Non sempre il futuro è lo specchio di una felicità eterna e i passi avanti fatti dalla tecnologia devono essere considerati armi positive nelle mani degli uomini. L’evoluzione scientifica, infatti, può ritorcersi amaramente contro di noi e proiettarci in un mondo post-apocalittico in cui ci attende una catastrofica fine, l’annientamento dei sogni, della nostra speranza e di quella così lungamente inseguita utopia. Tutto ci sembra nero e il futuro ci fa sempre più paura. In questa nostra società ci sembra di vivere intrappolati in una paurosa casa degli specchi in cui non riusciamo più a riconoscere il reale dalla finzione e ogni nostra azione potrebbe rischiare di colpirci come un boomerang.

Questa visione tetra e pessimistica del mondo si ritrova soprattutto nella letteratura, nelle recenti serie TV e sul grande schermo, sotto un nome che ormai tende a imporsi sempre di più nel lessico comune: distopia.

Il termine distopia, oggi decisamente preferito a termini come antiutopia o cacotopia, deriva dalla parola utopia, coniata da Thomas More nel lontano 1516 per denominare la meravigliosa isola immaginaria del suo omonimo romanzo Utopia.

Questa particolare parola di origine greca significherebbe ‘luogo felice e luogo che non esiste’, una sorta di paradiso terrestre lontano dalla realtà; da qui nasce e si sviluppa un genere letterario che vuole mettere in risalto società perfette fondate sull’uguaglianza, mentre il suo opposto, distopia, indicherebbe un’immaginaria società spaventosa, un luogo dal quale è meglio tenersi alla larga.

Il termine distopia sarebbe stato usato per la prima volta da Greg Webber e John Stuart Mill in un discorso al Parlamento nel 1868. Il suffisso greco dis- significa “contrarietà, opposizione, male”, deve essere considerato, quindi, come un elemento il cui compito è quello di capovolgere il significato buono delle parole1.

Nel Novecento, all’isola immaginaria e pacifica si contrappone la forte
immagine negativa di una società da incubo, un mondo dal quale scappare e del quale avere paura. In poche parole la nostra amara civiltà. Sul rapporto tra utopia e distopia si potrebbero sviluppare molte e varie considerazioni, ma alla base rimane la distinzione e contrapposizione tra società giusta e società perversa, tra virtù e vizio, tra bene e male, tra felicità e infelicità2.

La distopia non si fida della ragione, non crede nell’uomo e nelle sue capacità positive, non immagina futuri rosei e floridi per la nostra specie, non vede nell’uomo un eroe e non prevede il lieto fine. Il prodotto che ne viene fuori inevitabilmente una lettura trasgressiva, cruda, dai toni noir e fantascientifici, della nostra esistenza. Abbiamo in questo modo una letteratura e una produzione cinematografica che scava nelle viscere della nostra coscienza portando alla luce le nostre più grandi paure e i nostri turbamenti prendendo, in questo modo, le sembianze di un temibile specchio che riflette la nostra realtà, una fotografia spesso deforme della vita dell’uomo.

Possiamo quindi definire la distopia una forma di realismo? Per rispondere a questa domanda dobbiamo necessariamente ripercorrere brevemente la storia di questo particolare genere letterario, e non solo, per comprendere il suo sottile ma allo stesso tempo spietato legame con la realtà. Il genere distopico si sviluppò nella seconda metà dell’Ottocento prevalentemente in Inghilterra, in connessione con le grandi trasformazioni sociali, si pensi alla Rivoluzione industriale, al proletariato urbano e alla diffusione di ideologie come il ‘darwinismo sociale’.

Gli intellettuali di quel periodo provano orrore e rifiuto verso la civiltà industriale e capitalistica, e credono che la macchina possa progressivamente prendere il posto dell’uomo, alienandolo o addirittura trasformandolo in un inutile automa3.

Nel XX secolo l’utopia moderna prende sempre di più coscienza che la felicità collettiva si ottiene a spese dell’individuo che si ritrova ad esser trasformato in un robot senz’anima, una pedina da muovere abilmente a proprio piacimento. All’indomani della Prima guerra mondiale, la distopia si è ritrova a rimpiazzare l’utopia positiva e a diventare l’orribile specchio delle grandi dittature moderne. All’ingenua fiducia verso il genere umano si sostituisce ora un senso di orrore, all’orgogliosa conquista utopica la paura di un’invasione terrificante.

Nel Novecento la tradizione letteraria che viene presa come modello per parlare di distopia è sicuramente quella inglese, si pensi ad esempio a testi come Brave New World di Huxley e 1984 di Orwell.

George ORWELL, 1984, Einaudi 2021

Se l’opera di Huxley riflette l’immagine di un mondo grottesco e distorto, 1984, invece, risponde con maggiore violenza a un’esperienza tangibile, il cui ricordo è ancora molto vivo e sentito, quello della Seconda guerra mondiale. Entrambe le opere si fanno portavoce delle stesse polemiche: l’umanità è ridotta a una macchina, la volontà del singolo si piega al valore del Partito, il mondo è corrotto e schiacciato da chi detiene il potere4.


L’utopia negativa finisce con il diventare uno strumento di difesa, un monito, un invito urgente all’uomo perché ricorra in tempo utile alle proprie risorse più umane, come la volontà, la libertà e l’umanesimo, per opporsi alla terrificante realizzazione del disumano in un mondo che si presenta senza modelli e senza storia. Il nostro presente è tutto questo? Riusciamo a cogliere in ciò che ci circonda questa descrizione così cupa del reale? Il nostro è forse un inferno che si ostina a travestirsi da paradiso?

Rispondere a queste domande, in un’epoca come la nostra che corre alla velocità della luce verso un destino che non si prospetta dei migliori, considerati gli svariati problemi che ci trasciniamo dietro e le tristi previsioni, significa voler guardare in modo critico al nostro modo di vivere e alla società che abbiamo plasmato, cercando di metterci in discussione e di esaminare il nostro stare al mondo. Gli scrittori che, nel corso della storia letteraria, si sono avvicinati al movimento del realismo, avvertivano la disperata esigenza di rappresentare la realtà, la vita quotidiana, cercando di cogliere quei risvolti sociali, culturali, politici ed economici che caratterizzavano una precisa società. Il realismo come la distopia segue il progredire del progresso, guarda da vicino l’evoluzione delle macchine nella nuova società industriale.

La distopia però è andata oltre, potremmo definirla come un realismo avanzato, senza tempo e capace di raccontare un futuro prossimo spaventoso ma che allo stesso tempo costruisce le sue basi in un presente sbadatamente sottovalutato. Si pensi alla fortunata opera orwelliana 1984, testo che può e deve essere considerato un romanzo senza tempo, un’opera che può farsi portavoce di qualsiasi anno e che si presenta sicuramente come lo specchio della nostra attuale società.

Nel mondo descritto da Orwell, l’autoritarismo del Capo si impone attraverso il teleschermo, che diventa il principio di controllo visivo totale riprendendo l’originale idea del Panopticon del filosofo e giurista inglese Jeremy Bentham, rivelatesi nell’evoluzione orwelliana una scelte terrificante per esercitare l’assoluto potere sulle persone5. Quando scrive 1984 ha in mente, sicuramente, i regimi di Hitler e Stalin, ma la sua denuncia non si limita a questi, si espande in modo molto più generale a tutti i totalitarismi del mondo moderno.

Il potere con cui facciamo i conti oggi non è poi così lontano e meno pericoloso di quello di cui parla Orwell nei suoi lavori, certamente è più articolato e complesso, forse anche più subdolo. Affonda le sue radici nell’economia, si pensi al ruolo delle multinazionali del petrolio e nelle istituzioni politiche che sono attraversate spesso da forme occulte di controllo, come hanno dimostrato i casi storici dei servizi segreti e delle logge massoniche coperte, negli anni Settanta e Ottanta, o le collusioni con il terrorismo e la mafia intorno agli anni Novanta.

Questa complessità manca in 1984, dove non vi sono strutture economiche che impongono le loro esigenze, ci sono solamente gruppi che esercitano un potere diretto da un capo, il Grande Fratello. Nel suo romanzo, Orwell, pur vedendo lontano e proiettando il lettore del suo tempo nel futuro, è rimasto indietro rispetto alla nostra realtà contemporanea. Molte volte si è detto che 1984 non è altro che una profezia dei nostri tempi, un racconto-specchio di quello che viviamo ogni giorno e del nostro modo di relazionarci.

Oggi la diffusione dei media e il perfezionamento tecnologico che li ha potenziati ha provocato una trasformazione del modo stesso di comunicare, cambiamento che ha portato ad una revisione della cultura. Schermi televisivi giganti, invadono le strade di Oceania, riproducono in modo ossessivo e martellante l’immagine del dittatore, il Grande Fratello, e ripetono in modo incessante le sue prescrizioni. Entrati presuntuosamente nella realtà quotidiana, gli schermi televisivi e i registratori che in 1984 avevano assunto una dimensione mostruosa di controllo ossessivo, dopo Orwell, sono stati considerati come nuovi strumenti di riproduzione, forse meno pericolosi di quelli del Grande Fratello, capaci di rivisitare il mondo in una prospettiva inedita e di catturare l’attenzione di tantissimi individui, che giorno dopo giorno finiscono con il diventare veri e propri schiavi.

Se ci soffermassimo a riflettere sulla nostra vita quotidiana, cercando di focalizzare la nostra attenzione critica sul nostro rapporto con i nuovi mezzi di comunicazione, ci accorgeremmo, sicuramente con grande dispiacere, di essere proprio noi quegli inetti, quegli antieroi inquietanti protagonisti dei romanzi distopici del passato, personaggi delle opere di grandi scrittori distopici come Orwell, Huxley e Bradbury, quegli uomini e quelle donne che si servono del potere e del consumismo anziché combatterli. Siamo noi i principali attori di romanzi scritti a partire dai primi anni del Novecento che, purtroppo, si rivelano terribilmente premonitori. Non è un caso che le serie tv più seguite del momento siano ambientate nel futuro e cerchino di rappresentare il peggiore dei mondi possibili, il mondo di oggi. Assistiamo a una sorta di déjà vu, in cui non ci sembrano più così tanto fantascientifiche e visionarie le grandi opere distopiche della letteratura straniera.

Serie tv come Mr Robot, Utopia e Black Mirror, proprio come i romanzi da noi affrontati finora, ci invitano a riflettere sul presente presentandoci mondi dominati dal complottismo, dagli hacker, da multinazionali senza scrupoli, da piani misteriosi e terrificanti, e dalla potenza della tecnologia capace di controllare le nostre esistenze e i nostri rapporti umani6.

In Black Mirror, ad esempio, in ogni episodio ci ritroviamo catapultati in un universo futuristico in cui gli individui vivono un rapporto morboso con la tecnologia che li spinge a perdere del tutto la ragione e a vivere veri e propri incubi.

La protagonista dell’episodio Arkangel si ritrova a monitorare, attraverso lo schermo di un iPad, ogni minima azione di sua figlia; quella di Be Right Back, invece, tenta di ricreare il compagno morto prematuramente, arrivando a produrre un inquietante clone che ci riporta alla mente il romanzo gotico Frankenstein, sintomo che la distopia, ieri come oggi, continua a far parte della nostra vita, sotto forma di lente distorta e critica del nostro modo di vivere e della nostra società. Viviamo un tempo frenetico in cui i social media sembrano manovrarci come marionette e i poteri forti di alcuni Paesi sembrano rimandare al Big Brother dell’immaginario stato di Oceania raccontato da Orwell in 1984.

Sono lontani i tempi delle utopie e la realtà, giorno dopo giorno, sta prendendo sempre più le sembianze di una pericolosa, cupa e tragica distopia. Il peggiore dei mondi possibili è già qui con noi, dobbiamo solo esserne consapevoli. Oggi forse, molto lentamente, stiamo aprendo gli occhi e stiamo scoprendo quel velo che da troppo tempo nasconde la cruda e dura realtà del nostro mondo e delle sue logiche, un mondo di gran lunga diverso dall’immagine utopica in cui tutti vivono sereni tra loro e vige la tolleranza per il prossimo. Viviamo in una società caratterizzata da uno schiavismo 2.0, in cui i teleschermi e gli schermi dei nostri cellulari sembrano avere delle vere e proprie calamite per la nostra attenzione. Che fine farà l’umanità? Cosa saremo tra dieci anni?

Siamo prossimi alla disumanizzazione e, come molti autori stranieri, anche gli scrittori italiani, negli ultimi anni, avvertendo tale pericolo, non sono rimasti a guardare e hanno descritto scenari post-apocalittici in cui i protagonisti fanno i conti con se stessi e con un mondo caratterizzato dalla mancanza di valori e da disastri ambientali causati dalle società totalitarie. La vera e più grande catastrofe, però, avviene internamente all’uomo, nel suo microcosmo interiore bombardato continuamente da velate imposizioni che gli ordinano una “felicità obbligatoria”7 in un’epoca sempre più sconquassata dalle incertezze. Di cosa parlano le distopie oggi?

Antonio Gramsci parlava di egemonia culturale e di «direzione intellettuale e morale»8 per sottolineare il dominio culturale sulla società, un tempo esercitata da scuole, università e giornali che, attraverso un complesso sistema di controllo delle masse, imponevano i loro punti di vista; oggi l’egemonia culturale analizzata dall’autore dei Quaderni dal carcere è diventata l’arma dei moderni social network, come Facebook e Twitter, vere e proprie trappole che ci manipolano silenziosamente e quotidianamente.

La società di oggi con i suoi mezzi di comunicazione assume le sembianze di uno specchio che deforma le nostre paure più profonde e ce le mostra in relazione a diversi campi, alla tecnologia, alla politica, ai diritti civili, all’ambiente e alle relazioni. La tecnologia, soprattutto, negli ultimi anni, sembra aver preso il sopravvento sulla nostra vita e sul nostro modo di interagire con gli altri. Cosa succede se il virtuale si sostituisce al reale?

Uno dei concetti chiave attraverso cui è indispensabile indagare le tante opere del corpus distopico italiano e straniero, è il concetto di alienazione9. Scrittori, registi e fumettisti si sono lasciati travolgere da questo spaventoso modo di raccontare il presente e di guardare al futuro e hanno iniziato a raccontare il mondo seguendo le linee guida del cyberpunk.

Passando per l’affresco spietato e crudo tracciato da Arancia Meccanica (1971), la distopica e inquietante Los Angeles del 2019 che fa da sfondo a Blade Runner (1982), film diretto da Ridley Scott e interpretato da Harrison Ford, e la spaventosa Gotham City descritta da Tim Burton nel film Batman (1989), fino alla recente serie televisiva statunitense denominata proprio Gotham, arriviamo alla trilogia filmica The Matrix, diretto da Andy e Lana Wachowski. In tutti questi film emerge la dialettica tra società e individuo: la società, fondata su regole ferree comuni, si oppone inevitabilmente all’individuo che, forse troppo tardi, cerca di affermare se stesso, opponendovisi10.

Con le opere distopiche riusciamo, quindi, a evidenziare le tendenze perverse e distruttive in atto nella nostra società e nell’uomo contemporaneo. Non possiamo far altro che constatare l’esistenza di una vera e propria correlazione tra la distopia e la storia contemporanea; film, romanzi e fumetti distopici ce lo ricordano quotidianamente e ci permettono di intravedere il futuro che ci attende, un futuro in bilico e, sicuramente, poco roseo.

Tra alti e bassi, il genere distopico, sin dalla sua nascita, non ha mai subito un forte arresto in quanto è sempre riuscito a rispecchiare i “mostruosi” esempi provenienti dalla storia, esempi a cui la distopia si è sempre ispirata. Negli ultimi anni, in particolare dopo le ultime elezioni statunitensi del 2016, questo genere letterario ha subito un notevole incremento. Come ricordavo prima, 1984 di George Orwell ha avuto un vero e proprio boom di vendite tra il 2016 e il 2017, in giro per il mondo sono comparsi numerosi manifestanti e attivisti intenti ad indossare l’iconica maschera di V per Vendetta e i vestiti rossi delle Ancelle del romanzo Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood, in cui le donne sono padrone di nulla, neanche di se stesse e del proprio corpo11.

Nel corso degli ultimi anni, precisamente dal 2017 (anno in cui la fortunata e acclamata serie TV statunitense, creata da Bruce Miller, The Handmaid’s Tale ha fatto la sua comparsa riprendendo la trama e i contenuti del romanzo distopico della Atwood), in tutto il mondo, le immagini più forti e significative del romanzo e della serie televisiva si sono trasformati in veri e propri simboli di ribellione femminile. Il 27 luglio del 2017, un gruppo di donne con mantelli rossi e copricapi bianchi (simboli caratterizzanti le ancelle del romanzo) ha protestato contro la decisione del Presidente statunitense Trump di tagliare i fondi destinati alle organizzazioni a favore della legislazione pro-aborto e dell’educazione sessuale12.

Il romanzo distopico della Atwood e la serie televisiva statunitense trattano temi molti caldi e attuali: violenza fisica, psicologica, aborto, fertilità e disparità di genere. Il confronto tra la fantasia e la realtà è sconcertante, ancora una volta un’opera distopica riesce a elaborare una critica concreta e dura al mondo contemporaneo. Un romanzo distopico, visionario e dai toni fantascientifici del 2016 scritto dall’autrice inglese Naomi Alderman, Ragazze elettriche, ha cercato di ribaltare i ruoli di potere del nostro mondo contemporaneo, immaginando un mondo dominato dalle donne in cui gli uomini sono ridotti in schiavitù. Ci troviamo davanti un mondo in cui tutto sembra ribaltato, sono gli uomini ad aver paura delle donne capaci di sviluppare scosse elettriche così potenti da uccidere chiunque cerchi di molestarle.

Naomi ALDERMAN, Ragazze Elettriche, Nottetempo edizioni, Milano 2017

Agli uomini non è più permesso di guidare automobili. Agli uomini non è più consentito di possedere aziende. I giornalisti e i fotografi stranieri devono lavorare alle dipendenze di una donna. Agli uomini non è più permesso di riunirsi, nemmeno in casa, in gruppi più grandi di tre, senza una donna presente. Agli uomini non è più consentito di votare – perché i loro anni di violenza e di indegnità hanno dimostrato che non sono adatti a prendere decisioni o governare13.

Questo romanzo penetra nelle vene della crudeltà che abita chiunque si senta in dovere di esercitare una qualsiasi forma negativa e totalizzante di potere su un altro. L’ascesa al potere delle donne non è altro che il riflesso dei regimi guidati dagli uomini, l’unica differenza è che se prima le vittime erano le donne ora lo sono gli uomini. Siamo spinti più che mai a fare un’inevitabile analisi del nostro tempo e delle polemiche che aleggiano sulle questioni di genere. Chi ora si sente sottomesso, domani potrebbe vestire i panni del tiranno e viceversa, ma a cosa porterebbe? Ci sarebbero sempre ingiustizie, morti e soprusi, cambierebbe solamente il sesso di chi muove i fili e di chi subisce.

I personaggi immaginari dei romanzi distopici diventano reali simboli di contestazione, armi nelle mani di uomini e donne che vogliono rivendicare la propria identità e i propri diritti in una società che li schiaccia sempre di più, giorno dopo giorno. L’unico mezzo che abbiamo per combattere la distopia del nostro presente è la conoscenza.

Una popolazione istruita e cosciente è meno suscettibile di manipolazione e, quindi, ha maggiori possibilità di realizzare una società più giusta, equa, rispettosa, aperta e felice. Per far ciò bisogna guardare indietro, riflettere su ciò che è stato e studiare i corsi e ricorsi che hanno portato alla nascita della nostra società. Bisogna appellarsi al monito costante della storia per riconoscere i processi pericolosi e imparare dai grandi errori del passato14.

La storia non è altro che un grande processo di eventi a cui tutti prendiamo parte, più o meno coscientemente, e il futuro è il frutto delle nostre scelte, delle decisioni di oggi. Dobbiamo essere consapevoli del nostro passato e del nostro presente per dimostrarci responsabili e pronti davanti al futuro, impedendo all’utopia di trasformarsi in distopia, evento di cui, purtroppo, abbiamo diversi esempi. La storia può essere sfruttata dall’uomo a suo piacimento e può essere utilizzata come arma per controllare le coscienze della popolazione, traviando le menti e costruendo, in questo modo, il futuro sulla base dei propri interessi e bisogni socio-politici.

E se tutti gli altri accettavano quella menzogna che il Partito imponeva (se tutti i documenti ripetevano la stessa storiella), la menzogna diventava verità e passava alla storia. Chi controlla il passato – diceva lo slogan del Partito – controlla il futuro: chi controlla il presente, controlla il passato15.

Questo è uno dei tanti terrificanti slogan del Partito di Oceania, lo stato immaginario di cui parla Orwell in 1984, forse uno dei più attuali e utili per comprendere la potenza della memoria sulla costruzione del nostro futuro. Le opere distopiche, siano esse romanzi, film, serie TV o fumetti, attraverso la costruzione di realtà spaventose che mettono a nudo le nostre paure e i nostri problemi reali, criticano l’agire dell’uomo e allo stesso tempo mettono in guardia i loro fruitori utilizzando mondi lontani nel tempo e nello spazio. Inevitabile porsi una domanda, di cosa deve avere paura l’uomo oggi?

L’uomo nelle tante opere distopiche deve proteggersi da svariati e brutali congegni antropomorfi, riuscire a sfuggire a calcolatori assassini (si pensi ad Hal 9000 del film 2001: Odissea nello spazio del 1968 di Stanley Kubrick oppure a Skynet di Terminator del 1984 di James Cameron), scampare a devastanti epidemie e cercare di tenere alla larga l’altro, il diverso, lo straniero. Nei film citati prima in cui si tratta il tema cibernetico, si veda ad esempio Matrix, il confine tra reale e irreale è davvero sottile e tende a dissolversi del tutto fino a rendere i protagonisti mere pedine di un gioco sempre più spaventoso e visionario in cui i nuovi signori del mondo non sono uomini ma macchine16.

Lo scenario di queste cupe opere letterarie e cinematografiche sono città che si trasformano in veri e propri organismi raccapriccianti in grado di inghiottire l’uomo, le sue idee e la sua identità, incatenandolo in un claustrofobico microcosmo. Ritroviamo delle crude rappresentazioni futuribili di società apparentemente perfette che si presentano poi distorsive della coscienza e della libertà, vere e proprie gabbie culturali, sociali e psicologiche. Un altro scenario tipico di questo genere è quello catastrofico in cui catastrofi ecologiche e mondi post-apocalittici fanno da sfondo ai vani tentativi di sopravvivere dei pochi superstiti della razza umana.

Uno dei primi romanzi di questo genere è Io sono leggenda, opera scritta nel 1954 da Richard Matheson, da cui sono stati tratti tre film, il più famoso sicuramente l’omonimo del 2007 di Francis Lawrence con Will Smith. Matheson racconta la sopravvivenza e la dura resistenza di Robert Neville, l’ultimo uomo rimasto sulla terra dopo che un potente virus ha trasformato tutti gli uomini in vampiri. Lui è sopravvissuto ed è l’unico rappresentante di una razza ormai estinta, è una leggenda17.

Al filone apocalittico sono legate anche tutte quelle opere, letterarie e cinematografiche, che denunciano l’avvelenamento del pianeta a causa del continuo inquinamento provocato dall’uomo. Tra i primi romanzi post apocalittici che possiamo definire socio-ecologici, troviamo La morte dell’erba (titolo originale The Death of Grass) di John Christopher del 1956 e Il mondo sommerso (titolo originale The Drowned World) di James Graham Ballard del 1962. Più recente è L’ultimo degli uomini (titolo originale Oryx and Crake), romanzo del 2003 di Margaret Atwood, scrittrice non nuova al genere distopico, opera in cui si lancia un forte allarme contro l’abuso dell’ingegneria genetica. Il protagonista, Uomo delle Nevi, l’unico sopravvissuto, si muove su un pianeta devastato dai cambiamenti climatici e dominato da onnipresenti multinazionali senza scrupoli.

Cosa lasceremo ai nostri figli? Il mondo boccheggia sotto i nostri occhi ma sembra non importarcene. E’ questo il fulcro intorno al quale ruotano questi romanzi distopici, la profonda sfiducia verso la razza umana incapace di abitare la Terra in modo consono, rispettando il suolo che calpesta ogni giorno. Le distopie che descrivono apocalissi e catastrofi dedicano molta attenzione all’aspetto sociologico delle vicende e cercano di analizzare le svariate reazioni umane davanti al pericolo imminente, rivelando un forte pessimismo nei confronti degli uomini. Cadute determinate barriere, siano queste formali o legislative, l’istinto di sopravvivenza dell’uomo porta alla prevaricazione e non all’aggregazione18.

Nel romanzo del 1952 di William Golding, Il signore delle mosche, si racconta la storia di un gruppo di ragazzi naufragati su un’isola deserta, in fuga da una guerra nucleare. Questo romanzo mette a fuoco le tensioni che scoppiano all’interno di un gruppo di ragazzi e che avranno risvolti drammatici. Sull’isola, infatti, dopo i primi tentativi del gruppo di organizzarsi e di fondare una provvisoria società, i giovani si ritroveranno presto catapultati in una spirale di violenza e delirio19.

I ragazzi hanno bisogno di essere salvati da loro stessi, sono nudi davanti alle loro più grandi paure e il lato oscuro, presente in ogni uomo, ha preso inesorabilmente il sopravvento. L’opera di Golding affonda le sue radici nelle atrocità commesse durante l’ultimo conflitto mondiale e si propone come una chiara volontà di mettere in luce lo sbaglio nel dare completa fiducia all’uomo, al progresso e alla tecnologia. Il cupo pensiero che emerge leggendo questo romanzo distopico è racchiuso in una dichiarazione che l’autore ha ripetuto in molte interviste: «L’uomo produce il male come le api producono il miele». I ragazzi protagonisti del romanzo, come afferma lo stesso autore nella postfazione al libro, «soffrono di una terribile malattia: quella di appartenere alla razza umana»20.

Un’organizzazione sociale simile a quella descritta nel romanzo di Golding, fatta esclusivamente da giovani, la ritroviamo nel romanzo distopico di Niccolò Ammaniti, Anna. Niccolò Ammaniti è oggi uno degli scrittori italiani più apprezzati e popolari.

Dopo la fortunata trasposizione cinematografica di Gabriele Salvatores del romanzo Io non ho paura21 (pubblicato dall’autore nel 2001) con la quale raggiunge la fama nazionale, nel 2015, decide di cimentarsi con il difficile mondo della distopia, di quella visione del futuro che si oppone a una rassicurante utopia, una vera e propria sfida per qualsiasi autore. Una Sicilia abitata da scheletri, incendi, ragazzini affamati, cani randagi e case abbandonate, fa da sfondo alle avventure di Anna Salemi, una ragazzina di tredici anni che, dopo la prematura morta dei genitori, si ritrova a fare da madre al fratello minore, Astor, e a cercare in tutti i modi di proteggerlo da qualsiasi pericolo, anche se una parte di lei è cosciente che è solo questione di pochi anni prima di essere colpiti dalla malattia se non si riuscirà a trovare in tempo un rimedio.

Siamo nel 2020, in uno scenario apocalittico in cui tutti gli adulti sono morti a causa di una misteriosa epidemia, la Febbre Rossa, chiamata anche “La Rossa”, un virus letale: la comparsa di una singola macchia cutanea è l’inizio di un tragico conto alla rovescia che conduce inevitabilmente alla morte. L’autore ambienta il suo romanzo distopico nel 2020 parlando di un’epidemia mortale che non lascia scampo. Realismo, previsione o semplicemente casualità? Il nuovo anno si è aperto con la notizia della diffusione della «Sindrome respiratoria acuta grave Coronavirus 2», conosciuto da tutti semplicemente come Coronavirus. I sintomi più comuni della nuova epidemia partita dalla città cinese di Whuan che purtroppo ha piegato il mondo includono febbre, tosse e difficoltà respiratorie. Nei casi più gravi, l’infezione può causare polmonite, sindrome respiratoria acuta grave, insufficienza renale e persino la morte.

Il 31 dicembre 2019 le autorità cinesi informano l’Organizzazione mondiale della Sanità che a Wuhan si è verificata una serie di casi di simil-polmonite, la cui causa è però sconosciuta: il virus, fino a questo momento, non corrisponde a nessun altro noto. Ad oggi la misura più efficace per prevenire l’epidemia è la quarantena, l’isolamento previsto è di 14 giorni, poco più di quello che si presume sia il periodo di incubazione del virus22.

Il preoccupante virus, inevitabilmente, si è diffuso anche
nel nostro Paese trascinando con sé una vera e propria psicosi che ha
generato a sua volta la paura nei confronti dell’altro, di chi ci sta accanto,
di chi viene da lontano o semplicemente da un’altra regione della nostra
nazione, di chi ci porge la mano o persino di chi ci saluta.

Il nuovo Coronavirus può essere definito la nuova distopia del 2020? Se la nostra vita fosse un romanzo di fantascienza potrebbe essere esattamente così; quello che stiamo vivendo non è altro che una distopia sociale che, giorno dopo giorno, costruiamo con le nostre stesse mani, permettendo al razionale di lasciare posto all’irrazionale.

Viviamo i nostri giorni all’insegna della paura, elemento dominante nelle produzioni distopiche. Avete mai sentito parlare di Io sono leggenda? Si tratta di opera scritta nel 1954 da Richard Matheson, da cui sono stati tratti tre film, il più famoso è sicuramente l’omonimo del 2007 di Francis Lawrence con Will Smith. Matheson racconta la sopravvivenza e la dura resistenza di Robert Neville, l’ultimo uomo rimasto sulla terra dopo che un potente virus ha trasformato tutti gli uomini in vampiri. Lui è sopravvissuto ed è l’unico rappresentante di una razza ormai estinta, è una leggenda.

La linea tra la prevenzione e la voglia irrefrenabile di creare una specie di bunker in casa come il protagonista dell’opera di Matheson è davvero sottile. I comportamenti umani, quando messi a dura prova dal meschino sentimento della paura, tendono all’estremo portando gli uomini ad una vera e propria disumanizzazione. In conclusione, vorrei porre ai lettori una domanda: ‘Quello in cui ci muoviamo è solamente un incubo o è la realtà?’. Forse la risposta la conosciamo già.

Annarita Correra


1 B. Battaglia, La letteratura distopica. Da Butler a Orwell, in L. M. Crisafulli, Manuale di letteratura e cultura inglese, Bologna, Bonomia University Press, 2009, p. 537.

2 A. Colombo, Su questi saggi e la loro genesi. Sull’utopia e sulla distopia, in A. Colombo, Utopia e distopia, Milano, Franco Angeli, 1987, pp. 11-12.

3 B. Battaglia, op. cit., p. 539

4 R. Trousson, La distopia e la sua storia, in A. Colombo, Utopia e distopia, cit., pp. 215-216.

5 V. Fortunati, Da Bentham a Orwell: un’utopia panottica del potere, in A. Colombo, Utopia e distopia, cit., pp. 49-54.

6 A. Muni, Distopie e altri disastri, «L’Espresso», LXIV, 43, 21 ottobre 2018, p. 78.

7 Una felicità non lontana da quella di cui si parlava in Brave New World di Aldous Huxley, Milano, Mondadori, 2016.

8 A. Gramsci, Quaderni del carcere, vol. III, Torino, Einaudi, 1975, p. 2010.

9 Con questo termine si fa riferimento a colui o a ciò che è altro, straniero, non appartenente alla nostra comunità. Questo termine viene utilizzato, anche, per indicare genericamente il disagio dell’uomo moderno nella civiltà industriale, nella quale l’artificio lo fa sentire lontano delle proprie radici naturali. Nelle opere letterarie studiate nei capitoli precedenti è emerso quanto l’alienazione sia un fil rouge per il genere distopico, un concetto cardine che si riferisce sia alla sfera psicologica che a quella sociale.

10 T. Meozzi, op. cit., p. 29.

11 Il racconto dell’ancella è un romanzo distopico del 1985 di Margaret Atwood (scrittrice e attivista canadese). E. Di Minico nel suo libro Il futuro in bilico. Il mondo contemporaneo tra controllo, utopia e distopia, Meltemi, Milano 2018, p. 174, lo definisce un’opera femminista ferocemente lucida. In uno stato totalitario e dittatoriale, estremamente bigotto, a causa di malattie e inquinamento, la maggior parte della popolazione è sterile. Le donne, considerate responsabili di tale sciagura, sono additate come esseri inferiori, sono oppresse, umiliate e rigidamente divise in gruppi: le Mogli si occupano dell’organizzazione della casa, le Marte svolgono mansioni servili e le Ancelle, ovvero le uniche donne ancora fertili, sono scelte come madri surrogate e destinate ad una vita di abusi.

12 G. Frigerio, The Handmaid’s Tale non è una distopia, è un avvertimento, «The Vision», 2 agosto 2019. https://thevision.com/intrattenimento/handmaids-tale-serie, consultato l’ultima volta il 12 febbraio 2020.

13 N. Alderman, Ragazze elettriche, Milano, Nottetempo, 2017, p. 324.

14 E. Di Minico, op. cit., pp. 399-400.

15 G. Orwell, 1984, Milano, Mondadori, 1950, p. 38

16 E. Di Minico, op. cit., p. 42.

17 D. Guardamagna, Analisi dell’incubo, Roma, Bulzoni, 1980, p. 107.

18 E. Di Minico, op. cit., pp. 47-48.

19 R. Trousson, La distopia e la sua storia, in A. Colombo, Utopia e distopia, cit., p. 33

20 W. Golding, È un compito ingrato raccontare favole, Prefazione, in Il signore delle mosche, Milano, Mondadori, 2017, p. 253.

21 Io non ho paura è un romanzo di formazione, drammatico e realistico. Le vicende narrate dall’autore sono ambientate nell’Italia meridionale, precisamente nel piccolo centro di Acqua Traverse. Qui il protagonista, Michele Amitrano si ritroverà a fare i conti con l’età adulta, le sue ingiustizie e le sue crudeltà. Questo libro può essere considerato un romanzo di formazione perché mette a nudo le emozioni, i sentimenti e la crescita del piccolo coraggioso protagonista.

22 [Red], Coronavirus dalla Cina: tutto quello che sappiamo sull’epidemia, «La Repubblica», 31 gennaio 2020. https://www.repubblica.it/salute/medicina-e ricerca/2020/01/31/news/coronavirus_dalla_cina_cosa_sappiamo 247233573/