Dopo qualche giorno di pausa (dopo un gigante come Dostoewsky occorre riprendersi lentamente), rigettiamoci nel mondo di un altro ‘mostro’ della letteratura: Arthur Rimbaud, il visionario, il folle, il trasgressivo, colui che fuggito dal villaggio di Charleville, approdò a Parigi dove stupì con le sue poesie il bel mondo letterario, a cominciare con Paul Verlaine, con cui ebbe poi una storia tumultuosa.

Poi di nuovo una fuga: in Africa, a vendere un po’ di tutto ed anche le armi. E poi l’infezione alla gamba e la morte ad appena trentasette anni. Ma in quei trentasette anni ha fatto la rivoluzione.

Ora, dobbiamo allontanarci dall’idea che poesia vuol dire etica. Le due cose non stanno insieme: l’etica è una cosa, l’estetica è un’altra.

Uno può essere uno straordinario poeta e un pessimo elemento, E così non ci mettiamo davanti ai pensieri di Rimbaud con animo ‘pedagogico’, non avrebbe senso. Dobbiamo farci trasportare dalle sue immagini, dai suoi capovolgimenti, dalla sua trasgressione. Rispondere poeticamente alla sua poesia.

Lasciamo per un attimo il nostro ‘Io’ (con le sue regole e i suoi parametri) e mettiamoci nell’anima di Rimbaud, così il viaggio avrà un senso. E cominciamo con:

Voglio sperimentare ogni formula d’amore, di sofferenza, di follia.

Non rispondiamo con l’ovvio buon senso: l’amore va bene e magari non in tutte le sue forme, la sofferenza è meglio evitarla… tutto ciò sarebbe banale, inutile, lo sappiamo tutti.

Ma che cosa intende davvero Rimbaud? Perché aspira ad uno slargamento totale dell’esperienza umana? È un pensiero inquietante o tutto sommato vi ci ritroviamo? Ogni formula… tutto il possibile, nulla escluso. Lui lo fece e per questo bruciò, ma alla grande, tanto da lasciare una traccia indelebile-per soli trentasette anni.

Una stagione all’inferno

Con Rimbaud dobbiamo abbandonare parametri usuali, schemi di riferimento, confini etici ben definiti. Si viaggia in un territorio anarchico, in cui è padrona l’immaginazione, ed anzi l’allucinazione.

La parola diventa una sorta di droga. Qualcuno ha detto che Una stagione all’inferno è la rivincita di Lucifero su Dio, nel senso del riscatto dell’innocenza del peccato. Ma ‘l’uomo dalle suole di vento’ (così lo definì Paul Verlaine) con quest’opera segna una cesura tra la vecchia poesia – così classica e perfetta – e la nuova, tant’è che quando negli incontri letterari a casa di Verlaine fu invitato quel ragazzino a leggere i suoi testi, i ‘grandi’ della poesia francese andarono in crisi: quel sedicenne li metteva k.o., li riduceva a vecchiume, a reperti del passato.

Mi abituai all’allucinazione semplice: vedevo molto chiaramente una moschea al posto di un’officina, una scuola di tamburi tenuta da angeli, calessi per le vie del cielo, un salotto in fondo a un lago; i mostri, i misteri: poi spiegai i miei sofismi magici con l’allucinazione delle parole! Finii per trovare sacro il disordine del mio spirito.
Amai il deserto, i frutteti bruciati, le botteghe sbiadite, le bevande intiepidite.
Mi trascinavo per le stradine puzzolenti e, chiusi gli occhi, mi offrivo al sole, dio del fuoco.

E noi lettori siamo travolti da una cascata di immagini bizzarre e coinvolgenti, da metafore inusuali e folli. Tutto questo non si può commentare, si deve solo ‘sentire’. Chiede la partecipazione dei nostri sensi.

Rimbaud ci mostra come – per scrivere poesia – bisogna sregolare i sensi. Se no, si resta nel bel quadretto, nel buon senso comune, nel mondo dell’ovvietà. Nel nulla. Con lui dobbiamo viaggiare e viaggiare molto, sino a perdere coscienza di noi stessi. E tutto questo in Una stagione all’inferno (1873),quando aveva solo diciannove anni!

Un tempo, se ben ricordo…

Un tempo, se ben ricordo, la mia vita era un festino dove si chiudeva ogni cuore, ogni vino scorreva.
Una sera, feci sedere la Bellezza sulle mie ginocchia. E la trovai amara. E l’ingiuriai.
Mi armai contro la giustizia.
Fuggii. Oh streghe, oh miseria, oh odio, a voi il mio tesoro fu affidato!
Riuscii a cancellare dal mio spirito ogni speranza umana. Su ogni gioia per strangolarla feci il balzo sordo della bestia feroce.
Invocai i carnefici per mordere morendo il calcio dei loro fucili. Invocai i cataclismi per soffocarmi con la sabbia, il sangue.
La sciagura fu la mia dea. Mi stesi nel fango. Mi asciugai al vento del crimine. E giocai brutti tiri alla follia.
E la primavera mi portò il riso orrendo dell’idiota.
Caro Satana, ti scongiuro, per te stacco questi pochi orribili foglietti dal mio taccuino di dannato.

È l’inizio di Una stagione all’inferno, il libro che rivoluzionò la poesia del suo tempo (ma che ancor oggi è poco letto e conosciuto anche da poeti o pseudotali), di fronte al quale non dobbiamo cercare di capire (anche se la nostra mente vuole sempre dare un senso), ma di sintonizzarci con Arthur.

Seguire le sue visioni, farsi abbacinare dai suoi sogni allucinati. Seguirlo nei suoi pensieri ‘alternativi’: amare la sciagura ,invocare Satana, affidarsi all’odio, sperare nei cataclismi. Cercare un’altra strada rispetto alle solite normali idee e pensieri della gente, dei suoi schemi rassicuranti. Qui di rassicurante non c’è nulla, anzi c’è la volontà di perdersi e d’altra parte disse più volte che a lui di essere compreso interessa poco.

In tutto questo mondo inquietante, appare la Bellezza, seduta sulle sue ginocchia. Che immagine potente! Però anche la Bellezza alla lunga lo delude. E lui si arma ‘contro la giustizia’. Non contro l’ingiustizia, ma contro la giustizia.

Per essere davvero umano, occorre sradicare ogni speranza umana. Per scendere nel profondo, occorre perdersi, questa è la sua sua idea, questo il suo progetto. Credo che in tutto questo ci sia addirittura un velo di santità: anche i grandi santi, prima di essere tali, spesso si sono persi. Solo che Arthur non vuole diventare santo, anzi vuole collaborare con Satana.

Santificare il peccato. Capovolgere le comuni idee etiche. Inventare lui una nuova etica. Un progetto folle, ma travolgente. Leggere Rimbaud è un viaggio: i suoi lettori – almeno nello spazio della lettura dei suoi scritti -devono essere disposti anch’essi a perdersi, a mettere il proprio Io (con i suoi parametri, le sue paure, le sue domande ,la sua etica, la sua filosofia di vita) da parte.

Leggere Rimbaud vuol dire farsi portare da lui. Scegliere un maestro che ci conduce nell’abisso.

Alchimia del verbo

A me. La storia della mia follia. Da molto tempo mi vantavo di possedere tutti i paesaggi possibili e trovavo irrisorie tutte le celebrità della pittura e della musica moderna. Mi piacevano le pitture idiote, sovrapporte, scenari, tele di saltimbanchi, insegne, immagini popolari; la letteratura fuori moda, latino di chiesa, libri erotici senza ortografia, romanzi delle nostre nonne, fiabe, libriccini per l’infanzia, vecchie opere, ritornelli sciocchi, rimi ingenui. Sognavo crociate, viaggi di scoperte di cui non si hanno relazioni, repubbliche senza storie, guerre di religione soffocate, rivoluzione di costumi, spostamenti di razze e di continenti: credevo a tutti gli incantesimi. Inventai il colore delle vocali! A nera, E bianca, I rossa, O blu, U verde. Mi illusi di inventare un verbo poetico accessibile, un giorno o l’altro. All’inizio fu uno studio. Scrivevo silenzi, notti, annotavo l’inesprimibile. Fissavo vertigini.

È uno dei brani più straordinari e stordenti del XIX secolo, ma direi di tutti tempi. Rimbaud ci conduce per mano nei suoi meandri allucinati, nella sua ricerca di alternative alla vita borghese, persino nelle letture, nella sua contestazione all’arte del suo tempo.

Arthur inventa il colore delle vocali (non accenna al giallo per questioni alchemiche) e soprattutto scrive quella frase che è come un diamante: «Scrivevo silenzi, annotavo l’inesprimibile. Fissavo vertigini».

Il poeta è colui che va ‘oltre’. Un ‘veggente’ che vede cose che gli altri non vedono. Dà voce all’inesprimibile. E come si può dar voce all’inesprimibile se non con metafore bizzarre e stranianti? Come si può parlare davvero di Dio con parole del linguaggio quotidiano? Con le parole dell’ovvietà? Bisogna essere folli. Solo così si può giungere a ‘fissare vertigini’. Ad avvertire che una soglia è stata superata. Che si è andati quasi oltre l’umano. Fissavo vertigini: tremavo e avevo senso si svenimento – tanto la poesia e la ricerca mi spossavano – ma avevo contemporaneamente la forza di osservarle e persino di metterle su carta.

Questo di Rimbaud è un diario di arte e di vita, quando l’arte e la vita sono al limite del perdersi o dell’estasi. Ed era un giovane di poco più di vent’anni!

Note laboratoriali

Converrà riflettere su qualche punto della produzione del genio Rimbaud, per ricavarne qualche spunto e qualche apprendimento, che potrebbe servire a quanti scrivono poesia, magari in modo superficiale e banale.

Teniamo presente un fatto: Rimbaud nel 1873 ha operato una cesura tra la vecchia e la nuova poesia. Chi ancor oggi scrive (Uh,quanti!) di anime in tempesta, cuori innamorati, cieli azzurri & C. è un reperto di tempi antichi. È come se stesse scrivendo nel 1872.

Quando Arthur scrive «il vento del crimine», «vidi un salotto in fondo a un lago»,«una scuola di tamburi tenuta da angeli»,«vorrei mordere morendo il calcio dei fucili» (per fare qualche esempio) vuol dire che il confine con le metafore ovvie è oltrepassato.

Un poeta oggi, quando elabora una metafora o una visione, dovrebbe chiedersi: a Rimbaud piacerebbe? Non perché si possa essere tutti dei Rimbaud (lui appartiene alla categoria dei geni), ma per apprendere qualcosa da lui: la metafora o la visione dev’essere sorprendente, straniante, bizzarra, improvvisa, stordente, capovolgente il senso comune. Se no, si è ovvi, ovvero non poeti.

Secondo punto essenziale: Rimbaud ci dice che la poesia è una ricerca e si identifica con la vita. E ricercare vuol dire mettere da parte il proprio Io. Baha’u’llah, un Maestro spirituale persiano, scrive ne Le sette valli, che la «valle della ricerca» richiede di purificare il cuore da ogni immagine e di allontanarsi dalle imitazioni. Il viandante (il poeta o il mistico) «in questo viaggio soggiornerà in ogni paese. Si unirà ad ogni compagnia. Solo così potrà scorgere – forse – la valle dell’amore». Ecco che il mistico e Rimbaud sono – alla fine – la stessa cosa: «Si unirà ad ogni compagnia… soggiornerà in ogni paese…» ovvero farà tutte le esperienze possibili, disposto a contemplare tutti i paesaggi.

Voglio dire che l’itinerario della poesia è un viaggio dentro di sé e un viaggio nell’anima dei grandi Autori e il viaggio vuol dire incertezza, rischio, o forse estasi. Chi non vuole percorrere questo viaggio, non scriva poesia né si avvicini ai grandi, da Villon a Dostoewsky, da Goethe a Rimbaud, da Baudelaire alla Dickinson, perché questi Autori scrivono e si rivolgono a noi per metterci in crisi, non per farci addormentare tranquilli.

La potenza della poesia è questa, se no che diavolo è, un bel quadretto di parole usuali e ovvie per farsi dire ‘bravo’ da amici e parenti?

Io sono all’inferno

Io mi credo all’inferno, dunque ci sono.

Già questa frase, sempre tratta da Una saison all’enfer, è pregna di significati: l’inferno non è il luogo di fuoco e fiamme coi diavoli che ti rincorrono con il forcone, è una situazione dell’anima che si può provare anche in vita. Anzi: che si prova in vita. Se Arthur pensa proprio di stare all’inferno, vuol dire che già ci sta. Il fatto è – continua – che

Dovrei avere un mio inferno per la collera, un mio inferno per l’orgoglio e l’inferno della carezza: un concerto di inferni.

Sono inferni ‘personali’ (un ‘mio’ inferno, forse ognuno ha il suo?….). Chi potrebbe scrivere come lui?

Ci vogliono molti inferni e persino un inferno ‘per la carezza’. Cosa intende? Perché un inferno per la carezza? Si parla di una carezza sensuale? O la carezza ci conduce ad una sorta di inferno dei sentimenti? Diventiamo troppo umani? Noi mitizziamo la gioventù, ma lui capovolge sempre le nostre aspettative e scrive:

Non ebbi una volta una giovinezza amabile, eroica, favolosa. Da scrivere su foglio d’oro. Voi che pretendete che le bestie singhiozzino di dispiacere, che i malati disperino, che i morti facciano brutti sogni, cercate voi di raccontare la mia caduta ed il mio sonno.

E di nuovo le parole di Rimbaud ci catturano con immagini inattese, ci trasmettono tenerezza per questo giovane inimitabile e quasi affetto per lui, per i suoi deragliamenti e le sue ‘cadute’. Per il suo inferno terreno.

Lettera del veggente

E veniamo a un passo del ragazzo di Charleville che è una sorta di manifesto letterario e umano. Che significa essere poeta? Come si fa ad essere un poeta?

Io dico che bisogna essere veggente, farsi veggente. Il Poeta si fa veggente mediante un lungo, immenso e ragionato sregolamento di tutti i sensi. Tutte le forme d’amore, di sofferenza, di pazzia; cerca egli stesso, esaurisce in sé tutti i veleni, per non conservarne che la quintessenza. Ineffabile tortura nella quale ha bisogno di tutta la fede, di tutta la forza sovrumana, nella quale diventa fra tutti il grande infermo, il grande criminale, il grande maledetto, e il sommo Sapiente! Egli giunge infatti all’ignoto! Poiché ha coltivato la sua anima, già ricca, più di qualsiasi altro! Egli giunge all’ignoto e quand’anche, sbigottito, finisse col perdere l’intelligenza delle proprie visioni, le avrebbe pur viste!

Che dire ancora, dopo ciò che si è detto sinora? Che il poeta – se vuol essere davvero tale – non può limitarsi al mondo delle parole. O meglio, il mondo delle parole deve essere lo specchio delle sue inquietudini, dei suoi inferni e delle sue estasi.

Per fare questo occorre ‘essere veggente’, ovvero qualcosa di simile allo sciamano, al mago, o al mistico. È un cammino dentro di sé che costa sofferenza, chiede una forza quasi sovrumana. Lungo questa strada può apparire (o essere) pazzo e persino criminale, ma in realtà è il Sapiente, nel senso che è colui che sfiora l’ignoto, l’oltre.

Bisogna ‘sregolare i sensi’ (ma è un ragionato sregolamento). Forse si brucerà alla vista di mondi nuovi, ma perlomeno li avrà visti!

Il battello ebbro

Ed eccoci all’opera più visionaria di tutta la storia della poesia: Le bateau ivre che nel 1871 segna un punto di non ritorno nel viaggio letterario e umano di Arthur Rimbaud: questa sorta di poema in 25 quartine è quanto di più allucinato e al tempo stesso fascinoso ci possa essere dato con le parole di un poeta.

Protagonista non è un umano. Chi parla (e scrive) è un battello che percorre fiumi di un’America selvaggia, folta di vegetazione e misteri, di enigmatiche presenze. Il battello – sul quale non c’è nessun equipaggio e quindi procede anarchicamente, senza alcuno che ne tenga il timone – ha un’andatura zigzagante, è ubriaco e non ha una meta precisa.

Scorre fra visioni improvvise e assurde, in un mondo di sogno. Il battello è -ovviamente – lo stesso Rimbaud, che procede ebbro nel cammino dell’esistenza. Qui il poeta di Charleville, il veggente, il ‘maledetto’, rompe del tutto i suoi legami con la realtà, in un cammino di purificazione; le isole sono in movimento (come la sua anima), e la sua è una splendida ‘evasione’ dai legacci della razionalità.

È chiaramente un paesaggio interiore, frastagliato eppure intrigante, in un tempo sospeso: «Ho veduto siderali arcipelaghi». E allora occorre lasciarsi andare e navigare assieme a lui, noi in fondo – in qualche modo (se siamo poeti) – abitatori di quel battello.

Il battello ebbro

Mentre discendevo i Fiumi impassibili,
Non mi sentii più guidato dai bardotti:
Pellirossa urlanti li avevano bersagliati
Inchiodandoli nudi ai pali variopinti.

Ero indifferente a tutto l’equipaggio,
Portavo grano fiammingo o cotone inglese.
Quando coi miei bardotti finirono i clamori,
Mi lasciarono libero di discendere i Fiumi.

Nello sciabordio furioso delle maree,
Io l’inverno scorso, più sordo del cervello d’un bambino,
Correvo! E le Penisole andate
Non subirono mai sconquassi più trionfanti.

La tempesta ha benedetto i miei marittimi risvegli.
Più leggero di un sughero ho danzato sui flutti
Che si dicono eterni avvolgitori di vittime,
Dieci notti, senza rimpiangere l’occhio insulso dei fari!

Più dolce che per il bimbo la polpa di mele acerbe
L’acqua verde filtrò nel mio scafo d’abete
E dalle macchie di vini azzurri e di vomito
Mi lavò disperdendo l’ancora e il timone.

E da allora mi sono immerso nel Poema del Mare,
Intriso d’astri, e lattescente,
Divorando gli azzurri verdi; dove, relitto pallido
E rapito, un pensoso annegato a volte discende;

Dove, tingendo a un tratto le azzurrità, deliri
E ritmi lenti sotto il giorno rutilante,
Più forti dell’alcol, più vasti delle nostre lire,
Fermentano gli amari rossori dell’amore!

Conosco cieli che esplodono in lampi, e le trombe
E le risacche e le correnti: conosco la sera,
L’Alba che si esalta come uno stormo di colombe!
E a volte ho visto ciò che l’uomo ha creduto di vedere!

Ho visto il sole basso, macchiato di mistici orrori,
Illuminare lunghi coaguli viola,
Simili ad attori di antichissimi drammi,
I flutti che lontano rotolavano in fremiti di persiane!

Ho sognato la verde notte dalle nevi abbagliate,
Bacio che lentamente sale agli occhi dei mari,
La circolazione delle linfe inaudite,
E il risveglio giallo e blu dei fosfori canori!

Ho seguito, per mesi interi, come mandrie isteriche,
I marosi all’assalto delle scogliere,
Senza pensare che i piedi luminosi delle Marie
Potessero forzare il muso degli affannosi Oceani!

Ho urtato, sapete, Floride incredibili
Che mescolavano fiori ad occhi di pantere
Dalla pelle umana! Arcobaleni tesi come redini
Sotto l’orizzonte dei mari, a glauche greggi!

Ho visto fermentare paludi enormi, nasse
Dove marcisce fra i giunchi un intero Leviatano!
Crolli d’acqua in mezzo alle bonacce
E lontananze che precipitavano negli abissi!

Ghiacciai, soli d’argento, flutti di madreperla, cieli di brace!
Orrendi incagli sul fondo di golfi bruni
Dove serpenti giganti divorati da cimici
Cadono da alberi contorti, dagli oscuri profumi!

Avrei voluto mostrare ai bambini quelle orate
Dell’onda azzurra, quei pesci d’oro, quei pesci canori.
– Schiume di fiori mi hanno cullato mentre salpavo
E ineffabili venti per un istante mi hanno messo le ali.

A volte, martire affaticato dai poli e dalle zone,
Il mare i cui singhiozzi rendevano dolce il mio rullio
Tendeva verso di me i suoi fiori d’ombra dalle gialle ventose
E io restavo lì, come una donna in ginocchio…

Quasi un’isola, sballottando sulle mie sponde i litigi
E lo sterco di uccelli schiamazzanti dagli occhi biondi,
E io vogavo, mentre attraverso i miei fragili legami
Gli annegati scendevano a dormire, a ritroso!

Ora io, battello perduto sotto i capelli delle anse,
Scagliato dall’uragano nell’aria senza uccelli,
Io di cui né i Monitori né velieri Anseatici
Avrebbero ripescato la carcassa ebbra d’acqua;

Libero, fumante, cinto da nebbie violacee,
Io che foravo il cielo rosseggiante come un mulo
Che porta, squisita marmellata per i bravi poeti,
I licheni del sole e i moccoli d’azzurro,

Io che correvo, macchiato da lunule elettriche,
Folle legno, scortato da neri ippocampi,
Quando luglio faceva crollare a colpi di frusta
I cieli ultramarini nei vortici infuocati;

Io che tremavo udendo gemere a cinquanta leghe
La foia dei Behemot e i densi Maelstrom,
Filatore eterno delle immobilità azzurre,
Io rimpiango l’Europa dagli antichi parapetti;

Ho visto arcipelaghi siderali! e isole
I cui cieli deliranti sono aperti al vogatore:
– È in queste notti senza fondo che tu dormi e t’esili,
Stuolo di uccelli d’oro, o futuro Vigore?

Ma, davvero, ho pianto troppo! Le Albe sono strazianti,
Ogni luna è atroce ed ogni sole amaro:
L’acre amore mi ha gonfiato di torpori inebrianti.
Oh che la mia chiglia esploda! Oh che io vada verso il mare!

Se io desidero un’acqua d’Europa, è la pozzanghera
Nera e fredda in cui nel crepuscolo profumato
Un bambino inginocchiato e colmo di tristezza, lascia
Un battello leggero come una farfalla di maggio.

Io non posso più, onde, bagnato dai vostri languori,
Togliere la scia ai portatori di cotone,
Né fendere l’orgoglio di bandiere e fiamme,
Né nuotare sotto gli occhi orribili dei pontoni.

IO è un altro

Concludiamo la settimana rimbaudiana con la dichiarazione più sconvolgente tra quelle scritte dal ragazzo di Charleville:

È necessario essere poeta e io mi sono riconosciuto poeta. Non è colpa mia. È falso dire: io penso. Si dovrebbe dire: mi si pensa. Io è un altro.

Rimbaud, con la sua visione quasi oltreterrena, anticipa scoperte della psicanalisi, (su questo ‘Io è un altro’ Jacques Lacan ha costruito la sua filosofia psicanalitica), rappresenta itinerari spirituali, compie una scoperta fondamentale: l’Io in realtà è un corpo estraneo alla coscienza. L’Io non è al fondamento del pensiero. Io non pensa, è pensato. È spettatore esterno. Come se fosse un altro. Anzi: è un altro.

L’Io è impotente di fronte al pensiero (alla mente), che è flusso che esce spontaneo dalle profondità, come un fiume carsico. Chi intuisce questo (Rimbaud) è desto, gli altri (dice lui) sono i ‘dormienti’ (la maggior parte delle persone).

Ed è proprio vero: tra le mie varie esperienze giovanili, ci fu anche un tempo di frequentazione dello yoga e della meditazione. Un maestro spirituale mi invitò a rendermi conto della ‘consapevolezza’ rimbaudiana (ma non si parlava di Rimbaud), con un semplice esercizio: provare solo per trenta secondi a pensare esclusivamente a una cosa. Per trenta secondi devo pensare solo all’albero o a una sedia o a quel che volete. Sembra una sciocchezza, ebbene non ci riuscirete: nonostante la nostra volontà (l’Io), in quei trenta secondi si intrufoleranno altri pensieri e altre immagini.

Che significa? Che l’Io non domina nulla, ma è dominato dalla mente. È la mente che produce immagini, pensieri, ecc., e l’Io è un semplice spettatore di tutto questo. È proprio vero, allora: ‘l’Io è un altro (e non ‘Io sono un altro’, se no si resterebbe nell’ambito degli Io). Qualche rigo da cui scaturiscono trattati e studi di ampia portata, illuminazioni davvero di un veggente.

Daniele Giancane