquenza). E tenere sempre presente che la poesia è musica, è ritmo. Se non c’è quello, non c’è poesia.

Daniele Giancane