Nato da una borsa di ricerca messa a disposizione dalla Regione Puglia (una misura prevista dall’iniziativa “Ritorno al futuro: il contratto etico con i giovani”), col partenariato di Alvisio Editore e dell’insegnamento di Sociologia della letteratura dell’Università di Bari, questo saggio vede la luce quasi sette anni dopo la sua conclusione, con l’auspicio di riportare all’attenzione degli studiosi di poesia italiana una ricerca che all’epoca della sua elaborazione era stata accompagnata da una grande passione.

Essa era scaturita da una sorta di ‘colpo di fulmine’ o, per meglio dire, dall’incontro fortunato fra due intelligenze appassionate (forse padre Dante le avrebbe chiamate ‘intelletti d’amore’): quella di una delle più fulgide poetesse della sua generazione, Anna Santoliquido, e quella della giovane ricercatrice che aveva vinto quel finanziamento, Licia Grillo.

Se l’obiettivo era quello di contribuire in maniera originale ed extra-ideologica al fiorente sviluppo attuale dei gender studio, con particolare riferimento al contesto regionale pugliese (o apulo-lucano, bisognerebbe dire in questo caso), la lente di Licia Grillo non poteva non orientarsi proprio sulla poetessa barese d’adozione (lei, però, preferirebbe essere indicata come ‘poeta’, ma declinata al femminile: ‘una poetessa’).

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Santoliquido, infatti, ormai da molti decenni affianca alla scrittura (attività statutariamente individuale e, dunque, a elevato rischio narcisistico) l’impegno militante, attraverso un vivacissimo movimento internazionale da lei stesso fondato e presieduto (Donne e Poesia), il Sindacato Nazionale Scrittori, il PEN Club Italia e la rivista La Vallisa (la più ‘movimentistica’ fra quelle pugliesi), senza dimenticare l’ormai conclusa attività didattica, essa stessa vissuta con lo slancio di un fante in trincea.

La ricerca di Licia Grillo partì proprio dallo studio degli atti dei numerosi convegni promossi da Santoliquido, con un interesse che dapprima era per la studiosa perlopiù sociologico, ma che poi fu attratto dalla magia dei versi della poetessa nativa di Forenza e infine è esitato in questo saggio di critica letteraria, per così dire, ‘classica’, condotto con sincera adesione e, a tratti, con qualche proiezione autobiografica: la studiosa si riflette nella sua autrice e cerca, nel quasi leggendario connubio di pacatezza e attivismo che la connota, un exemplum per reagire alle proprie fragilità.

La lettura anche empatica che la studiosa propone in queste pagine si combina con una freschezza di scrittura, che è il sintomo dell’entusiasmo con cui ella si muoveva allora alla scoperta della buona poesia contemporanea, nondimeno posta a confronto con grandissimi autori del passato: Orazio, Dante, Foscolo, Quasimodo, forse anche Baudelaire.

È precisamente il ricordo di quel doppio felice incontro – umano e letterario – che si vuol salvaguardare con questa edizione, apparentemente un po’ tardiva, giacché nel frattempo sono usciti, soprattutto grazie all’impegno critico di Francesca Amendola, alcuni utilissimi libri su Anna Santoliquido.

Tuttavia, il saggio di Grillo è non meno prezioso per gli studiosi, poiché vi emergono chiaramente le tre vocazioni compresenti in tutta l’opera della poetessa, intrecciate in maniera pressoché indissolubile, ancorché riconoscibili come fili autonomi e di diversa cromia. La prima vocazione, quella che traspare immediatamente nella prima raccolta, I figli della terra (1981), riguarda la tradizione (neo)meridionalistica, il lamento o piuttosto il grido di denuncia dei soprusi cui troppo a lungo sono stati sottoposti i ‘cafoni’ del Mezzogiorno e, accanto ad essi o più di essi, le loro donne, silenti o silenziate testimoni di violenze, povertà, segregazioni. Santoliquido cerca subito una sua personale declinazione, tenendo ben d’occhio, tuttavia, una linea letteraria di cui ella era ben consapevole sin dalla giovinezza e che aveva in Tommaso Fiore, Rocco Scotellaro, Carlo Levi, Ignazio Silone e Albino Pierro i punti di riferimento più monumentali e, perciò, ineludibili. Una tradizione verso la quale forse oggi si potrebbe nutrire un sospetto di populismo (uno spettro che agitava anche Scrittori e popolo, un celebre libro di Alberto Asor Rosa del 1965), se non fosse che l’autenticità dei sentimenti e la realtà dell’esperienza registrata nelle pagine di quegli autori e di chi vi si ispirò in seguito non possono essere messe in dubbio. E quando all’elegia, alla nostalgia, al sentimentalismo si accompagna anche l’azione sociale, com’è accaduto ad Anna Santoliquido, la letteratura è in grado di dare il meglio di sé.

A. SANTOLIQUIDO, I figli della terra, Giuseppe Laterza Edizioni 1981

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E così, a questo primo filo ‘meridionalistico’ comincia a intrecciarsene un secondo, quello della scrittura civile, che si è nutrita, soprattutto in Bucarest (2001) e in Città fucilata (2010), della prolungata frequentazione di persone e luoghi dell’Europa dell’Est.

Al Mezzogiorno dei diseredati subentrano qui i popoli che il Novecento ha tormentato con una sequela ininterrotta di occupazioni, guerre, tirannie. Lucidamente, Licia Grillo mette in evidenza, a proposito del poemetto di ambientazione rumena (composto nel cuore del lungo processo che ha condotto quella nazione dalla dittatura di Ceauşescu all’ingresso nell’Unione Europea), l’immaginario biblico che in parte vi è sotteso, poiché la rinascita politica di quel popolo scaturisce da una precedente dolorosa agonia, così come la vita del Creato non può escludere gli spasimi della morte e la rinascita battesimale presuppone l’annegamento nell’acqua lustrale.

E qui si innesta il terzo e ultimo fra i fili della poesia di Santoliquido che emergono in questo saggio: mi riferisco alla componente religiosa, che oscilla fra il naturalismo creaturale e certe astrazioni metafisiche, come dire fra i modelli di Bertocchi e di Ungaretti, tenuti in equilibrio, per esempio, nella raccolta Nei veli di settembre, del 1996. Qui è soprattutto l’archetipo della madre a divenire un complesso semantico in cui la concretezza dell’autobiografia (ovvero la relazione fra l’autrice e suo figlio) si espande continuamente verso zone mitiche, in forza di un linguaggio che non racconta, ma tende all’essenziale, all’annullamento della vita biologica nella totalità divina, «dando forma – scrive Grillo – a uno scenario universale e denso di presenze, esplicite e taciute».

Per tale via la poetessa riesce a scrivere non poesie sulla maternità, bensì a fare della poesia una diversa forma di maternità, uno stato extra-ordinario, in cui è possibile ‘adottare’ come figli tutti gli elementi fragili dell’universo naturale e storico. Quel canto popolare delle origini, che tanto spesso riecheggiava del pianto delle prefiche e della morte rinnovata e riattualizzata nei loro lamenti, si è progressivamente trasformato in un canto sublime, che cerca la sacertà non attraverso la ripetizione del rito, ma attraverso la straordinarietà irripetibile di un contatto col divino. Quell’immane incontro, forse esso sì ‘colpo di fulmine’, di cui i più minuti incontri umani possono talvolta essere premonizione.

Daniele Maria Pegorari