I più gentili e più caldi ammiratori dannunziani hanno confessato, se in buona fede, che non ci si capiva nulla, ma che il “Sogno” era della bella musica, o della bella poesia. Ora al teatro di prosa si va a sentire della bella prosa, e i personaggi devono essere uomini vivi, anche se si chiamino “dramatis personae” e il dramma si chiami “poema”. Diversamente al maestro di musica chiederemo soltanto un bel libretto, e al romanziere delle belle incisioni in rame1.

Sabatino Lopez
1 S. LOPEZ, Il Sogno di D’Annunzio, in P.D. Giovanelli, Sabatino Lopez critico di garbo.
 Cronache drammatiche ne «Il Secolo XIX» (1897-1907), con prefazione di G. Lopez,
 Bulzoni, Roma 2003, p. 48.

Dietro queste parole, trancianti, di Sabatino Lopez sul dannunziano Sogno di un mattino di primavera, pubblicate sulle colonne del «Secolo XIX», fremeva lo sdegno dell’artista che al teatro di poesia contrappone quello di ‘verità’, concorde con l’idea che sarebbe stata espressa anche da Gramsci quando avrebbe scritto, stroncando ingiustamente il pirandelliano Così è (se vi pare), che sulle scene non sono sufficienti le “virtù dello stile per creare bellezza” e le “sospensioni metaforiche” debbano scendere “al concreto della vita”.

Tra i protagonisti del teatro italiano nello scorcio tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del XX secolo, Lopez è oggi sostanzialmente caduto, salvo poche eccezioni, nell’oblio dei critici letterari e del grande pubblico, schiacciato tra le superbe innovazioni del teatro pirandelliano, le sperimentazioni del “grottesco” e gli incubi allucinati di Bontempelli e giudicato sbrigativamente tra i facitori di un’attardata “commedia per bene”, che Gramsci definiva con disprezzo “profumata di spigo e di cotogno”. In realtà, nostro modesto avviso è che, se il teatro non va giudicato sulla scorta della sua portata innovativa sotto il profilo formale, ma in base alla sua capacità – come Lopez credeva – di generare creature vive nell’immaginario del pubblico e del lettore, l’opera dello scrittore toscano debba essere oggetto di riconsiderazione e valutata iuxta propria principia e non sulla scorta di confronti con altri autori cronologicamente contigui. Quest’attenzione dovrebbe, a nostro parere, essere rivolta all’intero teatro tra fine Ottocento e inizio del secolo scorso e potrebbe essere foriera di gradevoli sorprese, inducendoci alla riscoperta di testi che hanno ancora molto da comunicare, come, per esempio, nel caso di Lopez, La nostra pelle e Mario e Maria.

Pirandello e Lopez

Ci sia concesso prima di richiamare qualche breve cenno biografico su Sabatino Lopez. Era nato a Livorno il 10 dicembre 1867, da Isacco Lopez ed Elvira Tedeschi. Laureato in Lettere presso l’Università di Pisa nel 1888, aveva avuto come relatore uno dei maggiori esponenti della scuola storica, Alessandro D’Ancona, autore, tra l’altro, insieme a Orazio Bacci, di un fortunato manuale di letteratura italiana. Cominciava così una carriera di insegnante, che dal Piemonte lo avrebbe condotto alla Sardegna e poi in Sicilia e a Genova, dove collaborò come autore di cronache teatrali per il «Secolo XIX», come ben documentato nell’eccellente volume di Paola Daniela Giovanelli, Sabatino Lopez critico di garbo. Cronache drammatiche ne “Il Secolo XIX” (1897-1907), RomaParallelamente correva la sua graduale affermazione come autore teatrale. Nel 1909 il Nostro sposò Sisa Tabet e dal matrimonio nacquero Roberto Sabatino, storico, e Guido, scrittore e giornalista. Nel 1911, ottenne l’elezione a successore del dimissionario Marco Praga (desideroso “di metter su a Milano una Compagnia Stabile della città”2) alla guida della Società degli autori, carica che mantenne sino al 19193. Dal gennaio 1923 al marzo 1929, curò una rubrica settimanale per il periodico «L’Illustrazione italiana», con lo pseudonimo di Tartaglia4. Nel momento in cui era giunto all’apice del successo di pubblico5 (seppur con alcune cadute e subendo spesso le incomprensioni della critica letteraria), non fu risparmiato dalle persecuzioni fasciste; nel 1938, le “leggi razziali” vietarono qualsiasi rappresentazione dei suoi testi teatrali, che sarebbero tornati a calcare le scene in Italia nel 1944, a Roma, con una delle opere più fortunate dell’autore, La signora Rosa.

2 G. LOPEZ, 10 dicembre 1867. Nascita di Sabatino Lopez, in «Il dramma», XLIII, nuova serie, 371-372, 1967, p. 10.

3 Fu anche insegnante all’Accademia di Belle Arti di Brera e presidente dell’Università popolare di Milano e del Teatro del Popolo.

4 In tale posizione, si mostrò tutt’altro che sfavorevole al fascismo, come si può leggere in Tartaglia commemora, in Tartaglia (Sabatino Lopez), Antologia, Fratelli Treves, Milano 1945, pp. 15 19. Tutto necessita, però, di essere adeguatamente contestualizzato.
 Non furono pochi quanti nutrirono fiducia nelle premesse dell’azione mussoliniana, salvo poi restarne delusi e danneggiati, quando non addirittura travolti.

5 Erano gli anni in cui Armando Falconi aveva portato al successo il personaggio di Giobatta Parodi, “uomo d’affari rude e solido” (F. GHIRALDI, Nel centenario della nascita. Sabatino Lopez. Le commedie che parlano al cuore, in «Il dramma», XLIII, nuova serie, 371-372, 1967, p. 33)

Nel frattempo, nel corso del secondo conflitto mondiale, Lopez era stato costretto a riparare in Svizzera. Il figlio Guido, parlando del padre in terza persona, ricordava con accenti accorati tali eventi: “Lopez che è costretto a fuggire a piedi, di notte, a 76 anni di età, per le montagne fra Italia e Svizzera”6. Sarebbe rientrato a Milano dopo la guerra, morendo nell’ottobre 1951, all’età di ottantaquattro anni, nel capoluogo lombardo.

6
 LOPEZ, 10 dicembre 1867 cit., p. 26.

Commemorando la figura e l’opera di Lopez, Eugenio Levi fece riferimento a una sorta di “ebraismo sotterraneo, non volontario”7, capace di consentire allo scrittore di tener fede alle sue radici e al contempo di riuscire a esprimere “il più schietto colore dell’animo toscano”. Levi considerava Lopez lontano dalle pose ibseniane o dannunziane8, dalle suggestioni benelliane così come dalle intellettualistiche – eppure palpitanti di vita, come ben colse Giacomo Debenedetti – costruzioni pirandelliane. Levi individuava le vere ascendenze della Weltanschauung e dell’esperienza di Lopez nella «commedia borghese dell’Ottocento», in un movimento che, per dir la verità, risaliva all’indietro sino a Goldoni, oggetto di vera e propria venerazione da parte del livornese.

7 Dal 17-18 sino al 43 fu presidente del Gruppo sionistico milanese, come ricorda E. LEVI, in Ricordo di Sabatino Lopez (Nel centenario della nascita), in «La Rassegna Mensile di Israel», XXXIV, terza serie, No. 3 (Marzo 1968), p. 131.

8 Memorabile la già citata stroncatura del Sogno di un mattino di primavera per le pagine del «Secolo XIX»; in essa, il critico sembra gareggiare con il commediografo: “Ho detto di sopra che tutti quanti i personaggi parlano come dementi. Le prove? Eccone qui una. Sentite come si esprime Teodata, la custode vecchia della villa, detta L’Armiranda:‘È la primavera, è la primavera… Ella rideva, rideva nel bagno, rideva di continuo… La vedo ancora, la sento ancora… La povera anima cominciò a tremare, a tremare… Potrebbe? Dunque, potrebbe? Potrebbe, dunque, dottore?’ E il dottore: ‘Ah, io comprendo, io comprendo… Voi comprendete…’ E se il dottore comprende, Virginio dice a Beatrice: ‘Ah! Voi non potete comprendere…’ E Beatrice esclama: ‘Se io comprendessi…’ Ah! Se comprendessimo noi invece” (S. Lopez, Il Sogno di D’Annunzio, in Giovanelli, Sabatino Lopez critico cit., p. 47).

Ad accostarlo al commediografo settecentesco il dialogo eletto, “rarefatto e leggero” e il rispetto verso il pubblico, ma certo il legame di Lopez con la cultura ottocentesca – cui per ovvie ragioni Goldoni era estraneo –, e in particolare con la commedia di fine secolo (quella dei Giacosa, Praga, Gallina, Rovetta) rappresentava, secondo Levi, il principale limite alla conduzione di un raffronto. Però alle morali preconfezionate, Lopez avrebbe preferito l’idea di una commedia che nasca da sé, in cui la voce del personaggio paia quasi sopraffare quella dell’autore stesso. Una commedia il cui linguaggio “è tutto natura”, al punto da far temere la caduta, che poi non si verifica, nella “naturalità”. Levi sottolineava che proprio quell’“ebraismo sotterraneo e per questo più efficace” di cui si parlava precedentemente, smussando le asprezze, schiudesse la porta a un umorismo pervaso, in fin dei conti, da un senso di indulgenza che per il critico era un altro tratto di affinità con Goldoni.

Secondo Giorgio Romano, egli “descrisse la media borghesia, i suoi vizi e le sue qualità, con finezza ed acume, con bonarietà or sorridente or triste, con un umorismo in cui non so se si debba ricercare una vena ebraica di arguzie o la scanzonatura toscana”9. Figlio della generazione dell’‘assimilazione’, egli era ben attento acché essa non si commutasse in oblio (p. 250) o in un’arianizzazione di comodo, pratica da cui rifuggì anche durante le persecuzioni. Come a Goldoni, a Lopez fu imputato il difetto di superficialità; non a caso, nella Rassegna drammatica della «Nuova antologia. Rivista di scienze, lettere ed arti», Edoardo Boutet scriveva che “Egli, trovato il fatto umano, trovate le creature della terra, si accontenta di sfiorare l’osservazione, di guardarle appena, di riprodurne l’epidermide; vede la ruga ma non analizza l’anima che la produce, e se rispecchia nel suo quadro l’aspetto esteriore, tutto quanto questo aspetto esteriore trasforma o colora egli trascura; così i personaggi che pure si trovano sbalzati in fiere lotte della vita riescono canne vuote: sono come gli ometti di carta velina che hanno le traccie della faccia umana alla superficie e di dentro fumo di paglia”10.

10 E. BOUTET, Il segreto di Sabatino Lopez – L’anima d’on alter di Luigi Illica – Fora del mondo di Giacinto Gallina, in «Nuova antologia. Rivista di scienze, lettere ed arti», XXVII, 42, 1892, p. 144. Peraltro, tali sbrigative asserzioni non erano sempre condivise; si pensi, per esempio, alla recensione, pur dichiaratamente benevola verso l’autore, di Enrico De Filippi al dramma L’intrusa, che pure – rilevava il critico – aveva ricevuto un’accoglienza fredda al Gerbino di Torino, in linea con una certa iniziale sfortuna scenica del Lopez: “A che servirebbe che io esponessi tutti i pregi del lavoro, dalla rara armonia che congiunge esattamente i personaggi con l’azione, alla spigliatezza del movimento scenico, dall’accuratezza e finitezza dei particolari alla profondità dell’analisi psicologica, dalla squisita eleganza della forma alla verità che domina sovrana in tutto il dramma”, E. De Filippi, Rassegna drammatica. L’Intrusa. Dramma in un atto di Sabatino Lopez, 17 marzo 1894, in «Amarazuntifass. Giornale di Società, Letteratura e Sport», II, 1, 1894, p. 71.

Decisamente tranciante il giudizio di Antonio Gramsci che, recensendo la rappresentazione di Sole d’ottobre al Teatro Carignano, descrisse in tali termini le caratteristiche tipiche della commedia: “Bonarietà, semplicità superficiale, dialogo facile, leggero, una pizzicatina alle corde del sentimento, un cartoccio di sale casalingo: nasce la commedia borghese, la commedia ‘per bene’, che sa quel che si dice e quel che si fa, educata, lisciata, profumata allo spigo e al cotogno”.
Aggiungeva poi, rincarando la dose, che ci si trovava al cospetto di “Un nulla, adorno di parole drogate per palati casalinghi, che è diventato qualcosa nella recitazione di Irma Gramatica, di Ernesto Sabbatini e degli altri bravi collaboratori della compagnia (28 novembre 1918)”11.

11 A. GRAMSCI, Letteratura e vita nazionale, Einaudi, Torino 1974, p. 336.

Peraltro, dove alcuni vedevano “fretta” e “superficialità”, altri coglievano la capacità di delineare con pochi tratti situazioni compiute. “Il Lopez è di quelli che pensano che sulla scena si debba dire solamente lo stretto necessario, si debba correre alla svelta verso una conclusione logica ineluttabile, senza perdere un minuto di tempo”; questo scriveva in «Minerva» Domenico Oliva a proposito di Bufere12, di cui precisava che Lopez, in questo come in altri, aveva fornito “uno schema di dramma e di commedia, ma” – puntualizzava, a sgombrar il campo da qualunque possibile malinteso – “d’ordinario il suo scheletro è robusto e questa volta è robustissimo; tanto è vivo che fa invidia ai vivi, molti dei quali in paragone non sono che fantasmi”13.

12 Con questo testo, del 1907, secondo Ghilardi si chiudeva la fase del “contrasto drammatico-passionale”, che in quest’opera raggiungeva intensa “concitazione drammatica”, tra l’altro con “unico caso nell’intero repertorio”, la rappresentazione di un omicidio in scena. Dal soggetto di Lopez sarebbe stato tratto nel 1953 un film di Guido Brignone, con Jean Gabin nel ruolo del chirurgo e docente universitario e Silvana Pampanini in quello della sensuale acrobata Cora, nel film divenuta Daisy.

13 D. OLIVA, Rassegna teatrale, in «Minerva», XXVIII, 1907-1908, pp. 434-435. Bufere fu definito da Cesare Levi “singolarissimo dramma, nel quale la passione parla un linguaggio così impetuoso e sincero, quale mai avevamo sentito in tutto il Teatro del Lopez” (C. LEVI, Autori drammatici italiani: Giovanni Verga, Roberto Bracco, Marco
 Praga, Sabatino Lopez, Zanichelli, Bologna 1922, p. 132).

Del resto, nel trarre un bilancio sulla attività del drammaturgo livornese nel centenario dalla nascita, Ghilardi evidenziò come quest’autore fosse passato dall’iniziale influenza di scrittori francesi come Maupassant e Flaubert e dei veristi italiani a una graduale attenuazione della “carica drammatico passionale” e all’affermazione di un’“ironia indulgente, attenta al bene e al male, alla generosità e all’egoismo, talvolta in una leggera intonazione pessimistica”. Egli non mancava poi di sottolineare come Lopez avesse, nell’epoca in cui “il teatro sperimentava correnti nuove” (e il pensiero andava, con varietà di esiti e declinazioni a Pirandello, Rosso di San Secondo, Cavacchioli, Chiarelli), mantenuto fedeltà al “suo mondo onesto, decoroso, retto da uno spiccato senso teatrale”14.

14 F. GHILARDI, Nel centenario della nascita. Sabatino Lopez. Le commedie che parlano al cuore, in «Il dramma», XLIII, nuova serie, 371-372, 1967, p. 27. Cesare Levi scrisse che “Senza avere la forza satirica di un Molière o la virulenza di un Beaumarchais, la comicità del teatro di Sabatino Lopez” si avvicinava “a quella tradizionale del Teatro francese: è la comicità amara, che sa trovare argomento di riso nella situazione tragica” (LEVI, Autori drammatici italiani, cit., p. 139). Levi segnalava anche l’assoluta felicità del dialogo dell’autore, costante nella produzione critica a lui dedicata, che risaltava pur nel periodare a tratti “involuto, contorto, arruffato, tale da far arricciare il naso a più di un accademico”.

Per questa ragione, Sabatino Lopez fu spesso giudicato come un attardato15, ma non è di certo classificabile quale isolato. È nota la corrispondenza che ebbe con Federico De Roberto, il quale gli chiese suggerimenti per le riduzioni teatrali del romanzo Spasimo e della novella Il rosario e ne fu in qualche modo spinto a puntare sulla versione drammaturgica della seconda (“Ho fatto insomma del mio meglio,” – scriveva De Roberto il 5 ottobre 1898 – “dato il soggetto – se quel soggetto, come tu assicuri, è teatrale”16). Dal carteggio Lopez-De Roberto, ma anche, per esempio, dalla corrispondenza (22 luglio 1897) Viani-De Roberto, emergono le traversie dei Fratelli, affidata alla compagnia della Mariani17.

15 Sbrigativo il giudizio in S. Ferrone e T. Megale, Il teatro, in Storia della letteratura italiana. Vol. IX. Il Novecento. Parte II. Il secondo Novecento, v. 18, diretta da E. MALATO, Salerno editrice, Ed. speciale per Il Sole 24 Ore S.P.A., Roma 2005, p. 1373. In quella sede, Lopez, di cui si citano alcuni testi come “successi commerciali” viene accomunato alla “monotonia di” una “produzione tautologica e memoriale”.

16 V.J. CICCOTTA, Il Rosario di De Roberto tra novella e dramma, «Italica», LV, 2, 1978, pp. 197-210: 201.

17 Articolo di G. LOPEZ, Federico De Roberto e Sabatino Lopez cent’anni fa, in «Belfagor», LII, 3, 1997, pp. 332-340.

Un carteggio, quello tra Lopez e De Roberto, che, accanto alle missive intercorse tra quest’ultimo e Viani, tratteggia un interessante quadro di sodalitates letterarie in terra siciliana, in cui entra di prepotenza anche Verga, rappresentato dal Viani come intento a ‘kodakeggiare’ più che mai o impegnato a esporre le “nudità fidiache alle acque di Aci Reale” (p. 339). Non è possibile poi non menzionare gli innumerevoli contatti che furono favoriti dall’attività di scrittore di teatro, di critico letterario e di direttore della SIA18; non ultimo l’incontro con la divina Eleonora Duse, di cui Lopez tratteggiò un intenso ritratto, definendola “colta come pochi uomini, non bella, ma così bella come poche donne”19.

18 Si potrebbero ancora menzionare i rapporti con Sem Benelli, per cui si veda S. ANTONINI, Sem Benelli. Vita di un poeta: dai trionfi internazionali alla persecuzione fascista, De Ferrari, Genova 2012.

19 S. LOPEZ, La Duse. Ricordi, aneddoti, impressioni, in Giovanelli, Sabatino Lopez critico cit., p. 42

Numerosissimi i suoi testi, tra i quali potremo limitarci a compiere una rapida incursione soltanto in alcune opere, riservandoci di tornare a intervenire su questo autore in maniera più compiuta.
Il passerotto (1918) affronta il delicato tema di figli nati da relazioni extraconiugali. Il passerotto del titolo è il bambino nato dalla liaison tra la protagonista Maria Teresa e un militare morto nell’esercizio delle sue funzioni. Il piccolo sarà ‘adottato’ da un collega dell’uomo, compartecipe dell’incidente fatale occorso al suo compagno, con gran dolore della donna, che dovrà scientemente privarsi della possibilità di allevare il proprio figlio.

Il dramma non decolla nei primi due atti, in cui i dialoghi non eccedono i limiti di una compassata retorica e non ci sembra stabilirsi reale movimento drammatico. Diversa appare la situazione degli atti successivi, con Maria Teresa e il marito che hanno perduto il proprio figlio legittimo e lo zio Gaspare che insinua nella donna la soluzione di prendere in casa – come si adotterebbe un trovatello – proprio il ‘passerotto’, ponendo fine al suo tormento interiore.

A questo punto, il dilemma etico che la donna si trova a vivere, cioè l’accettazione della menzogna elevata a sistema di vita pur di realizzare il proprio profondo e doloroso desiderio di maternità o la via di una scomoda, forse devastante, verità, diviene sorgente del movimento psicologico e la pièce acquista gradatamente forza drammatica. Il suo cuore pulsante, infatti, non risiede tanto nel dubbio che Maria Teresa nutre circa la possibile reazione del marito, di cui la donna è ancora innamorata, alla notizia del tradimento.

Motivo animatore dell’opera è semmai il senso di rimorso, il contrasto tra moralità e opportunità, unitamente al desiderio di espiazione di colei che, consapevole della propria imperfezione e incapace di perdonarsi, ritiene che il dolore lacerante cui il destino l’ha sottoposta sia in realtà figlio di una sorta di superiore Nemesi degli errori commessi. Nel rigore etico che non riesce a scendere a patti con le umane debolezze, pur non essendone esente, risiede dunque la chiave di lettura del Passerotto, che volge sino all’akmé del monologo fluviale, scomposto, disperato, quasi farneticante eppure poeticissimo di Maria Teresa, preludio all’emozionante scioglimento20.

20 Non a caso Marco Praga avrebbe scritto: «Tornando a casa, o la mattina dopo, può darsi che dei se e dei ma si affaccino alla vostra mente. Può darsi. Ma non vi pentite di aver applaudita la commedia, e non ne volete all’autore. Perchè sentite che egli non vi ha vinto con l’inganno e con la frode, non vi ha intontito col coup de théàtre, non vi ha tirato in trappola con la scene à faire che gli è riuscita bene. No. Voi sentite che vi ha sedotto con la delicatezza» (M. PRAGA, Cronache teatrali 1919, con 21 ritratti, Fratelli Treves, Milano 1920, p. 31).

Se nel Passerotto vettore della tragedia era stata la guerra21, in Gelsomina a svolgere questa funzione è un terremoto, presumibilmente quello di Messina. Protagonista del dramma eponimo, in un atto unico, è proprio una delle cosiddette ‘orfane del terremoto’22; cresciuta in un istituto femminile d’educazione e di carità, in una non meglio precisata città dell’Italia meridionale, la diciottenne viene sottoposta al rito del riconoscimento da parte di colei che potrebbe essere sua madre. Una sequenza straniante, che ribalta, quasi parodicamente se non fosse per l’aura tragica, i cliché legati alle scene di agnizione cui la tradizione ci ha abituati. Il motivo della scelta tra tre figure femminili – Freud gli dedicò un fortunato e originale saggio – è riproposto nel contesto in cui una donna rimasta ‘orfana’ della propria famiglia deve riconoscere la figlia perduta dieci anni prima. Ella sente, sulla scorta del luogo comune (definito chiaramente nella commedia dal cav. Simi come “quel che, indefinito e indefinibile che chiamano: la voce del sangue”), che la fanciulla, Edith, ormai giovinetta, è proprio Gelsomina.

21 Alla sospensione di qualunque sentimento di umana pietas nel conteso bellico, egli aveva dedicato, nel 1897, l’atto unico La guerra, uno dei suoi testi più crudi, privo di qualunque luce di speranza. Emblematica a tal riguardo la volgare e brutale figura dell’Ufficiale, con le sue lunghe tirate all’insegna di uno smisurato senso del potere e del verbo dell’homo homini lupus e quel finale, che prefigura la violenza carnale, con lui che, irritato ed eccitato dalla Signora, “la inchioda alla parete e cupido, colle labbra le cerca le labbra”. L’opera recava la dedica allo scrittore Roberto Bracco.

22 S. LOPEZ, Gelsomina, in «La Lettura. Rivista mensile del Corriere della Sera», XII, 1912, pp. 1094-1102.

Eppure la ragazza, che, incline alle fantasticherie, aveva più volte favoleggiato circa le proprie origini, si presterà riluttante alla parte che il cavaliere e la suora, di certo con le migliori intenzioni, vogliono farle recitare per prestar rimedio, con la pietà, al mal di vivere della signora Mainold, ridotta ormai a una larva.

Nel ricambiare l’abbraccio della donna (e c’è da pensare che il pubblico non potesse che aspettarsi che il velario calasse su un abbraccio), Gelsomina – destinata a diventare Edith senza esserlo – sembrerà asserire, “con la stessa sicurezza” e “con gli occhi tristi”, che l’istinto materno, proverbialmente infallibile, ha questa volta in realtà penosamente errato. La lettura del dramma consente a chiunque di farsi un’idea di come una situazione con qualche esteriore affinità, dall’elemento terremoto alla madre ormai vicina alla pazzia, sino al relativismo prospettico che oppone le visioni del reale delle due donne, fosse trattata tanto diversamente da Pirandello in Così è (se vi pare) qualche anno più tardi.

La famiglia assurge a osservatorio privilegiato nella drammaturgia di Lopez. Essa è serbatoio di ipocrisie e generatrice di segreti di cui la figura maschile diviene spesso depositaria. L’adulterio è uno dei motivi portanti nei plot di Lopez, sia che assurga a cuore pulsante di dramma borghese sia che – come ne L’occhio degli altri – divenga animatore di un paradossale e, a tratti, sofistico ragionare di brillante allure. Nell’atto unico Il segreto, rappresentato per la prima volta a Torino, presso il Teatro Gerbino, nell’ottobre 1892, la memoria dell’adulterio consumato da una moglie a lungo idolatrata induce il conte Altavi a isolarsi nel ritiro della villa di Moncalieri, con l’unico affetto di cui è riuscito a preservare la purezza, la
figlia Giovanna. All’uomo, divenuto dyskolos e heautontimorumenos per effetto del destino, si contrappone la sorella Livia, che Lopez costruisce in ossequio alle goldoniane “donne di garbo”.

La donna, rimasta nubile per aver assistito la madre anziana sino alla fine dei suoi giorni, fa risuonare nel “romitorio” del fratello la nota frivola delle conversazioni e dei balli salottieri, quel rutilante mondo in cui ha introdotto anche la nipote, facendole assaporare l’ebbrezza di una vita sociale piena e brillante. Livia è un po’ l’emblema di quell’efficacia del movimento dialogico tipica dell’opera di Sabatino Lopez. Sagace e, al contempo, indulgente verso le debolezze umane, riesce con ironia a far balenare al fratello l’innaturalezza del suo confinamento nel polo agreste e la rusticitas del suo agire. Da manuale la scena terza, con la gag dei fiori destinati a Giovanna e lanciati dal padre fuori dalla finestra, recuperati da Livia che, col sorrisocsulle labbra, eleggendosi – in quanto “signorina Altavi” – a possibile destinataria dell’omaggio, fa rilevare tra le righe al conte l’assurdità della sua condotta.

Eppure l’andamento della commedia cede presto il passo alla tensione nel momento in cui il protagonista apprende il nome del corteggiatore della ragazza e, in opposizione al movimento della storia familiare che sembra – come l’uroboro – riavvolgersi su se stessa, apre il suo cuore alla figlia, nel finale, concitato e ad alta gradazione emotiva. Una situazione affine è giocata in Ombre (1937), ma stavolta il padre è geloso depositario del segreto che quella che la società ritiene sua figlia Paola è in realtà frutto della relazione adultera della defunta moglie con il socio Brancati. Il contrasto tra i due, acuito dai sospetti che la ragazza nutre in merito alla legittimità della propria nascita, sfocerà nella riconciliazione finale, la quale è esatto rovesciamento della conclusione del Segreto. Se lì il padre misantropo, con una certa crudezza, rivelava l’adulterio della madre alla figlia, per scongiurarne le nozze con l’amante della donna, qui, contro l’evidenza, l’uomo si farà garante dell’intemerata memoria della moglie, per salvare Paola delle ‘ombre’ calate sulla sua vita a causa dell’insinuarsi del tarlo del dubbio.

Non di rado l’adulterio è vettore del paradosso alla base di alcune commedie (ed elemento essenziale nel teatro di Lopez): il paradosso del Punto d’appoggio, avallato dagli sviluppi degli eventi, secondo cui “su cento donne che ingannano il marito, novantanove gli vogliono bene e cinquanta forse vogliono bene anche all’amante”; quello de La distanza – felice nella rappresentazione del milieu professorale – che vuole la sposa tradita (Dianora, ulteriore declinazione del motivo della “donna di garbo”) non potersi donare all’amante alla luce del sole a causa delle differenze sociali che li separano. E che dire della situazione di Sole d’ottobre vituperato da Gramsci, in cui vediamo agire un’insolita accoppiata di consuoceri, diversi come il diavolo e l’acquasanta, alleati per impedire che un adulterio, perpetrato dal maschio, mini la stabilità della giovane famiglia, salvo poi scoprirsi affini e decidere di lasciar crescere un amore non paragonabile “a un frutto fuori stagione”, ma a un “fiore che ha tardato a sbocciare sotto i raggi del sole”?

Tra le opere di Lopez più compatte e riuscite il dramma La nostra pelle (1912), ispirato a un evento di cronaca, la vicenda di una maestra che aveva donato un brano della propria pelle per consentire la cura di un’ustione occorsa a un allievo. Lopez muove dalla storia edificante, per costruire l’intreccio di uno dei suoi testi più solidi. Il gesto nobile è l’antefatto, cui segue il conferimento di un’onorificenza alla ‘maestrina’, invitata quindi dal sindaco di San Vito per un colloquio conoscitivo. Il caso vuole che si incrocino in anticamera l’“eroica donna” – come salutata dalla marcetta del direttore della banda locale – e il reietto cugino del primo cittadino, recentemente assolto dopo aver accoltellato, per legittima difesa, un pregiudicato in un’osteria.

Da quel momento, le tre vite si intrecceranno: i cugini concepiranno entrambi l’idea di sposare la bella e virtuosa insegnante, che – non priva di pregiudizi – preferirà il rispettabile sindaco, scapolo, con a carico l’anziana e bisbetica madre da assistere.
Gli atti successivi documenteranno la discesa all’Inferno della giovane donna, ipostatizzata nella sterilità delle sue nozze. La famiglia dell’allievo beneficato pretenderà, come una sorta di diritto acquisito, il suo aiuto morale e, soprattutto, materiale, in una lucida decostruzione – da parte del Lopez – dei luoghi comuni populisti che vedono risiedere nel proletariato somme virtù di sacrificio e stoica sopportazione del dolore. A tale fastidio si aggiungerà lo sconforto per l’indifferenza del marito, distratto dal lavoro e, ahimé, affetto dal vizio del gioco (si affaccia qui un tema caro a Goldoni, centrale nella Bottega del caffè, ma richiamato anche in altri testi, quali – per esempio – la celebre Trilogia della villeggiatura).

In più, a renderle la vita difficile la presenza di una suocera capricciosa e mefitica, ben discosta dalla terenziana Hecyra e piuttosto incline a incarnare gli stereotipi a tale figura connessi. Suocera che la disprezza proprio per il suo umanitarismo, perché, come asserirà la maestra stessa, con la garbata verità di chi scherza con animo esacerbato, è da natura indotta a declinare il verbo dell’egoismo in tutte le lingue del mondo. Suocera che, peraltro, nutre una sconfinata ammirazione per il nipote ex galeotto, proprio perché rispettato dalla società in virtù di quell’assassinio poi ‘legittimato’ dalla pubblica autorità. Gesto estremo, sì, ma che gli ha in qualche modo conferito la patente di persona che non si lascia sopraffare. Si assiste pertanto a un evento paradossale: la maestra ha ricevuto un’onorificenza per l’atto di generosità compiuto, ma quell’atto ha finito con il farla apparire agli occhi della gente una donna debole, alla mercé di qualunque sopruso in virtù della bontà che tutti le riconoscono. L’ex galeotto finisce invece con l’apparire maggiormente degno di stima anche alla donna del jet set, la ricca vecchia che tiranneggia la generosa nuora.

E il paradosso culmina nel momento in cui l’uomo, dialogando con la maestra di cui è ancora innamorato, le rivela come sia stato un errore per lei sposare il sindaco. Migliore sarebbe stato il matrimonio con l’omicida per legittima difesa, perché quella pelle ch’egli aveva violentemente sottratto a qualcuno avrebbe conciliato alla donna il perdono, da parte della società, per la pelle ch’ella aveva istintivamente per generosità donato. Insomma, un’amara meditazione sull’ingratitudine del genere umano, su quanto i giusti siano declassati nella società dell’homo homini lupus, in cui l’unico strumento per conseguire non onorificenze formali (nella realtà dei fatti di nessun momento), ma l’effettiva pubblica stima è l’esercizio della forza. Della violenza, fisica o psicologica che sia.

A questo non si sottrae nemmeno la figura del sindaco, che sposa la maestra perché, attratto dall’aura di angelicismo ch’ella promana, ne intravede l’indole da crocerossina, ma non le risparmia né – all’inizio della pièce – l’umiliazione di essere ricevuta dopo il cugino galeotto né, successivamente, quella, ben più grave, di costringerla a chiedere soldi alla bisbetica suocera e a spacciare per propri i debiti contratti dal marito. Eppure non è il senso di scoramento e di negatività a trionfare. La protagonista ha quel privilegio ch’era proprio di altre figure femminili della tradizione: ha dalla sua la forza di una parola che scava nell’animo umano (non a caso, prima delle nozze, esercitava la sua forza intellettuale, misconosciuta dalla società, attraverso l’insegnamento) e che le consente l’arguta e amara risposta rivolta al marito, battuta su cui cala il velario; è inoltre forte di un rigore morale che le permette, pur vinta dalla vita, di ergersi al di sopra della meschinità dello sposo e della madre, continuando a esercitare la virtù della carità (e della pazienza), anche nei riguardi di chi non ne è meritevole e sa di non esserlo.

Affine alla maestra è in qualche modo la protagonista di Mario e Maria23. Vive sola a Venezia, coltivando amicizie maschili alle quali non si presenta come una civetta ricca di attrattive, ma, al contrario, come un mascolinizzato esempio di donna intellettuale. Il rifiuto delle prerogative muliebri si spinge sino al punto di non voler essere chiamata Maria e di preferire che il proprio nome di battesimo sia volto al maschile. Gioco cui gli artisti – soprattutto pittori – che gravitano intorno a lei si prestano volentieri, per godere della sua piacevole compagnia e della sua tavola. Il problema è che Maria non è immune dai richiami del sentimento amoroso, che ai suoi occhi si materializzano nelle belle sembianze del pittore Ettore Frecci.

23 La commedia andò in scena il 23 aprile 1915, all’“Olympia” di Milano, con interprete
 Emma Gramatica. La composizione fu piuttosto sofferta, perché al turbamento destato
 dalla guerra, si aggiunse la malattia che colpì la madre di Lopez, Elvira Tedeschi. La
 commedia piacque molto anche a Tina Di Lorenzo, che la portò in scena con successo
 a settembre dello stesso anno a Livorno. A proposito di tale rappresentazione, Guido
 Lopez scrisse (p. 12): “Piace la Tina, che, nei suoi abiti mascolineggianti, è più donna
 che mai, come si prevedeva; e piace soprattutto Armando (n.d.a. Falconi, marito della
 Di Lorenzo) nel barone di Krubelich – il russo, appunto – una delle sue più vive caratterizzazioni e più indovinate truccature”. 

A complicare lo sbocciare di un limpido sentimento il fatto che l’uomo, che ricorre a lei nel primo atto scongiurandola, per questioni d’onore, di acquistare un suo quadro, sia irretito dalla seduzione tutt’altro che spirituale della baronessa di Krubelich, ex ballerina. Sarà quindi inevitabile che le due immagini antitetiche dell’eterno femminino si incontrino: il contrasto fra la dimessa e spirituale Maria-Mario e la nobildonna, emblema di sensualità prorompente (come del resto canonico per le donne di spettacolo), forzerà la giovane protagonista a un’operazione di scavo interiore e di chiarificazione dei propri sentimenti.

È così che Mario tornerà a essere Maria, ormai consapevole che emulare le prerogative maschili non è utile, perché esser donna e professarsi tale non è necessariamente sinonimo di debolezza. Così come non è sufficiente ribattezzarsi Mario, frequentare compagnie maschili, sbandierare l’indipendenza femminile per smettere di coltivare in sé sentimenti tipicamente muliebri che attendono solo di esprimersi per condurre al benessere interiore. “C’è una guida misteriosa che vi prende per mano e vi dirige alla felicità…”, asserisce Ettore nel finale e difatti da quest’opera sembra trasparire un’apertura fiduciosa all’incessante movimento della vita, tipica di Sabatino Lopez. Apertura che ne costituisce, a nostro avviso, uno dei maggiori punti di forza. Il movimento scenico infatti scorre con leggerezza, all’insegna del paradosso che induce al sorriso, nel disvelamento sornione degli inganni e degli autoinganni in cui gli esseri umani incorrono. E del resto, alla base della Weltanschauung di Sabatino Lopez sembra esserci, prima ancora della goldoniana bonomia, l’impronta del terenziano Homo sum, humani nihil a me alienum puto, con conseguente confidente apertura all’altro e indulgenza verso le debolezze umane.

Sicuramente goldoniana levitas, non disgiunta dalla goldoniana mordacità, si ravvisa nel Terzo marito24, in cui assistiamo sorridendo alle contorsioni di una novella locandiera, Caterina, proprietaria di un albergo alla moda di Viareggio. Diversamente da Mirandolina, la donna non si avvale di sofistiche arti per tenere a bottega spasimanti paganti (lusingati, ma non assecondati). Purtroppo la sua curiosa condizione di doppia vedovanza la costringe a tenere – in maniera alterna – a pensione i genitori dei suoi due defunti mariti e a tollerarne l’ingerenza nella propria vita privata.
Il conflitto, comico ma non privo di risvolti amari, si scatena nel momento in cui giunge a Viareggio il nevrotico Fausto, conosciuto a Salsomaggiore, località in auge quando il turismo legato alle cure termali non era ancora entrato in crisi. Innamorato della locandiera, l’uomo si troverà a dover convivere con un disagio duplice: l’accettazione della paradossale situazione di poter essere il “terzo marito” e il contatto con l’ingombrante famiglia, naturale e affine, dell’amata. Ancora una volta, Lopez spinge il gioco scenico ai limiti del paradosso.

24 Di questo Filippo Surico scrisse che Lopez aveva “voluto continuare il tipo di commediola piuttosto frivola, ma sottile, di La buona figliuola, mentre si desidererebbe ch’egli
 tornasse piuttosto all’analisi profonda delle umane passioni, di Bufere, per esempio”,
 F. SURICO, Cronache drammatiche, in «Rassegna pugliese di Lettere, Scienze e Arti», XXX, 28/1, 1913, p. 73.

Per rifarci alle osservazioni di Pirandello relative alla malasorte del protagonista di Il treno ha fischiato, un marito prematuramente scomparso susciterebbe commozione, ma ben due sposi premorti con duplicazione di suoceri invadenti finisce con il rasentare il ridicolo e col favorire, nell’aspirante “terzo marito”, la percezione stessa della propria inevitabile sovraesposizione alla pubblica chiacchiera e derisione. Insomma, il finale sembra virare verso l’idea che sia bene che il sentimento nato tra Caterina e Fausto non riceva il crisma dell’ufficialità coniugale, perché la legittimazione stessa dell’unione apparirebbe, curiosamente, ben più sconveniente della clandestinità. Ecco che ancora una volta, come spesso avviene nella drammaturgia di Lopez, si assiste a un conflitto tra ciò che indiscutibilmente è eticamente corretto e quanto, invece, appaia rispondere ai principi del decorum, spesso in contrasto con l’honestum.

Il limite della pièce, considerata “deliziosa” da Praga e ridimensionata da Cesare Levi, si riscontra semmai nel suo non riuscire – diversamente da testi come La nostra pelle o Mario e Maria – a librarsi con levità al di sopra di una paradossalità che susciti il sorriso e/o il riso. Manca quello sguardo dolceamaro, a tratti dolente a tratti sorridente, che nobilita le commedie migliori e si riscontra, semmai, una certa tendenza al macchiettismo, nei ritratti dei suoceri, dei domestici, persino dello stesso Fausto, che non ci sembra elevarsi al livello di personaggio poeticamente compiuto.

Diversa è l’allure della commedia La buona figliuola, tra le più note di Lopez, definita “ottima” da Eugenio Montale. Il titolo occhieggia al Goldoni-Fegejo librettista per Niccolò Piccinni. Esso rivela, peraltro, un’ambiguità di fondo: potrebbe alludere a Giulia, la sorella provinciale di Cesarina, amante e – come diranno alcuni personaggi – ‘mantenuta’ dell’onorevole Spontini.

La giovinetta, diciottenne, portatrice di una nota di purezza (che pure è minacciata nel primo atto dalla pericolosa abitudine di “discorrere con un uomo ammogliato”25) sarà non a caso definita da Enzo Renardi, il segretario del politico, un “fiore di campo, di siepe, di macchia”26, a confronto con l’appariscente sorella, “un fiore rosso, un fiore aperto, pomposo”, dal fascino inebriante. Nello schema narrativo, peraltro, Giulia rappresenta apparentemente l’elemento nodale.

25 S. LOPEZ, La buona figliola, commedia in tre atti, Fratelli Treves, Milano 1921, p. 3. 

26 Ivi, p. 89

Nel primo atto, la ‘mantenuta’ Cesarina, in visita al padre ebanista, coglie le inquietudini per il ‘progresso’ della ragazza e, prima che si perda coltivando una relazione socialmente illecita (esattamente ciò ch’era accaduto a lei in precedenza), decide di portarla con sé a Roma, perché possa respirare l’aura della città eterna e il lusso in cui ella vive. Successivamente, nel momento stesso in cui coglie che Giulia è innamorata del segretario di Spontini, Enzo, e che è ricambiata dal giovane27, che peraltro anche Cesarina ama – ma da cui si è tenuta lontana per ben adempiere al suo ruolo di amante dell’onorevole, restandogli fedele –, la donna affronta la famiglia del Renardi, superandone con astuzia impagabile le resistenze.

27 Cesare Levi osservò come nell’espressione “del sentimento idilliaco” tra Enzo e Giulia Lopez fosse risultato “freddo e manierato” (Levi, Autori drammatici cit., p. 135).

Per garantire una dote principesca alla sorella, ella sarà pronta a concedersi all’ambiguo banchiere Ferante per la cifra di ventimila franchi, “rinunciando a quel minimo di rispetto per la propria dignità morale che consiste nel fare ‘correttamente’ il suo triste mestiere”28. In realtà, infatti, il paradosso dell’opera consiste nel fatto che la “buona figliola” sia proprio Cesarina e non Giulia. O meglio è quella buona figliola che per salvarne e renderne felice un’altra rinuncia al residuo di dignità che le era rimasta, probabilmente ponendo a repentaglio il proprio stesso sistema di vita (possiamo, infatti, solo immaginare l’eventuale reazione di Spontini se la notizia del tradimento dovesse trapelare).

28 G. TAFFON, Sabatino Lopez, in Dizionario Biografico degli Italiani, volume 65 (2005),
 versione on line.

A instradarci che, del resto, il vero soggetto dell’opera debba essere l’amante dell’onorevole è proprio lo stesso Lopez, quando riporta un’asserzione del padre della ventottenne, Raffaele: “Una buona figliola come te!… Perché sei buona. Salvo quella pazzia grossa, sempre rispettosa, sempre affezionata, sempre a dar notizie… Mi hai aiutato, a volte”29.

29 S. LOPEZ, La buona figliola cit., p. 30. 

Non è da escludere, peraltro, che l’autore abbia voluto giocare con la vicinanza tra il titolo della commedia e un triste eufemismo quale quello di “buona donna”, che connota la figura socialmente percepita come prostituta. Ed è come tale che la famiglia di Renardi, rappresentativa di tale diffusa percezione, intende trattarla, nel momento in cui apprende l’intenzione di Enzo di sposare Giulia, poco prima che le venga annunciata la visita di Cesarina. Poi le posizioni divergono: da un lato la stolida coerenza della zia nubile Carlotta, che cela forse, dietro la maschera del senso morale, un fondo di inespressa invidia; dall’altro la calcolatrice disponibilità a rivedere le proprie posizioni da parte del pater familias e di sua moglie, dinanzi al miraggio di un’improvvisa e inaspettata ricchezza, la dote offerta dalla sorella della ragazza. Qui Lopez evidenzia l’ipocrisia che giace al fondo del comune senso morale, a dispetto di qualunque facile populismo. Così, l’unica figura che sembra realmente salvarsi nella commedia è proprio Cesarina30: Enzo è nell’amore incostante, Giulia inquieta, l’onorevole distratto, i suoi ‘colleghi’ frivoli e ambigui, il banchiere opportunista31, i ‘nobili’ Renardi ottusi e volubili.

30 Levi evidenziava come la figura della cocotte di matrice nazionale presente nell’opera
 di Lopez già nella protagonista di Ninetta (1895) e poi esaltata in Cesarina, figura “buona di cuore e relativamente onesta” non avesse “nulla di comune con le sue consorelle
 parigine” che si vedevano “folleggiare” in commedie e vaudevilles (LEVI, Autori drammatici cit., p. 136). 

31 Quest’ultimo sarebbe tornato nell’opera Il brutto e le belle.

Quello che garantisce il successo della commedia è da un lato la solida tenuta dei dialoghi, dall’incedere brillante, ma non scevro dall’amara constatazione delle trappole sociali, vive tra i proletari come nel mondo patinato dell’‘aristocrazia’ parlamentare. E amarissimo è il finale scambio di battute, con Enzo commosso e Cesarina sfiorata da un “triste sorriso” (Ghilardi scriveva che la sua voce ha un “tremito leggero”), in cui metafora e lettera del verbo ‘spogliare’ si intersecano sulla scena e sedimentano nell’animo dello spettatore, che conosce il prezzo del generoso dono nuziale e riconosce, nel sacrificio della “cortigiana” (termine usato dalla zia Carlotta), una linea di continuità con gesti che pongono la donna, con le dovute differenze nella sua riconduzione a medietas, sulla scia della terenziana Bacchide, della struggente Gauthier, del suo corrispettivo melodrammatico Violetta e perfino della sua versione cinica (del resto un fondo di cinismo a Cesarina non fa difetto), la verghiana Eva.

Fortunata la commedia d’ambientazione verista La signora Rosa32, giustamente definita da Giorgio Taffon33 il “ritratto di un burbero benefico”, il sig. Forti, detto il Zazzera. In un ambiente che dai circoli ricreativi muove verso interni piccolo-borghesi della Lucchesia, vive una storia che reca echi di migrazioni – i protagonisti sono rientrati in Italia dopo un lungo soggiorno in America – e di un passato rammemorato con nostalgia. Protagonisti due personaggi ormai giunti al tramonto: il ricco Zazzera, solo e ancora innamorato della signora Rosa, di cui tiene il figlio a banco; Rosa stessa, proprietaria di un’osteria, ma economicamente instabile, votata da un’intera esistenza al sacrificio, prima per un marito che l’ha abbandonata (e a cui è rimasta indefessamente fedele) e poi per i due figli, Argentina e Manfredo.

32 La commedia ebbe una storia piuttosto travagliata, prima di giungere alla première,
 a Padova, il 29 marzo 1928. La prima interprete avrebbe dovuto essere proprio Tina Di
 Lorenzo, che, ritiratasi dalle scene, aveva progettato per quest’intenso ruolo di donna
 non più giovane, ma ancora piacente, il proprio rientro. Purtroppo, l’improvviso palesarsi del male che l’avrebbe condotta alla morte nel 1928 rese impossibile l’adempiersi
 di questo disegno. La corrispondenza tra la Di Lorenzo e Lopez testimonia la vicenda
 della triste progressiva rinuncia dell’attrice al ruolo che avrebbe dovuto rilanciarla. Cfr.
 LOPEZ, 10 dicembre 1867 cit., pp. 18-22.

La svolta avviene quando zelanti ‘amici’ rivelano allo Zazzera che, per amore di una ballerinetta, Manfredo spende cifre che non può permettersi e che, probabilmente, sottrae al suo datore di lavoro. Rosa, che appare spensierata e ironica – seppure con un velo di amarezza – nelle interazioni della sua prima comparsa in scena nel primo atto, sprofonda, alla scoperta del reato commesso dal figlio, in una spirale di disperazione. Suo controcanto è la figlia Argentina, che canta, sogna le nozze, ha finalmente realizzato il proprio corredo ed è, in ogni caso, forte dei valori morali materni, anche se sembra volerli declinare nel più rilassato contesto di una gioventù meno rigorista. Messa alle strette dallo Zazzera, Rosa, consapevole che il figlio rischia il carcere, cerca di far leva sulla passione dell’uomo, lusingandolo, lasciandogli balenare l’idea che possa finalmente raggiungere il compimento quella tenera interazione ch’era rimasta raggelata dalla virtù della donna.

L’uomo pare rifiorire, s’improfuma, cerca un quartierino dove poter rilassatamente vivere una nuova stagione della perduta gioventù, primavera che però sarà molto breve. Rosa, infatti, deciderà di non abdicare ai propri valori e, complice il ritorno di Manfredo, che ha deciso di non fuggire e di costituirsi, Zazzera vivrà un’acquisizione di consapevolezza la quale passa attraverso una sincera riflessione del ragazzo su ciò che possa insudiciare il sentimento d’amore. Zazzera comprende che, se insistesse, finirebbe con lo sconciare il sentimento puro che l’ha sorretto per anni e decide, in un moto burbero, ma più eloquente delle stesse parole, di congedare madre e figlio, perché quest’ultimo vada incontro alla vita, ma con maggiore consapevolezza, e Rosa possa trascorrere la stagione del declino – ch’ella sente improvvisamente sopraggiunta – senza ulteriori umiliazioni.

Altri testi, invece, assumono come motivo conduttore l’elemento della fictio, anche applicato al mondo del teatro. Microcosmo che affascinò Lopez, tanto che fu indotto a dedicargli il romanzo Gli ultimi zingari (1919) e la raccolta di aneddoti Le loro maestà (1920) – ma anche a comporre i propri Mémoires, pubblicati nel 1949 (S’io rinascessi). Sistema di cui declinò con rapido tratteggio le storture nell’atto unico Il destino (1896), in cui campeggiano le invidie, le meschinità, i tristi compromessi che dominano il mondo del teatro in cui l’‘amore’ “è un’acqua fangosa che bisogna bere, anche se rivolta lo stomaco” e la poesia attribuita al palcoscenico, in cui le storie prendono magicamente vita, dall’aspirante attrice provinciale Alda (beffardamente soprannominata ‘Duse’ dalle sue ‘amiche’) si scontra con la prosa del reale.

Di ben altro tenore la pièce Il giocatore di prestigio (1928), che si inscrive in un clima che vedeva fiorire – attraverso il teatro pirandelliano, per limitarci a un esempio – il motivo metateatrale. Sempre la riflessione del drammaturgo agrigentino aveva dato risalto al tema del relativismo prospettico. Nell’azione del signor Carlini-Detrisce, sedicente prestigiatore, ma forse solo per scherzo, si coglie la forza dell’illusionismo, la capacità dell’intelligenza umana di far balenare alla mente dell’altro intuizioni che non corrispondono al reale. Sembra di veder tradotto in immagini in movimento, e su scala ridotta, quanto Lopez asseriva scrutando, ammirato, le doti del ‘camaleontico’ Fregoli: “in un’ora si muta completamente d’aspetto, d’andatura, di vesti, di voce, d’anima magari, cinquanta volte”34.

34 S. LOPEZ, Fregoli il camaleonte, in Giovanelli, Sabatino Lopez critico cit., p. 50

Il tutto resta però confinato nella prospettiva di un divertissement da commedia brillante, in un atto unico che irride le smanie e le melensaggini amorose, ma anche la dabbenaggine dell’uomo medio e la faciloneria con cui si aderisce a quanto semplici trucchi da prestidigitazione di quart’ordine possono lasciar credere.

Più complessa senz’altro la costruzione, antecedente, di Fra un atto e l’altro, “scena recitata per la prima volta a Cuneo per uno spettacolo di beneficenza” e tutta giocata sulla capacità di un’attrice di dar corpo a una fictio di consumata abilità, per uso e consumo di un frastornato corteggiatore, incapace di cogliere il potere di immedesimazione che la vocazione attoriale reca in sé e distinguere il recitato dal sentimento reale. Non di rado, si avverte il gusto del dialogo funzionale al divertissement ed è l’esempio delle allegre schermaglie di Daccapo, un delizioso amebeo – basato sull’espediente del rappicco, in un’atmosfera che rievoca le coblas capfinidas – tra un Lui e una Lei che si ritrovano, tra ripicche e riaccensioni dell’antica fiamma, a decretare il fallimento del tanto decantato amour de lonh, ma la possibilità, per chi ne abbia volontà, di ricominciare, sempre.

Un teatro, quello di Sabatino Lopez, meritevole, insomma, di una riscoperta, perché, se alcuni testi appaiono ormai datati, sebbene non necessariamente privi di fascino, altri hanno decisamente ancora molto da raccontare, nel loro aderire al movimento incessante della vita, con i suoi paradossi, le piccinerie, lo sgretolio dei sentimenti e l’improvviso baluginare di possibili nuove stagioni.

Gianni Antonio Palumbo