Passione civile, ironia, tensione etica e ricerca.

Marco Ignazio de Santis


Poeta, narratore, giornalista, dialettologo, linguista, saggista, critico e storico, l’artista pugliese si racconta nell’intervista di Pasquale Matrone.

Nato a Molfetta (Bari) nel 1951, Marco Ignazio de Santis è poeta, narratore, critico letterario, saggista e giornalista pubblicista. Ha pubblicato in versi: Uomini di sempre (Manduria 1984), Libro mastro (Bari 1991), Jesen u srcu (L’autunno nel cuore, Belgrado 1992); Lettere dagli argonauti (Bari 2007), Dal santuario (Arezzo 2014), Ritorno di fiamma. Poesie umoristiche e satiriche (Torino 2016) e Në kërkim të bashkës së artë (Alla ricerca del vello d’oro, Saranda 2017); in prosa: «Vaghe stelle» e altri racconti (Torino 2012).

Ha collaborato con i quotidiani “Giornale di Brescia”, “Prealpina” di Varese, “Quotidiano” di Lecce, “Politika” di Belgrado, “Gazzetta di Mantova”, “Gazzetta di Parma”, “L’Arena” di Verona, “Il Dovere” di Bellinzona, “L’Eco di Bergamo”, “La Provincia” di Cremona, “Corriere del Ticino”, “Libertà” di Piacenza, “La Sicilia” di Catania, “Messaggero Veneto” di Udine, ecc. Nel settembre-ottobre del 2006 ha partecipato, come autore italiano invitato, al 43° International Meeting of Writers di Belgrado. Suoi articoli, racconti e poesie sono stati tradotti in serbo, croato, spagnolo, albanese, sloveno, francese, inglese, latino, polacco e russo. Redattore de “La Vallisa”, ha collaborato con le riviste “Alfabeta”, “Misure critiche”, “La Nuova Tribuna Letteraria”, “Vernice”, “Rivista italiana di letteratura dialettale” e “Risorgimento e Mezzogiorno”. Ha diretto le riviste “Studi Molfettesi” e “Report”.

Ha pubblicato, infine, saggi storici: Un amico di Garibaldi: Eliodoro Spech, cantante, patriota e soldato (Molfetta, 2011); W Salvemini. Le elezioni politiche del 1913 nei collegi di Molfetta e Bitonto (Roma 2013) e Salvemini, d’Annunzio, Pascoli, Prezzolini & C. Personaggi e vicende dell’Italia del primo ’900 (Arezzo 2019) e saggi critici: Periferia centrale (Bari 1990), La poesia in Puglia (Forlì 1994, con D. Giancane), Puglia: una poesia di frontiera (in Vertenza Sud, Nardò 2001), La luce del mondo (Chieti 2012), «È una scimmia pazza la mente». L’universo poetico di Daniele Giancane (Chieti 2019) e La poesia degli «istanti puri» di Ada de Judicibus Lisena (Chieti 2019).

Che cos’è la poesia? Quando e perché le parole diventano versi?

«La poesia è intuizione profonda dell’esistenza umana e dell’universo, ricerca di bellezza e di autenticità, espressione della condizione di inattualità, spaesamento e marginalizzazione dello scrittore contemporaneo. Quando poi, per un sentimento dominante, per un’intensa emozione o per una fulminea intuizione, il flusso dei concetti si fa incontenibile nella mente del poeta, si trasforma in ritmo interiore che diventa scansione articolata in versi, possibilmente liberi».

Quali sono gli strumenti indispensabili per trasformare il pensiero in musica?

«Edgar Allan Poe, che ha scritto saggi teorici sulla versificazione, ha definito la poesia “creazione ritmica di bellezza”. Rifiutando i vecchi concetti romantici di ispirazione e spontaneità creativa, ha sostenuto che è possibile montare il testo letterario, anche poetico, pezzo per pezzo. Ma per fare questo, aggiungerei che bisogna essere padroni della tecnica compositiva, avere il senso del ritmo e del posizionamento delle parole e possedere un buon “orecchio”. In chi è predisposto, l’orecchio poetico si conquista leggendo e rileggendo poeti “musicali” come Petrarca, Tasso, Metastasio, Leopardi, Verlaine, Baudelaire, Montale o il salentino Girolamo Comi».

Quale ruolo hanno l’ironia e la satira nella sua produzione artistica?

«L’ironia è l’altra faccia della malinconia. Finora ho pubblicato sette raccolte poetiche, di cui una in Serbia e una in Albania. Una silloge ho voluto dedicarla esclusivamente alle poesie umoristiche e satiriche disperse in riviste e antologie varie, anche estere, aggiungendo per l’occasione alcuni inediti. Si tratta di Ritorno di fiamma, data alle stampe nel 2016 da Genesi di Torino. Con quella raccolta mi sono divertito molto a prendermi in giro, ma mi sono anche permesso di irridere iconoclasticamente mostri sacri come Montale, che tuttavia prima ho citato col massimo rispetto.

A me stesso ho destinato, ad esempio, la poesiola Per gioco ma non troppo, che dice: “Mi chiese / una volta / un amico: / – Ma tu, sei / un poeta? – / – Un po’ eta / e un po’ epsilon – / gli risposi”. A Montale ho dedicato il Canarino esistenzialista, che recita: “Giornalmente un canarino / rosicchiava Ossi di seppia / e mandava nel pancino / pur la lisca della cheppia. / Ma successe il parapiglia / con i cocci di bottiglia! // Morale / Per riuscire a sopravvivere / lascia stare il mal di vivere”».

Poeta, narratore, giornalista, dialettologo, linguista, saggista, critico, storico… Si è cimentato nei vari ambiti. Perché? In quale di essi sente di essersi espresso meglio? Qual è stato, a suo avviso, quello a lei più congeniale?

«Sono nato come poeta e narratore. Poi ho dovuto affiancare all’attività creativa quella di critico letterario, perché la militanza in alcune riviste mi ha spinto a supportare per amicizia o per ammirazione poetesse o poeti stranieri, come i serbi Desanka Maksimović e Dragan Mraović o la polacca Ewa Lipska, e italiani, come Paolo Ruffilli, Daniele Giancane e Ada de Judicibus Lisena. In più l’attività di pubblicista mi ha permesso di allargare lo sguardo e rivolgermi con articoli di “terza pagina”, dedicati a grandi scrittori, pittori, scienziati, artisti cinematografici e personaggi storici, a lettori di molti quotidiani nazionali e della Svizzera italiana. La linguistica e la dialettologia mi hanno consentito di arricchire la mia formazione culturale, ma naturalmente si rivolgono a un pubblico assai ristretto e specialistico. Perciò ritengo di essermi espresso più compiutamente in poesia, narrativa, critica letteraria e storiografia.

La statura morale e intellettuale di un maestro come Gaetano Salvemini mi ha spinto, poi, a indagare a tappeto sulle elezioni politiche del 1913 nei collegi di Molfetta e Bitonto, che videro contrapporsi lo storico pugliese come candidato e molto più in alto, come presidente del Consiglio, Giolitti, da lui bollato come il “ministro della mala vita”, già nel 1910. Si trattava di un lavoro assai indaginoso e impegnativo, che lo stesso Salvemini iniziò con criteri di imparzialità, anche per le precedenti elezioni giolittiane, con la collaborazione dello storico triestino Elio Apih, senza riuscire a terminarlo. È poi toccato a me realizzare quella ricerca sul 1913 con la monografia intitolata W Salvemini, pubblicata da Aracne nel primo centenario di quelle epiche elezioni. In definitiva, accanto alla poesia, alla narrativa e alla critica letteraria, senza dubbio il ruolo a me più congeniale è quello di storico».

Ho trovato incisivo, interessante e ben documentato, il suo saggio Salvemini, D’Annunzio, Pascoli, Prezzolini & C. Perché ha scelto proprio questi personaggi per raccontare l’Italia del primo ’900?

«Pascoli e d’Annunzio sono stelle di primaria grandezza nella letteratura italiana, che hanno improntato di sé il primo Novecento. Mi interessava molto indagare il rapporto tra Pascoli e Salvemini, che iniziò nel 1901 all’Università di Messina, dove il primo insegnava letteratura latina e il secondo storia moderna. Il rapporto, all’inizio molto cordiale, naufragò nel 1911 in occasione della guerra di Libia, perché Pascoli si schierò per l’intervento e Salvemini invece fu tra i pochi che si opposero a quell’improduttiva aggressione colonialistica.

Riguardo a d’Annunzio, va detto che Salvemini divenne sempre più critico nei riguardi del “poeta-soldato” in quanto precursore del fascismo, soprattutto per la marcia su Fiume, che fu il modello per la marcia su Roma. Quanto a Prezzolini, va detto che, con la direzione della rivista La Voce, fu al crocevia dei rapporti culturali e politici fra lui, Ardengo Soffici, Giovanni Amendola, Giovanni Papini, lacerbiani, futuristi e lo stesso Salvemini».

Il ruolo dell’intellettuale nel Sud della nostra penisola e nel Sud del mondo…

«Se ci fermiamo alla poesia, alla narrativa e alla critica letteraria, la latitudine geografica non ha senso, perché la letteratura e l’arte non hanno confini. Si scrive per sé e per gli altri, anche se la scrittura poetica è un esercizio aristocratico condiviso o recepito da pochi. Le cose cambiano con la politica e il giornalismo, che permettono di rivolgersi a più persone e incidere con maggiore efficacia sul proprio milieu. L’intellettuale nell’Italia del Sud deve mettersi sulla scia di meridionalisti come Gaetano Salvemini e Tommaso Fiore, perfezionarsi in alcuni settori specifici e offrire, con generosità, le proprie risorse. In questa direzione, per esempio, si spiegano i miei contributi storiografici a una rivista come Risorgimento e Mezzogiorno.

Il ruolo dell’intellettuale nel Sud del mondo, poi, presuppone una grande competenza, perché bisogna addentrarsi nelle ardue problematiche del sottosviluppo, del neocolonialismo, dei cambiamenti climatici, dell’emigrazione di massa, del neoliberismo e delle oligarchie finanziarie a livello globale. Un mio piccolissimo contributo, in tal senso, è dato dalla poesia Dal santuario, che apre l’omonima raccolta uscita nel 2014 nelle edizioni Helicon di Arezzo».

Editoria piccola e grande, tra luci e ombre…

«La grande editoria unipadronale da un lato è stata soppiantata dai gruppi editoriali, che inseguono le mode, le “grandi firme” e la “visibilità” di certi personaggi; dall’altro è stata fagocitata dalla megaeditoria, espressione di imprese multimediali che concentrano sotto un solo marchio finanziario sia prodotti editoriali, come libri, quotidiani e riviste, sia reti televisive nazionali e plurinazionali, sia prodotti cinematografici. La piccola editoria consente ad autori più o meno sconosciuti di pubblicare testi a volte anche pregevoli, ma non può permettersi le spese per una capillare distribuzione dei suoi libri. Essa, dunque, sopravvive solo chiedendo agli autori l’acquisto di un congruo numero di copie».

Nella sua lirica intitolata Gli ultimi scrive: Ora non serve più / la tenera prole dei versi. / È parso vano / deragliare dalla norma, / è stato vano / scardinare gli innesti. // Lenta, inesorabile, / la marea ci sospinge / verso la plaga degl’ìnferi, / verso una landa di nessuno, / dove gli ultimi non / saranno mai i primi, / ma soltanto gli ultimi, / i perdenti.
C’è tanta amarezza nelle sue parole. Perché?

«Anche il poeta spagnolo José Maria Micó rimase colpito da quella poesia, in un reading tenuto a Molfetta. Ciò che mi atterrisce è lo smodato egoismo di ristrette oligarchie finanziarie che, in nome del profitto, calpestano la democrazia e governano la new economy indifferenti al futuro dei giovani, al degrado ambientale e climatico e alla fame a cui sono condannati interi popoli. Certamente il capovolgimento del noto precetto evangelico è provocatorio, ma l’osservazione dei fatti della vita e del mondo ci mette spesso sotto gli occhi una realtà durissima, quella dei reietti, nei confronti dei quali spesso siamo indifferenti o impotenti, se non ci soccorre lo spirito di carità di profeti e benefattori come don Tonino Bello, il vescovo di Molfetta proclamato servo di Dio. La poesia è anche ricerca di autenticità, perciò ho preferito scrivere versi amarissimi».

Qual è la funzione della critica letteraria?

«La critica deve mettersi al servizio della scrittura. Compito del critico è interpretare e illustrare il mondo artistico, spirituale e umano degli autori. Come ho scritto nel mio libro Periferia centrale, il critico letterario deve sforzarsi di pervenire a una lettura “interna” dell’opera, individuando le ragioni peculiari degli autori. Deve esserci nei testi critici una forte attenzione al filo conduttore e un uso assiduo delle citazioni. Un impiego adeguato delle citazioni consente di dotare il lettore dell’indispensabile documentazione poetica, narrativa, retorica e filologica, mediante la quale l’autore parla in prima persona».

Pasquale Martone
(da «La Nuova Tribuna Letteraria», a. XXIX, n. 136, 4° trimestre 2019, pp. 40-41)