Ieri sera,durante la presentazione dell’opuscolo La confraternita letteraria (redazione: il sottoscritto, Monica Messa, Alfredo Vasco, Loredana Lorusso e Anna Lauria con testi narrativi di Onofrio Pagone e Pasqua Sannelli), si è discusso di tante cose, anzitutto della condizione (marginalissima) della poesia in Italia e del ruolo del poeta oggi.

Vengo al dunque: molti pubblicano libri di poesie o testi poetici sui social. Pubblicare un libro di poesie è quasi diventato uno sport nazionale, tanto con l’editoria digitale si possono stampare anche dieci copie al prezzo di una pizza e birra.

La domanda di fondo oggidì è la seguente: perché un autore (di lungo percorso o meno) pubblica un libro di poesie? Dove vuole arrivare? Che finalità ha?
Qualcuno mi ha chiesto: e tu, perché scrivi poesie? Per rispondere, devo andare molto indietro nel tempo.

Nella prima adolescenza mi accorsi che la comunicazione fra umani era (ed è) superficiale. Nel quotidiano della vita le nostre parole sono, quasi del tutto: cosa hai mangiato? Il lavoro come va? Hai avuto la promozione? Ci vediamo in pizzeria. Mia sorella si è fidanzata e via dicendo. Mai che si vada a fondo. Che emerga ‘l’uomo interiore’.

La poesia è l’arte dell’ascolto

Ero in questo stato di inquietudine quando incrociai Petrarca e Leopardi, i quali mi dissero che la poesia (l’arte, in generale) è invece uno straordinario itinerario dentro di sé, un formidabile mezzo di comunicazione. La poesia è sempre un diario (Ungaretti) ed è sempre un viaggio dentro l’anima (anche nella poesia più cerebrale ed antilirica) ed è un diario eterno perché l’anima si svela attraverso piccole aperture, ma in realtà resta sconosciuta. Misteriosa. Ecco perché io pubblico solo quando ho qualcosa di nuovo da dire. Per condividere coi pochi lettori lo ‘stato dell’anima’. E quei lettori sono quasi la mia famiglia, perché sono a me consentanei.

Ed ecco che la poesia -in sostanza – è l’arte dell’ascolto (della vita interiore propria ed altrui): se leggo Garcia Lorca, mi incontro con la sua anima. Ascolto le emozioni che lui provò. Lui è qui che mi parla. Se scrivo di me è lo stesso: è l’ascolto dei movimenti della mia vita interiore che mi interessa. L’anima ci parla (come il corpo) ma noi raramente la ascoltiamo. E la poesia è l’arte dell’ascolto. Ci sarebbe da dire molto a lungo, ma per ora mi fermo qui.

Daniele Giancane

La poesia è ricerca di autenticità

S’è dunque detto che chi scrive poesie vuole intraprendere un viaggio dentro di sé, un viaggio a cui non c’è mai fine: con abbandoni, cadute, estasi, drammi, noie, barlumi di verità. È un viaggio pericoloso,perchè – al fondo – possiamo trovare il nulla, la caduta di tutte le certezze accumulate, le ansie, i pregiudizi, le contraddizioni. La messa in crisi di noi stessi.

Chi fa poesia per altri motivi (per narcisismo, per restare alla superficie di sé, per descrivere semplicemente una giornata di sole) in realtà non è un poeta, è un verseggiatore per hobby. Libero di farlo, ci mancherebbe, ma non rientra nella casistica del nostro discorso attorno alla poesia.

Fare poesia – in sostanza – è ‘essere se stessi’. Individuare chi davvero si è (almeno quel che si è capito sino a quel momento) e riportarlo sulla carta (ma qui, se si vuole pubblicarlo, è necessario avere anche una ‘sapienza letteraria’).

Scrivere poesia vuol dire ricercare l’autenticità. Cosa apparentemente facile a dirsi, ma che pochissimi praticano: le maschere pirandelliane incombono sempre e ci inducono a mostrarci per quel che non siamo. Per quello che gli altri accettano. Liberarsi da schemi e paure (del giudizio altrui, oltre che del proprio) è un cammino difficile, che però va di pari passo con la ricerca poetica. Ed ecco che abbiamo trovato un’altra definizione: la poesia è ricerca di autenticità o, perlomeno, di ‘olisticità’ (termine inventato, in cui io definisco la totalità dell’organismo umano: mente, corpo, anima). Ed essere se stessi credo che sia il più grande compito dell’esistenza. L’unica via per una (possibile) felicità.

Credo a tutto (o quasi)

Credo che non si possa dedicarsi alla scrittura di poesie se non si crede all’Oltre. Ora,la parola ‘Oltre’ si può declinare in infiniti modi: credere ai fantasmi, alle fate, all’al di là, a Gesù, a Buddha, a Zoroastro, alle energie positive, alla predestinazione, alla reincarnazione. Credere che nulla è un caso, ma tutto accade perché deve accadere ed è ‘segno’ di qualcosa d’altro.

Credere al duende di Lorca, alla folgorazione di Claudel quando entra in Chiesa e si converte. Credere ai miracoli. Credere ai sogni e di parlare coi morti. Credere che con la mia mente posso spostare le montagne. Credere che ciascuno di noi ha un compito nella vita ed è stato inviato qui per assolvere s questo compito. Non voglio dire che davvero credo a tutto questo e ad altro ancora, ma credo che nulla di tutto ciò sia impossibile.

Se mio nonno mi raccontava di aver parlato con un commilitone che poi si seppe che era morto alcune ore prima, perché non dovrei credergli? Se un mio caro amico mi raccontò di aver vissuto in una casa infestata dai fantasmi (lui ateo convinto), dandomi tanti particolari, perché non avrei dovuto credergli? E che il duende sia una sorta di ribollimento ispirativo e inarrestabile che sale dai piedi verso la testa (Lorca), perché non dovrei credere al divino Garcia? E che due miei amici mi narrano di essere stati clinicamente morti e di aver attraversato una galleria buia, oltre la quale c’era una luce accecante, dovrei dire loro che raccontano panzane?

Quindi: io credo a tutto nel senso che sono convinto che l’esistenza non finisce alle cose che guardiamo. Che c’è un ‘Oltre’ vastissimo (ognuno ha il suo). Senza questo mondo ‘alternativo’ non credo che scriverei nulla. Che per me il compito della poesia è in qualche modo avvicinare quest’Oltre è certo. E che forse sia allo stesso tempo una ‘modalità’ di essere rimasto all’infanzia è altrettanto vero. Ma è forse un male?

L’inutilità di targhe, coppe, ecc…

Risulta così chiaro ,in questo breve excursus, che se la poesia è ‘l’arte dell’ascolto’, è ricerca di autenticità, è ricerca dell’Oltre e ritorno all’infanzia, tutto il resto è estremamente marginale. Direi inutile.

Il narcisismo, il vantarsi di coppe, targhe, segnalazioni ai premi, pubblicazioni all’estero, partecipazioni ai readings, conta assai poco. La poesia non è ‘solo’ per gli altri (i lettori), è anzitutto un viaggio dentro di sè. Concludo con una frase dell’amato Juan Ramon Jimenez, che ripeto spesso: «Non correre, vai adagio, tanto è da te stesso che devi andare».

La poesia è un viaggio dentro di sé: le estasi e i pericoli

Molti non vogliono in realtà percorrere il viaggio nella propria anima e nella propria mente, perché ne hanno (giustamente)paura.

Più d’uno ho conosciuto – durante la mia vita – che mi ha detto esplicitamente: abbandono la poesia, perché mi potrebbe mettere in crisi. Altri si limitano a versi di superficie: il cielo azzurro senza nuvole, i gabbiani volteggiano e le barche dondolano… in realtà percorrere questo viaggio può essere un itinerario estatico (ci sono momenti in cui ti sembra di aver toccato altre dimensioni, accade per la musica, il teatro e tutte le arti) da cui non vorresti mai staccarti. E ci sono momenti di depressione.

In qualcuno il ‘viaggio’ può giungere a contemplare il nulla, l’inutilità del tutto, il vuoto interiore. E accade l’irreparabile. La poesia ha il più alto numero di suicidi fra gli artisti: da Sylvia Plath ad Anne Sexton a Vittoria Pozzi a Cesare Pavese…come mai? Vuol dire che la parola scava terribilmente in fondo. E nel fondo ci puoi trovare l’estasi o il nulla.

Poesia, preghiera e magia: la stessa cosa?

Tendiamo a fare una netta differenziazione fra poesia, preghiera e magia, ma a me pare che le somiglianze siano più grandi delle diversità e che il poeta coltivi in sé (consciamente o meno) il pensiero magico-animistico.

La poesia usa le parole per provocare una ‘reazione’ emotiva nel lettore (o ascoltatore). Coltiva il segreto desiderio di cambiare il lettore e -generalmente – di cambiare il mondo. Solo con le parole, utilizzate sapientemente in un certo modo.

La preghiera usa le parole per mettersi in contatto con energie universali e per ‘ottenere’ qualcosa dall’Ascoltatore (in questo caso è Dio o altre Entità). Pensa che le parole cambino il destino (di una malattia, ecc.). La magia, in fondo, che cos’è? L’uso delle parole, partendo dall’idea che le parole stesse cambino la realtà (in vari studi la magia è definita proprio l’idea che col mio pensiero e con parole acconce (appunto le formule magiche) posso spostare gli oggetti, indirizzare la realtà come io voglio). Non è, in fondo, la stessa cosa? Sono tre linguaggi simili: ecco perché a volte la poesia assomiglia a una preghiera o l’opposto: che una preghiera o un testo sacro sembri (o sia) proprio poesia. E che il pensiero magico sia sulla stessa linea d’onda.

Tutti i tre i linguaggi pensano di evocare energie ultra/umane. In più il poeta, quando dà un’anima a un albero o a un sasso, è un animista. È sempre in lui il pensiero delle caverne. O forse è un pensiero modernissimo (che tutto abbia un’anima), chi lo può dire?

La poesia nasce dal dormiveglia o da “stati di confine”

Proseguendo queste brevi conversazioni attorno alla poesia, molti grandi autori affermano che il ‘meglio’ della loro poesia è nata dagli ‘stati di confine’, che possono essere o gli stati ‘alterati della coscienza’ (quelli ‘provocati’, per esempio, sotto l’uso delle droghe o dell’alcool o quelli indotti da disturbi psichici).

In tanti affermano che la poesia nasce dallo stato di dormiveglia, ed io credo che spesso sia proprio così. Il controllo assoluto della ragione non può dar vita alla poesia – che è fatta di ‘deviazioni’ linguistiche dall’ordinario, di improvvise originalità, di versi che appaiono come una sorta di illuminazione. Può dar vita a dei pensieri poetici, a delle belle frasi, a delle descrizioni anonime della realtà.

La poesia ha bisogno di esserci/non esserci e il dormiveglia è appunto l’ideale: siamo tra la veglia e il sonno. Ancora desti, in parte; già nel sogno, quasi. Sono i momenti in cui l’Io si lascia andare, ‘vede’ ciò che da sveglio non vedrebbe, perchè obnubilato dagli schematismi della razionalità, che ha bisogno di ‘integrarsi’, di situarsi in uno spazio e in un tempo.

La poesia ha bisogno – all’opposto – di disintegrarsi, pur restando lucida. Siamo quasi alla lucida follia?

Daniele Giancane