Jack Hirschman, l’ultimo profeta della Beat Generation, è venuto a mancare poco più di un anno fa.
Nacque nel 1933 nel Bronx, a New York, non certo un quartiere di intellettuali. Epperò, non si sa come e perché, gli venne la passione del reporter, che coltivò per anni. Finchè si mise a scrivere racconti. E in quegli anni, se volevo avere un’opinione, a che dovevi rivolgerti? È ovvio: a Ernest Hemingway.

Jack gli manda i suoi racconti, con l’idea che – tanto – il ‘mito’ non risponderà mai. E invece Hemingway legge i suoi racconti e se ne innamora, gli risponde che deve assolutamente continuare a scrivere, perché ha del talento. E così comincia la carriera di poeta e scrittore di Jack Hirshann. Riporto qui un suo primo testo: La felicità

La felicità

È una felicità, una gioia
nell’anima che è stata
sepolta viva in ciascuno di noi
e dimenticata.

Non si tratta di uno scherzo da bar
né di tenero, intimo umorismo
né di amicizia affettuosa
né un grande, brillante gioco di parole.

Sono i superstiti sopravvissuti
a ciò che accadde quando la felicità
fu sepolta viva, quando essa
non guardò più

dagli occhi di oggi, e non si
manifesta neanche quando
uno di noi muore – semplicemente ci allontaniamo
da tutto, soli

con quello che resta di noi,
continuando ad essere esseri umani
senza essere umani,
senza quella felicità.

Traduzione: Raffaella Marzano

Un capolavoro. E lo è per il linguaggio immediato e rapido, per lo stile conversativo e il rapporto che il poeta instaura tra la quotidianità e la felicità. L’aspirazione alla felicità c’è sempre – anche se celata dentro di noi – e attende sempre il momento di essere dissepolta.

Molti di noi l’hanno provata, un attimo, ma poi è rimasta acquattata nel nostro inconscio, quasi umiliata. E non emerge neppure davanti alla morte. Noi, senza felicità, siamo sempre umani, ma non siamo davvero ‘umani’. Che dire? I grandi non hanno bisogno di parole.

Jack Hirschman (1933-2021)

Riporto un altro testo memorabile di Hirschmann: Madre, che è uno straordinario modo di scrivere della propria madre Nellie, alieno da patetismi e sentimentalismi eccessivi, ma con una tenerezza infinita.

Hirschmann, poeta, pittore, traduttore, ha sempre mischiato sapientemente il privato col pubblico, sempre mettendosi dalla parte dei poveri e degli emarginati. Contestò la guerra in Corea e in Vietnam, fu chiamato il ‘poeta rosso’, per essere molto vicino alla Sinistra, anzi esponente dell’Union of left Writers.

Madre

Non siamo in questo mondo
tanto tempo fa
ebbe fine:
il mondo la guerra la guerra mondiale.
Ti tenni per mano
per attraversarlo
la più piccola mano, la più piccola stella.
Non ti muovesti, poi
io ero morta, poi eri morto tu.
Nella bocca aperta del dolore
c’è una candela.

Non sono col mio respiro,
sono il lento squamarsi
della pelle
e tutto quello che tutte le morti
che ho visto è registrato
nei miei occhi.
Sono stata un albero che ride
accanto a una stufa
di banane mielate,
sono stata una volpe argentata
e l’eleganza dei tacchi a spillo,
sono stata quello
che ti ha buttato giù
e le parole che cerchi,
sono stata vittima di sputi
e di stupri,
il caduto e l’invincibile,
la cagna delle lune,
la frustata della compassione
dietro la droga delle puttane,
il filo rosso
che libera tutti i prigionieri,
il ditale che bilancia
i tuoi bicchierini,
la kalimba che avvolge
i tuoi incubi in ninnananne,
il potere della nascita
quando un bambino muore.

Non siamo in questo mondo
tanto tempo fa
ebbe fine:
il mondo la guerra la guerra mondiale.
Ti tenni per mano
per attraversarlo
la più piccola mano, la più piccola stella.
Perché dovrei piangere ora, ora
che sei entrato nelle tenebre?
Molti come me sono intorno a te.
Il nostro etere è infinito.
Non dovessimo parlare di nuovo
tu scriverai la nostra conversazione.
Dovesse la mia voce non bastare al tuo cuore
(ma questo è impossibile,
sei ancora così piccolo,
sto piangendo alla finestra),
altre voci la solleveranno
e la porteranno al centro
del tuo respiro.

O mio caro, quando scoppiasti in fiamme,
quando le tue ossa si riempirono di bolle,
in quel preciso istante,
chi guidò i semi in un rapido
torrente di cosce e gravò
di gloria le uova bramose?
Quando crescesti da sillabario
a testo di rabbia
per tutta l’ingiustizia di questo
inferno dei grandi profitti,
quando la tua mente fu spezzata,
quando il tuo sesso fu diviso
come la Corea, il Vietnam,
come il Nord e il Sud,
quando i veleni vennero con piacere
e l’antidoto era morto,
chi sferzò l’aria
come se torcesse il collo a una gallina?
chi strappò le penne e le lanciò
per attutire la tua caduta?

Io sono la creatura che corre lungo le strade
gridando il tuo nome contro lo scherno,
sono il sonno del suicida
e la cataratta di capelli immemorabili,
sono l’attacco di libertà ai duri di cuore
e di poesia ai duri di orecchio.
La solitudine, la grazia, il sorriso
La solitudine, la grazia, il sorriso
dalle profondità della biologia
di un travaglio e gioia
a cui solo i battiti del cuore del ditirambo si avvicinano,
solo lo strimpellio dell’anima del cosmo definiscono.

Non siamo in questo mondo
tanto tempo fa
ebbe fine:
il mondo la guerra la guerra mondiale.
Ti tenni per mano
per attraversarlo
a più piccola mano, la più piccola stella.

(1984)
Traduzione: Raffaella Marzano

«Io sono il sonno del suicida/e la cataratta di capelli immemorabili». Questi due versi/metafore sono meravigliosi. Ma perché sono meravigliosi? Io, in verità, non li capisco completamente, ma questo non conta. Conta che mi colpiscano a fondo, mi stupiscano, mi facciano quasi tremare. Evidentemente qui si supera una soglia inconscia, che io stesso non sapevo di avere. Una immaginazione che supera ogni verità ‘obiettiva: «Io sono la cataratta di capelli immemorabili…». È vero, ciò che significa davvero è relativo ma è opportuno un esercizio che ci faccia sostare su questa metafora inimitabile.

Un’altra poesia. E siamo davanti a un altro capolavoro.

Sentiero

Vai al tuo cuore infranto.
Se pensi di non averne uno, procuratelo.
Per procurartelo, sii sincero.
Impara la sincerità di intenti lasciando
entrare la vita, perché non puoi, davvero,
fare altrimenti.
Anche mentre cerchi di scappare, lascia che ti prenda
e ti laceri
come una lettera spedita
come una sentenza all’interno
che hai aspettato per tutta la vita
anche se non hai commesso nulla.
Lascia che ti spedisca.
Lascia che ti infranga, cuore.
L’avere il cuore infranto è l’inizio
di ogni vera accoglienza.
L’orecchio dell’umiltà ascolta oltre i cancelli.
Vedi i cancelli che si aprono.
Senti le tue mani sui tuoi fianchi,
la tua bocca che si apre come un utero
dando alla vita la tua voce per la prima volta.
Vai cantando volteggiando nella gloria
di essere estaticamente semplice.
Scrivi la poesia.

Essere umili, essere semplici. Aprirsi davvero all’esistenza «che si apre come un utero/dando alla vita la tua voce». È la nascita dello stupore, la meraviglia della poesia, che è tale solo se ‘vede’ e ‘sente’.

«Impara la sincerità di intenti» è lezione etica, oltre che poetica. Essere ‘estaticamente semplici’ è straordinario: per essere poeti bisogna tonare all’essere primigenio, all’essenza del mondo e così proverai l’estasi. E quell’incipit sul cuore infranto (al limite: procuratelo), perché senza un ‘cuore infranto’ nulla si può. E lascia che il tuo cuore infranto ti prenda, ti possegga, sia tutt’uno con te stesso. Solo 24 versi, ma dentro c’è un mondo (poetico, filosofico, psicologico, iniziatico, etico).

Ed ecco un altro capolavoro: una poesia di parole semplici, quotidiane, ma di una umanità infinita: il poeta osserva una donna povera, le fa cadere una moneta nel bicchiere di plastica, che scivola però sul fondo di un’aranciata. Ma poi, soprattutto, nota i suoi capelli ingrigiti ‘prematuramente’ e la pelle devastata. Parla e ride insieme a lei, mentre cade leggera la pioggia. È solo un’immagine, un gesto, ma è di un’intensità e di una umanità davvero rara. E quel finale da brividi.

Lei stava appoggiata
al muro vicino
all’Hotel Tevere con in mano
un bicchiere di plastica
quando iniziò a piovere.
Ho cercato una moneta, le sono
andato vicino
e l’ho fatta cadere nel bicchiere.
Cadde sul fondo
di un’aranciata.
Sono arrossito, ho guardato
i suoi occhi devastati e la pelle
e i capelli diventati prematuramente
grigi, e ho detto che
mi dispiaceva, che avevo pensato
avesse bisogno di soldi.
“Ne ho bisogno”, rispose
e sorrise “Stavo
solo bevendo
qualcosa”.
E restammo così
a ridere assieme
mentre guardavamo le gocce di pioggia cadere
sul lago d’arancia
sopra la moneta che affondava.

Traduzione: Bruno Gullì

Daniele Giancane