Mi sono spesso chiesto come mai quasi nessun poeta novecentesco di grande valore si riconosce in una religione: da Montale a Pound, dalla Plath alla Sexton, e persino quando sembrano avvicinarvisi, lo fanno del tutto a modo loro: possiamo affermare che Lorca ed Eliot siano cattolici?

Lorca vede alcune figurazioni cristiane in chiave poetica, non di verità; Eliot fu tentennante. E prima ancora hanno a che fare con una religione Rimbaud e Verlaine, Mallarmé e Valery? Per nulla.

In verità questa riflessione vale anche per i narratori (tranne qualcuno) e per gli scrittori per l’infanzia. I nostri più grandi: Collodi, De Amicis, Rodari sono lontanissimi dalla religione cattolica. Collodi era massone, De Amicis socialista, Rodari comunista (ed anzi scomunicato).

A voler rovistare il solo Claudel si è sempre dichiarato cattolico (e Testori). Come mai? Credo che dobbiamo tornare al pensiero di Heidegger, che studiando a fondo le opere di Hoelderlin, ebbe a scrivere che ‘i poeti inseguono gli dei fuggiti’.

La religione, cioè, ha sempre meno presa sulle masse (lo vediamo ancor di più oggi) ed ha quasi dimenticato il senso del sacro. La solidarietà, l’amicizia, il rispetto sono praticate non solo dalla Chiesa ufficiale ma da tante organizzazioni. Ma chi parla degli angeli, se non Rilke? Chi crede davvero nell’angelo custode? Chi analizza la società moderna come non-spirituale, come Eliot? Chi scrive del mistero di un gatto come Neruda? Chi ha così pietà per i morti come Masters? Chi esalta l’amore come Gibran? Credo proprio che Heidegger avesse ragione, già ai suoi tempi: la religione è fuggita (conta poco) e i grandi interrogativi attorno alla vita se li pone l’arte (nel nostro caso la poesia).

Chi approfondisce il cuore umano sono Dostoewsky e Shakespeare, non certo le prediche in Chiesa. Certo, c’è la Bibbia, ma Fiodor ci parla proprio a noi di questi tempi e Masters evita giudizi etici, com’è proprio dei nostri anni: ‘Non c’è il matrimonio in cielo ,c’è l’amore’. Quale verso più moderno e consono a noi?

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È chiaro che questi ultimi interventi sono un po’ provocatori e radicali, però credo che in sostanza abbiano qualcosa di fondato. Non sono il il primo, ma molti studiosi di psicologia hanno scritto che alcuni scrittori e poeti – con la loro lunga analisi dell’anima umana – vanno più a fondo della psicologia. Certo, la psicologia ‘cura’ e la letteratura no (o forse sì, per tanti è una terapia) e sicuramente nessuno è mai disceso nei meandri dell’anima umana come Fiodor Dostoewsky, sino a vedervi non solo traumi infantili e rapporti dolorosi, ma la vera e propria ‘costituzione’ del mondo interiore, la sua ‘naturale’ inquietudine. Il suo precipitare tra demoni ed estasi.

È l’uomo così com’è ad essere un mistero, un dondolare tra le contraddizioni, tra istinti animali ed estensioni verso l’Oltre. E così Svevo, Bulgakov, Shakespeare e tanti altri. Allora, la grande letteratura ha lo ‘sguardo’ più acuto della psicologia moderna? E forse per guarire da una nevrosi si dovrebbe essere avviati a leggere certi libri ‘rivelatori’ di sé a se stesso? Chiamiamolo lo psico/bibliotecario?

Daniele Giancane