Tutti conosciamo Gaio Valerio Catullo, ma una ‘ripetizione’ è sempre utile, sia pure nel breve spazio di una scheda. A voler schematizzare e ridurre quasi ad un telegramma, possiamo dire che: nacque a Verona (ma che avrà questa Verona, sempre teatro di formidabili e drammatiche storie d’amore?) nell’87 o fors’anche nell’84 avanti Cristo.

Era di famiglia facoltosa con case e terreni anche a Sirmione, sul lago di Garda e a Tivoli. Suo padre era amico nientemeno che di Giulio Cesare. Dopo una raffinata educazione scolastica, si trasferisce a Roma e qui conosce il fior fiore degli intellettuali dell’epoca: Cicerone, Pompeo, Cornelio Nepote, Licinio Calvo. Ma a Roma gli capita l’evento centrale della sua vita: un folle innamoramento per Clodia, sorella del famigerato tribuno Clodio Pulcro.

Clodia è la moglie di Quinto Metello, ma per lei conta poco. In breve diventa l’amante del nostro Catullo. E Clodia ha la fortuna di divenire la musa di Gaio Valerio, colei che è protagonista del ‘Liber’. E viene ricordata ancora oggi.

Eppure Clodia – che Catullo soprannominò Lesbia (ovvero proveniente dall’isola di Lesbo, altro luogo ‘mitico’ per la poesia di ogni tempo: dette i natali a Saffo e ad Alceo) – aveva una decina d’anni più del poeta e soprattutto non era ‘uno stinco di santo’: donna ‘leggera’, certamente colta e intelligente, ma spregiudicata alla massima potenza.

Cicerone scrisse che posponeva l’onore all’amore per il lusso, che fu complice di tresche amorose e di intrighi politici. Che fu incestuosa. Mostro di corruzione e amica omnium, insomma amante di tutti. Un bel tipo di cui Catullo s’invaghì e mal gliene incolse, perché fu un amore tormentato, ora appassionato e totalizzante, ora litigioso e infelice.

Non che Catullo – a sua volta – fosse uno di cui fidarsi al cento per cento, perché – durante gli anni del suo amore per Lesbia – coltivò una relazione omosessuale con tale Giovenzio.

Parte per la Bitinia quasi solo per cercare di dimenticare quella donna fatale che lo ha stregato. Visita la tomba del fratello e ci scrive su (Foscolo trarrà spunto da questo carme per scrivere In morte del fratello Giovanni), ma l’impresa non riesce. Torna a Roma, ma ora Lesbia è incostante e quasi indifferente e poi ha già intrecciato altre storie. Catullo è amareggiato, anche per il degrado della vita politica e scrive:

Che c’è, Catullo?
Che aspetti
a morire?
Sulla sedia curule
siede Nonio
lo scrofoloso,
per il consolato
spergiura Vatinio:
che c’è, Catullo?
Che aspetti a morire?

In cui è splendido (ma accade altre volte, nei 116 carmi della sua opera) quel riferirsi a se stesso. Come se l’io fosse un’altra persona. Ed è il segno di una poesia diversa e rivoluzionaria rispetto a quella precedente. È la nuova estetica dei ‘neoteroi’, ovvero dei ‘poeti nuovi’, che disdegnavano la poesia epica tradizionale, divenuta ripetitiva e noiosa per creare una poesia immediata e breve, ispirata dalla vita quotidiana, che prende a maestro il greco Callimaco. Ma non è poesia improvvisata.

Catullo, come tutti gli aderenti alla ‘poesia nova’, è un ‘sapiente’ di poesia. I testi sono assai curati e – come dice lo stesso poeta – levigati. Devono creare emozione nel lettore. Ora, il corpus dell’opera catulliana – che fu in realtà rielaborato e ‘inventato’ come testo unico probabilmente da Cornelio Nepote a cui le poesie sono dedicate – si divide in tre parti, di cui la prima è quella delle nugae (letteralmente ‘sciocchezze’), poi i carmina docta e appresso gli epigrammi.

Dopo duemila e più anni (Catullo morì giovanissimo ad appena trent’anni), questo giovane poeta è un punto di snodo della poesia di tutti i tempi. E ancor più della poesia d’amore, anche se in verità molti carmi sono dedicati ad altro: ad amici e nemici, con sarcasmi, ironie, invettive. Epperò, la storia d’amore per Lesbia è divenuta un mito:

Amiamoci per vivere, mia Lesbia,
e le chiacchiere invidiose tutte
insieme non stimiamole che un soldo!
I soli sorgono e tramontano, ma il nostro,
una volta consumato nel suo giro,
ci addormenta in una notte inesauribile.
Dammi mille baci e poi cento,
e, dopo, mille altri e altri cento
e mille dopo questi e, dopo, cento.
Quando saremo sazi di contarli,
per scordarli proseguiamo senza ordine,
perché nessuno tessa trappole d’invidia
nel vederci tutto un bacio.

Il poeta è ubriaco d’amore, il suo mondo ormai è solo Lesbia. Non vede che lei, non sogna che i suoi baci, fino a volerne una montagna. Incontabili come i granelli di sabbia su una lunga spiaggia:

Quanti baci mi bastino a saziarmi,
Lesbia, mi chiedi. Ecco, quanti
sono i grani delle sabbie di Cirene,
dove i campi danno silfio…
tanti baci ci vogliono a baciarlo
per saziarlo il tuo insaziabile Catullo,
sicché i curiosi non possano contarli
né fargli con formule il malocchio.

Ma è un amore contrastato. Il poeta si rende conto di essere caduto in una sorta di trappola, da cui non riesce a venir fuori:

Così, Lesbia, mi son perso appresso a te,
a tal punto , per tua colpa, son ridotto se
t’odierei, quand’anche l’ottima tu fossi,
e, a dispetto d’ogni cosa, t’ amerei.

Comincia un atteggiamento dell’anima di Catullo che sorprende lui stesso. Si meraviglia di essere capace di coniugare amore ed odio per Lesbia. E la cosa può avvenire – incredibilmente – nello stesso momento. E qui prorompe con i due versi forse più famosi di tutta la letteratura latina (e della poesia tout court):

Odio e amo. Come questo sia possibile
mi sfugge, ma lo sento ed è uno strazio

In questo distico c’è un mondo: l’incomprensibilità dell’amore che non ha nulla a che fare con la razionalità. Il rendersi conto che lui ama ed odia nello stesso momento. E lo sgomento per ciò che sta accadendo e che doveva essere ancora più tremendo per un romano, abituato ad affrontare il mondo con la ragione, senza troppo lasciarsi andare al sentimento.

Questo sentirsi in scacco e quasi prigioniero di Lesbia. Lui lo sta dicendo a se stesso. Non lo dice a Lesbia o ad altri. Lo dice, stupefatto, a se stesso.
È, forse, la nascita di qualcosa che ha a che fare con la psicanalisi, con la discesa agli inferi di se stesso. La scoperta che siamo in balia di forze che non dominiamo e che dentro di noi combattono, emergono, reprimiamo, improvvisamente ci fanno soffrire: ”mi sfugge” scrive Catullo ed è quella la sconfitta più grande Odi et amo….

Daniele Giancane