da La Gazzetta del Mezzogiorno del 16 gennaio 2016

Il 17 gennaio è stata proclamata dall’Unpli (Unione nazionale Pro Loco italiano) «Giornata dei dialetti e delle lingue locali». L’iniziativa ha lo scopo di valorizzare le parlate locali, riflettere sulla loro importanza ai fini del recupero di una identità forte, mettere a punto strategie per la salvaguardia dei dialetti.

Ora, certamente il dialetto è stato (ed è) fondamentale nella storia linguistica d’Italia: sin dal prevalere del «dialetto» toscano assurto poi a lingua nazionale, il dialetto è stato parte integrante e imprescindibile della nostra cultura. A parte il fatto che il «tesoro» della cultura popolare (fiabe, indovinelli, filastrocche, soprannomi) si è espresso sempre nel codice dialettale (lo stesso «Pentamerone» del Basile, ovvero “Lo cunti de li cunti” fu scritto in dialetto napoletano e poi tradotto in lingua italiana da Benedetto Croce), non si comprenderebbe appieno la storia della nostra nazione senza gli apporti dei dialetti.

La nostra letteratura sarebbe assai più povera senza gli apporti di Porta e Tessa, Meli e Marin, Buttitta e Trilussa, Belli e lo stesso Eduardo De Filippo. Si può certamente discutere se il dialetto utilizzato da Eduardo o dallo stesso Totò in «‘A livella» sia davvero dialetto o una sorta di dialetto/italiano, di coloritura dialettale, di inflessione più che codice dialettale vero e proprio e se Gilberto Govi recitasse davvero in genovese stretto o concedesse molto ad una «italianizzazione» della parola (per un’esigenza di maggiore comprensione, naturalmente, ben oltre i confini della Liguria), ma certo è che il dialetto fa parte di noi italiani, ci connota come tali (in tante nazioni esistono dei «gerghi» locali, ma non veri e propri dialetti).

Poi vennero l’Unità d’Italia con la progressiva riduzione della parlata dialettale e il fascismo che guardava al dialetto come fumo negli occhi, fattore di disgregazione dell’italianità. E vennero soprattutto le nuove tecnologie (la televisione in primis) a imporre un italiano standard e «neutrale», freddo rispetto al «colore» del dialetto, che è assai più immediato e «carnale» (ecco perché in realtà il dialetto è intraducibile, a pena di impoverirlo con la traduzione italiana).

Già si parlava di morte dei dialetti qualche decennio or sono, ma i dialetti hanno resistito, hanno ricominciato lentamente a riprendere fiato.
La stessa poesia dialettale ha scoperto nuovi itinerari (l’antologia della poesia dialettale italiana di Franco Brevini, alcuni anni or sono, lo dimostra).

Ma siamo nell’era di Internet, di Facebook e della globalizzazione. Tutto si avvia ad essere omologo, unitario, planetario. Le differenze (linguistiche, etniche, culturali) perdono colpi rispetto ad un’antica sovrastruttura mondiale, come già Pasolini aveva avvertito con estrema sensibilità. Resisterà il dialetto? Certo è che negli ultimi anni – quasi per un sussulto di vitalità – i dialetti hanno ripreso vita nel cinema e accanto ai «classici» romano-siciliano-napoletano, si sono aperti spazi inusitati per il toscano (Nuti, Pieraccioni) e il pugliese, in specifico il barese (da Piva a Rubini, allo stesso Checco Zalone); non si tratta di recuperi in funzione anti-italiana, come potrebbe essere in certe valli bergamasche, dove il dialetto locale assume (o vorrebbe assumere) il ruolo di lingua autentica contro quella nazionale (e dove si giunge sovente all’elaborazione di documenti nei dialetti locali), ma di rivendicazioni – accanto alla lingua italiana, che è naturalmente il necessario collante di tutti noi – dell’uso e della presenza della lingua locale ovvero detta anche «lingua materna», quella della nostra verità (quando siamo arrabbiati o dobbiamo mandare al diavolo qualcuno, magari per una manovra pericolosa dell’auto, non lo facciamo certo in italiano purissimo!).

C’è chi propone l’insegnamento dei dialetti nella scuola e chi pensa concretamente che oggidì si dovrebbe – per una completezza e integrità culturale – essere trilingui (italiano, inglese, dialetto). Il grido d’allarme è lanciato: ogni quattordici giorni nel mondo scompare una lingua. Certo, si tratta di lingue che hanno pochi parlanti, ma che sono il segno di una civiltà, di idee e sentimenti che cadono nell’oblio.

È anche vero che il dialetto resiste; oltre la metà degli italiani è bilingue (italiano e dialetto), pochi – per fortuna – sono coloro che parlano solo il dialetto (non più del 9 per cento). Ricerche e scritture dialettali sono in grande auge. Per venire al nostro territorio, da parecchi anni – a parte le raccolte di fiabe e di reperti di cultura popolare – si vanno approntando vocabolari dei dialetti locali messi a punto da veri affinati specialisti: citerò fra i tanti il vocabolario di Marco I. de Santis; il vocabolario di Trinitapoli di Grazia Stella Elia; il vocabolario di Bitritto di Luigi Volpe. D’altro canto dobbiamo sfatare la convinzione che la lingua italiana conti su fonologia, sintassi, struttura del verbo eccetera, mentre il dialetto sarebbe la lingua dell’improvvisazione e della pura spontaneità: il dialetto – come ogni lingua – ha una sua precisa grammatica, delle sue regole ferree.

Anche gli studi sulla grammatica dei dialetti è un punto di riferimento obbligato per conoscere i dialetti e ancor più – se si vuole cimentarsi nella scrittura dialettale. A Bisceglie, per esempio – e dopo le ricerche di Mario Cosmai, operò Domenico Pastore che dette alle stampe alla fine dell’Ottocento (fu dunque un precursore di questi studi), un vocabolario dialettale biscegliese che è però anche uno studio sulla grammatica di quel dialetto, mentre il maestro del dialetto barese è senza dubbio alcuno Alfredo Giovine, che in diverse opere mise a punto per primo – e con grandi capacità filologiche, storiche, dialettologiche – la struttura del dialetto barese, rivelandone le regole grammaticali, la pronuncia, gli etimi, le derivazioni da altre lingue (da quella spagnola a quella francese, da quella latina a quella araba), che sono poi quelle che i conquistatori delle varie epoche storiche ci hanno lasciato in eredità. Sulla scia di Alfredo Giovine, il figlio Felice Giovine ed altri intellettuali baresi (tra cui l’attore e poeta Rino Bizzarro e Gigi De Santis, che da molti anni porta avanti coraggiosamente un «calendario» in dialetto) hanno dato vita a una «Accademia del dialetto barese» che cerca di unificare la scrittura del dialetto, visto che ci sono molti poeti dialettali, che perpetuano (a diversi livelli di risultati estetici e di competenza nell’uso del dialetto) la poesia di Saverio Abbrescia (padre della poesia dialettale barese), Davide Lopez, via via sino ai più recenti Savelli, Dell’Era, De Fano.

D’altra parte, gli appassionati del dialetto barese hanno ultimamente avuto un sussulto di orgoglio quando il prof. Sabatini (noto esponente della Crusca e voce autorevolissima del settore), in una trasmissione televisiva di grande seguito, ha parlato del «nobile» dialetto barese. Quindi, non una lingua dura e ostica, come qualcuno ancora si ostina a pensare, ma una lingua «nobile» di grande spessore.

Il dialetto è vivo, insomma, vivissimo. E lo dimostrano anche la presenza e la vivacità del teatro dialettale barese, oltre una narrativa – da Carofiglio a Beppe Lopez, che utilizza molte inserzioni di frasi dialettali baresi all’interno delle storie. Lo dimostrano le tante iniziative che si stanno organizzando in Italia, a cura – per esempio – del «Centro per il dialetto romagnolo», del centro di documentazione laziale per il dialetto, delle Pro Loco del Cilento o di Cori («Lo parlà forte della pora gente»).

Nonostante la globalizzazione e la dittatura dell’inglese, il dialetto regge, resiste, non dà segni di cedimento. Assume il ruolo di contraltare all’omologazione del mondo. Urla forte la bellezza delle differenze, si batte per l’identità di un popolo.

Daniele Giancane