A dispetto della sua occorrenza all’interno dell’intricata trama dell’Orlando Furioso, certamente meno frequente rispetto a quella di personaggi femminili più noti, come Bradamante o Angelica, l’audace guerriera Marfisa incarna senza ombra di dubbio il perno principale attorno a cui ruota l’elogio delle donne che Ariosto inserisce all’interno della sua opera, divenendo pertanto il modello di quell’emancipazione femminile che già cominciava a farsi strada nel Rinascimento.

Proprio perché dotata di un temperamento e di connotati particolari, che hanno fatto di lei un modello di ardente e quanto mai insolita femminilità per la società rinascimentale (e non solo), non sorprende che Marfisa abbia riscosso una notevole fortuna in ambito letterario, specialmente nel panorama della tradizione letteraria italiana.

La prima opera che ci si propone di prendere in esame è intitolata Dell’Amor di Marfisa e fu pubblicata, seppur incompleta, da Danese Cataneo nel 1562, cioè appena trent’anni dopo la pubblicazione dell’edizione definitiva dell’Orlando Furioso.

Nata, come sottolinea lo studioso Artico Tancredi, dalla volontà dell’autore di operare una sorta di conciliazione tra la materia ariostesca e quella epica1, l’opera di Cataneo rappresenterebbe, pertanto, una spia del processo di riappropriazione delle storie dei paladini dal punto di vista della religione cristiana e si presenta come un poema eroico d’eccellenza, proprio in virtù del fatto che esso trae il suo argomento cardine dalla storia cristiana2.

Dal punto di vista dello studioso, ciò che rende l’Amor di Marfisa di Cataneo un’opera ben riuscita è il fatto che il terreno della produzione epica era così fertile e ancora poco conosciuto, che rendeva possibili esperimenti letterari di vario genere.

Uno degli elementi portanti che attraversano l’opera di Cataneo è quello religioso, come sottolinea Ilaria Marinelli, che dedica la sua tesi di dottorato, dal titolo La Gerusalemme Conquistata e i poemi del secondo Cinquecento, allo studio dei legami contenutistici e formali che uniscono il capolavoro tassiano ad alcuni poemi post-ariosteschi3.

L’analisi della Marinelli sul poema di Cataneo verte in particolar modo sulla rappresentazione dei sacramenti che, come sottolinea la studiosa, era stata svalutata dal Catechismo romano, dato alla luce nel 1566, all’indomani del Concilio di Trento. Uno dei sacramenti immancabilmente presenti all’interno dei poemi, a partire da quelli omerici, e inestricabilmente legato al tema dell’amore e delle armi, è il matrimonio.

Come precisa la studiosa, se nel genere cavalleresco il matrimonio rappresenta lo snodo risolutivo della vicenda, perché permette il ricongiungimento degli amanti e, in alcuni casi, come quello del Furioso, è funzionale anche al motivo encomiastico (i due coniugi Ruggero e Bradamante danno origine, con la loro unione, alla dinastia degli Estensi, che Ariosto intende omaggiare attraverso la sua opera), nei poemi postariosteschi, invece, il sacramento del matrimonio diviene strumento privilegiato per il fine didattico-morale che l’autore intende perseguire, in quanto esso rende sacro l’amore, cancellando gli eccessi passionali tipici della tradizione cavalleresca.

Il quinto canto dell’opera di Cataneo è interamente dedicato al tema del matrimonio; il contesto che ne fornisce l’ambientazione è quello in cui l’imperatore Carlo dona al re di Svezia e al re di Norvegia, che intendono battersi per ottenere la mano della principessa di Islanda, due anelli d’oro, affinché essi possano usarli come fedi nuziali.

A questo punto comincia il sofferto monologo di Marfisa che, pur essendo innamorata di Guidone, è fortemente combattuta sul da farsi. Da questo punto di vista, la nuova Marfisa, inizialmente titubante, subisce un cambiamento rispetto a quella della tradizione; infatti, uno dei connotati principali che l’Ariosto attribuisce alla virago nel momento della sua prima apparizione all’interno del poema non è lo status di regina (su cui Boiardo invece fa leva), bensì quello di vergine, caratteristica che fa pensare a quanto il poeta, nella realizzazione del personaggio, abbia attinto a fonti tanto letterarie, quanto storiche e mitologiche.

Nel panorama della mitologia classica, infatti, la dea Diana e le sue virtuose guerriere erano obbligate a mantenere inviolato il voto di castità, che pronunciavano prima di mettersi alla sequela della dea. La Marfisa di Cataneo, se da un lato vorrebbe sposare Guidone, con la consapevolezza che tale unione non solo verrebbe approvata ben volentieri da tutta la sua famiglia, ma inoltre porrebbe fine ai suoi tormenti interiori, è tuttavia consapevole che il matrimonio implicherebbe per lei la rinuncia al valore della castità, che aveva perseguito fin da piccola, nonché alla possibilità di scendere in battaglia e impartire ordini; infatti, non appena sposata, ella avrebbe dovuto obbedire solamente agli ordini del marito.

Sapendo, dunque, di dover rinunciare tanto alla propria libertà, quanto alla vocazione di diventare una vergine guerriera, il cui progetto di vita fosse quello di combattere e conquistare regni, la donna, ricongiungendosi al modello di virago tradizionale, conclude di non potersi unire all’uomo; infatti, nell’explicit del canto, intervengono dieci fanciulle, guerriere dell’isola di Alessandretta per incoronare Marfisa loro indiscussa regina.

Se è vero, dunque, che la Marfisa di Cataneo assume connotati diversi rispetto alla virago ariostesca, (ella, infatti, cede all’amore nei confronti di Guidone Selvaggio) è opportuno notare che l’autore, a conclusione dell’opera, non se la sente di distaccarsi troppo dalla tradizione e, pertanto, fa in modo che Marfisa pervenga alla conclusione di non rinunciare mai alla propria castità, che costituisce per la virgo di memoria cavalleresca un motivo di vanto, e di continuare così la propria missione di vergine combattente.

La seconda opera che merita di essere annoverata tra i poemi postariosteschi che hanno decretato la fortuna del personaggio di Marfisa è la Marfisa Bizzarra, scritta e pubblicata da Carlo Gozzi nel 1772. Come afferma Marta Vanore all’interno della sua tesi di dottorato4, dedicata all’analisi approfondita dell’opera gozziana, quest’ultima è guidata dall’intento di unire la tradizione letteraria con la critica dei costumi dell’epoca, piegando quindi il mondo cavalleresco a un intento satirico5.

Come sottolinea Vanore, l’opera godette di pareri contrastanti tra i vari critici che se ne occuparono nel corso dei secoli; per esempio, De Sanctis, nelle lezioni di Zurigo, riconosceva a Gozzi il merito di una «concezione originale e magnifica»6 dell’opera, a cui tuttavia non corrispondeva il medesimo pregio d’esecuzione. Infatti, poiché Gozzi si era limitato a ritrarre esclusivamente la sua piccola società veneziana, l’opera risultava essere nient’altro che l’abbozzo di un poema epico vero e proprio.

Dal canto suo, Walter Binni, come precisa la studiosa, riconobbe l’impianto satirico del poema gozziano, che tuttavia mancava di «una salda struttura concreta di vicenda poetica e di un’adeguata puntuale sicurezza stilistica»7; Mario Fubini, infine, sosteneva che dell’opera gozziana restasse impressa non tanto la vicenda dei personaggi, quanto «i singoli ritratti e i singoli quadri di una galleria di grotteschi»8.

Concordando con il parere dei critici sopracitati, Vanore sostiene che la natura satirica che caratterizza l’opera gozziana rischia di ridurre la descrizione della società contemporanea a un mero stuolo di difetti umani; infatti, la voce dell’autore non risparmia alcuno strato della società veneziana, prendendo di mira tutti indistintamente, dal potere dogale a quello dei nobili, dal clero alla nuova borghesia improntata al commercio, dagli abitanti della campagna al ceto intellettuale dell’epoca.

Una volta assodata la natura satirico-sociale della Marfisa Bizzarra, Vanore passa ad analizzare le caratteristiche strutturali del poema; la narrazione della vicenda, suddivisa in canti come da tradizione, subisce una battuta d’arresto nel momento in cui Marfisa parte alla ricerca di un usignolo, reo, a suo dire, di aver infranto il suo sogno d’amore destandola dal sonno.

Come sottolinea la studiosa, infatti, Gozzi si rifà, nella stesura del poema, all’opera omonima di Dragoncino da Fano; tuttavia, se in quest’ultima la follia di Marfisa è causata dall’amore nei confronti di Filinoro, nell’opera gozziana essa si presenta come un atteggiamento culturale, che coglie Marfisa ogni qual volta legga un libro “alla moda”, che il più delle volte le ricorda di non poter realizzare ciò che desidera. Dopo aver illustrato, in apertura del poema, il mondo degradato dei paladini di Carlo Magno, specchio della corrotta società veneziana dell’epoca, all’interno del quale l’autore muove le fila del racconto, Gozzi si sofferma per ben tre strofe sulla descrizione di Marfisa, dapprima da un punto di vista caratteriale e poi fisico.

Gozzi ci offre l’immagine di una fanciulla totalmente diversa da quella che combatteva tra le pagine del Boiardo e dell’Ariosto; ella, infatti, come sottolinea l’autore all’altezza del secondo canto, «era un cervello suscettibile; […] era più furiosa e più bizzarra»9. Dopo aver brevemente sintetizzato il carattere di Marfisa, all’altezza della ventiquattresima strofa, Gozzi si dilunga maggiormente sulle caratteristiche fisiche della virgo, anche stavolta totalmente opposte a quelle narrate dai suoi predecessori:

24.
E benché dal Boiardo fu descritta
moretta alquanto e bella oltremisura,
io l’ho veduta su un quadro pitta
e la trovai differente in figura.
Occhio avea grande, d’imbusto dritta
era, e non alta molto di statura,
e pochissima carne avea sull’ossa,
la chioma bionda, anzi potrei dir rossa.
[…]

26.
Niente è vero ch’ella fosse bruna,
anzi bianca e un po’ lentiginosa;
nel seno non avea molta fortuna,
ma fu in accomodarlo artifiziosa;
la bocca a fare un ghignetto opportuna,
la guardatura or dolce or dispettosa;
le braccia, indi le mani alquanto asciutte,
ma co’ brillanti non parevan brutte10

Al contrario di Gozzi, tanto il Boiardo quanto l’Ariosto non dimenticano di sottolineare a più riprese la rara bellezza di Marfisa; infatti, nell’Innamorato, l’autore indugia sulla descrizione fisica di Marfisa, paragonando il suo splendore a quello degli astri: «rivolto al capo avea le chiome bionde, / e gli occhi vivi assai più ch’una stella: / a sua beltate ogni cosa risponde»11.

Allo stesso tempo, una delle caratteristiche più spiccate che l’Ariosto concede a Marfisa, diversamente dalla virago di Boiardo e da quella di Gozzi, è la cortesia; infatti, non appena incontra Astolfo e Sansonetto, li riconosce come due prodi cavalieri, tanto che si prepara subito a sfidarli muovendo il suo destriero all’attacco.

Tuttavia, rivolgendo loro uno sguardo più attento, la donna si rende conto di aver già incontrato i due cavalieri, durante l’assedio della rocca di Albracca. Non appena Marfisa realizza di conoscere i due cavalieri, «de la piacevolezza le sovenne12», scrive l’Ariosto; la virgo si mostra felice di aver ritrovato i due paladini, al punto che, assumendo un atteggiamento tipicamente cortese, li chiama per nome, si toglie il guanto, alza la visiera e corre ad abbracciarli.

La gentilezza che connota la personalità della Marfisa ariostesca è ben lungi dalla ferocia che invece si presenta come tratto costante nella Marfisa di Boiardo, nonostante Pio Rajna lo considerasse un punto di debolezza del personaggio del Furioso.

Tornando a Gozzi, l’autore, in accordo con l’intento principale della sua opera, fa di Marfisa uno dei personaggi che, all’interno della società veneziana, sono il suo principale bersaglio; egli, infatti, dà vita a una declinazione del tutto innovativa rispetto al ritratto delineato nei poemi cinquecenteschi, presentandola come una grottesca caricatura di sé. Addirittura, la bizzarria e il carattere superficiale della Marfisa gozziana avevano fatto in modo, come precisa l’autore all’interno del secondo canto, che la donna fosse rifiutata da tutti gli uomini che si proponevano di sposarla. Momento di svolta all’interno del poema è rappresentato dal quarto canto, che fa da sfondo alle nozze tra Marfisa e Terigi, immediatamente chiacchierate nei vari salotti della società veneziana.

Come sottolinea Vanore, tuttavia, la vicenda si complica quando, all’altezza del quinto canto, la virgo si innamora perdutamente del giovane Filinoro; vinta dal furore causatole dall’impossibilità di realizzare il suo sogno d’amore con il giovane cavaliere, Marfisa comincia a essere screditata dalla società, al punto che il fratello Ruggiero e la cognata Bradamante, con il sostegno di don Guottibossi, fanno rinchiudere la donna all’interno del monastero fondato dalla vedova Fiordiligi.

Tuttavia, cinque canti più tardi, Marfisa torna a rivestire i panni dell’impavida guerriera della tradizione; infatti, aiutata da Ippalca, decide di mettere su un piano di fuga dal convento, che potrà essere realizzato solo travestendosi da uomo e ponendo all’interno della sua cella una ragazza identica a lei. L’amore di Marfisa nei confronti di Filinoro si tinge di furor ancor di più quando la virgo giunge in Spagna e coglie il suo amato in compagnia di un’altra donna; nello stesso momento, Marfisa viene raggiunta da Ruggiero, che si era messo alla sua ricerca con gli altri paladini, e viene riportata a casa.

A conclusione del poema, Gozzi rivolge un accorato appello al lettore, affermando di attendere dal pubblico «il plauso o la vergogna»13; come sottolinea giustamente Vanore, la falsa modestia di cui Gozzi si ammanta sul finale dell’opera si differenzia da quella con cui egli aveva dato inizio al poema dove, al contrario di quel che accade nell’explicit, affermava di attendere solo fischi e vergogna da parte dei lettori14.

Alla luce di quanto detto, si può concludere che Marfisa possa senza dubbio essere annoverata tra le prime donne guerriere bona fide di cui la letteratura occidentale dà testimonianza: la sua natura di guerriera non si traduce solamente in una mascherata temporanea, in quanto l’eroina non ha altre ragioni per indossare un’armatura se non quella che risponde all’esigenza intrinseca di mostrarsi al mondo così come ella sente di essere.

Fondamentale per l’influenza che questo personaggio potrebbe aver esercitato su delicati temi sociali, come l’emancipazione femminile nel corso dell’età post-moderna e contemporanea, è il fatto che Marfisa non soccombe mai al dominio maschile: infatti, sino alla fine del poema non solo resta in vita, ma inoltre non si vincola ad alcun uomo tramite una promessa di matrimonio, divenendo così emblema della posizione liberale che l’Ariosto assume rispetto alla ben nota querelle des femmes.

A sostegno di quanto detto, perciò, è possibile ipotizzare che l’audace virgo militans ariostesca, per le ragioni precedentemente espresse, possa aver contribuito alla crescente popolarità dei ruoli femminili indipendenti all’interno del vasto panorama della letteratura moderna e contemporanea.

Aurora Gaia Di Cosmo


3I. Marinelli, La Gerusalemme Conquistata e i poemi del secondo Cinquecento, tesi di dottorato, Roma 2013, pp. 1-305.

4Il titolo della tesi è Carlo Gozzi, la Marfisa Bizzarra: edizione critica e storia del testo. L’autrice ha anche curato l’edizione dell’opera per l’editore Marsilio (C. Gozzi, La Marfisa bizzarra, a cura di M. Vanore, introduzione di P. Vescovo, Marsilio Venezia 2015).

5M. Vanore, Carlo Gozzi, la Marfisa Bizzarra: edizione critica e storia del testo, tesi di dottorato, Venezia 2009, pp. 1-322

6Cfr Ead., Carlo Gozzi, la Marfisa Bizzarra: edizione critica e storia del testo, cit., p.10.

7Ivi, p. 11.

8Ibidem.

9C. Gozzi, Marfisa Bizzarra, ed. Laterza, Bari 1911, canto II, 5

10Ivi, canto II, 24,26.

11M. M. BOIARDO, Orlando Innamorato, a cura di Riccardo Buscagli, ed. Einaudi, Torino 1995, libro I, canto XXVII, 59.

12L. ARIOSTO, Orlando Furioso, a cura di Giuliano Innamorati, ed. Feltrinelli, Milano 2016, canto XVIII, 101.ù

13GOZZI, Marfisa Bizzarra, cit., canto XII, 157.

14VANORE, Carlo Gozzi, la Marfisa Bizzarra: edizione critica e storia del testo, cit., p. 206.